All’ombra della lanterna. Il mio cammino di donna, lesbica e cristiana
Testimonianza di Laura del gruppo Bethel di Genova, tenuta al II Forum dei Cristiani Omosessuali Italiani di Albano (30 marzo/1 aprile 2012)
Appena nata ero una fagottina decisamente in carne con due bolle del bichat alquanto prominenti, gli occhi azzurri ed i capelli, folti, biondi e riccioluti. A detta di mia madre e di mio padre sorridevo sempre. Crebbi sana e ribelle sul terrazzo di casa che, a seconda dei miei giochi di bimba allegra e vivace, ora rappresentava la giungla, ora una pista ciclabile; sì, perché ad un certo punto della mia vita, mi venne regalata una bicicletta.
Ben presto apparve chiaro a tutte e a tutti che ero una frugoletta sempre in movimento, una bimba con l’argento vivo addosso. Negli anni più bui della mia esistenza questa mia caratteristica, insieme alla devozione per Gesù, mi salvò la vita. Ho sempre saputo di essere attratta dalle femmine e non mi riferisco certo ai tempi della scuola, quando mi innamorai della professoressa di matematica.
Nel palazzo in cui nacqui c’era una ragazzina un po’ più grande di me che riuscì a rapire il mio cuore. Ero letteralmente cotta, anche se non corrisposta. Lei sognava di andare in America e di sposarsi. E così fu. Non ne seppi più nulla.
Avrò avuto intorno ai tredici anni quando, durante un colloquio con mia madre, venne fuori che mi piacevano le femmine. La sua domanda fu aperta, netta: «Dimmi un po’, non è che ti piacciono le ragazzine?!» Io scoppiai a piangere e confessai.
E lei fu alquanto dura con me, esclamando: «Non è una bella cosa! Devi smettere! Ci sono cose che non si fanno…» Quello fu l’inizio del periodo più tormentato della mia esistenza.
In quel periodo presi a frequentare alcuni maschi, fra cui Benito, un tipo poco raccomandabile. Un giorno gli confessai la mia predilezione per le femmine e lui, senza batter ciglio, mi rispose che la cosa non rappresentava un problema per lui e che, anzi, se mi andava di frequentare qualche ragazza, lui era d’accordo. Lo lasciai dopo poco. A vent’anni conobbi Lina (nome di fantasia), il mio primo vero amore, più grande di me di dieci anni.
Così nacquero i miei guai in famiglia: mio padre, che era venuto a sapere della mia attrazione per le donne, insospettito da alcuni miei dialoghi telefonici più simili a dei sotterfugi, una sera si accorse che dall’altra parte del filo telefonico a parlare con me non era un ragazzo, bensì una femmina ed iniziò a registrare le mie telefonate. Io ero ignara di tutto. Per me non c’era problema alcuno. Facevo ogni cosa alla luce del sole perciò, quando i miei genitori mi presero da parte per sgridarmi, rimasi assai colpita dal loro atteggiamento decisamente negativo.
A parlare fu mio padre, il quale si affrettò ad asserire che, qualora io avessi seguito Lina in una nota città italiana, durante la successiva fine della settimana, lui mi avrebbe fatto interdire. Un pugno in pieno volto mi avrebbe fatto meno male. Il mondo e la vita intera mi crollarono addosso. Mi aggrappai alla veste metaforica di Gesù e, da allora, non l’ho lasciata più.
Da quel drammatico colloquio in poi divenni più cauta, ma non smisi di vedere la persona che amavo. Più semplicemente, presi a frequentarla di nascosto.
Nel frattempo l’angoscia, che aveva cominciato ad albergare nel mio cuore dopo la minaccia paterna, raggiunse il livello di guardia. Ogni volta che rivedo le foto che mi ritraggono durante quel frenetico periodo della mia vita mi rendo conto che quella bimba vivace e, spesso scalmanata, sempre allegra e sorridente, aveva lasciato il posto ad una ragazza triste, che non stava bene nel proprio corpo, sempre a disagio con se stessa e con gli altri e che l’unica presenza rassicurante nella mia vita era rappresentata da quella figura ieratica, dalla veste lunga, dalle mani sottili e dallo sguardo amorevole.
L’unica cosa che ricordo con chiarezza adamantina, di quel terribile periodo, è Gesù e, con esso, un amore che travalicava qualsiasi dolore, per quanto grande fosse. Di una sola cosa ero certa, nonostante la presenza di Lina nella mia vita: dovevo fare qualcosa per guarire dalla mia condizione, che non osavo neppure nominare; parole come lesbica oppure omosessuale non riuscivano proprio ad entrare a far parte del mio vocabolario.
L’unica volta in cui sentii pronunziare quel terribile termine, fu a scuola, un giorno, quando una mia compagna, perfida ed implacabile, ad un mio commento garbato riferito ad un’altra scolara, così mi si rivolse: «Come parli di ***?! Non sarai mica lesbica?!»
Da quel giorno, al solo pensiero che potesse esistere un termine tanto schifoso, non mi permisi neppure di averlo nella mente. E così il tempo trascorse e, dentro di me, maturò sempre più l’idea della guarigione dall’omosessualità. Fu in quel periodo che Lina mi lasciò… Senza mezzi termini, come da suo costume, mi disse che si era messa con un uomo e che, da quel giorno in poi, sarebbe tornata “in carreggiata”.
Io non ci vidi più dalla rabbia: le feci una scenata terribile e la lasciai, distrutta dal dolore. E Gesù continuava a starmi vicino, con la Sua presenza amorevole e silenziosa. Nel frattempo riuscii a diplomarmi a pieni voti alle scuole superiori e presto mi misi alla ricerca di un corso di studi che mi potesse garantire la piena indipendenza economica, come mi era stato sempre consigliato da mio padre.
Scelsi le materie per diventare tecnica di radiologia e, subito dopo il diploma, venni impiegata presso il pronto soccorso dell’ospedale più grande di Genova. Vi entrai a ventitre anni e vi lavorai per quindici, vedendo passare una quantità considerevole di persone ferite, spesso gravi, per le porte scorrevoli del complesso ospedaliero.
Fu una vera e propria scuola di vita, che mi consentì di comprendere che, spesso, la vita può dipendere da un filo sottilissimo che un semplice imprevisto può recidere nei modi più disparati così, d’improvviso.
Fu durante quel periodo che decisi di entrare in analisi, grazie ad uno psicanalista neo-freudiano che avrebbe dovuto guarirmi dal mio lesbismo. Le mie sedute durarono tredici anni durante i quali, mentre rimettevo a posto i cocci della mia malandata esistenza, più progredivo nella terapia, più mi rendevo conto che nulla c’era da riparare e che il mio analista stava mettendo in atto, nei miei confronti, un’azione sconsiderata, nel tentativo di rimettere a posto un orientamento sessuale, il mio, che andava bene così com’era.
Ci volle del bello e del buono perché io comprendessi che quei cocci, in realtà, erano i pezzi di un rompicapo che andava semplicemente rimesso a posto: pezzo dopo pezzo, ogni frammento della mia vita cominciò a coincidere con quello vicino, fino a che non iniziai a vedere una fioca luce alla fine della nera galleria che, in apnea, stavo percorrendo.
Mi sentivo una formichina nera, su una pietra nera, nella notte nera. Nessuna persona intorno a me poteva scorgere la mia sagoma. Soltanto Gesù poteva vedermi senza sforzo alcuno e sembrava dirmi: «Va tutto Bene… Sei a posto così come sei… Non devi cambiare una virgola di ciò che sei…». E invece io mi ostinavo a frequentare quel terapeuta.
Fino al giorno in cui un evento, inatteso quanto doloroso, giunse a turbare il precario equilibrio che, con grande fatica, avevo raggiunto. Il mio imprevisto bussò alla porta della mia esistenza. E quel filo sottile sembrò sul punto di essere reciso.
Durante il semestrale controllo dei valori ematici imposto dal servizio di medicina preventiva a chi era esposto a radiazioni, saltò fuori un valore sballato: le mie transaminasi erano ben oltre il livello consentito.
Quando già il mio turno ospedaliero era terminato, venni richiamata da un medico la quale, avendo riscontrato l’anomalia, senza mettermi in allarme mi disse: «Laura, credo che la macchina sia impazzita. Il livello dei tuoi enzimi epatici è un poco alto. Nulla di che, solo che dobbiamo ripetere il controllo. Devi tornare qui. Questione di dieci minuti…»
Accettai senza preoccuparmi. Più volte le apparecchiature danno i numeri. Figurarsi se qualcosa non andava nel mio fegato… Una volta fatto il nuovo controllo, le mie transaminasi erano più che raddoppiate. La dottoressa fu costretta a ripetere un’altra volta l’esame. Questa volta non c’erano dubbi: venni ricoverata d’urgenza per accertamenti, a causa di un valore altissimo di enzimi nel mio sangue. La diagnosi non lasciò spazio a dubbi: epatite virale di tipo C, la più fetente.
Rimasi in ospedale per un mesetto circa, durante il quale mi venne prospettata una cura che, lungi dal garantire la guarigione completa, assai rara in casi del genere, avrebbe potuto stroncare un cavallo. Accettai. Non avevo scelta. Per un anno intero assunsi il medicinale. Persi un numero imprecisato di chili, i miei capelli caddero alla svelta, lasciandomi completamente calva.
La mia dieta era ferrea: nessun tipo di fritto, niente burro o altri condimenti. Niente alcolici, zucchero o alimenti che avrebbero potuto irritare il mio già provato fegato.
Quando giunsi a pesare quarantaquattro chilogrammi, un intero anno era passato e la cura era giunta al termine. A seguito dei controlli finali venni a sapere che ero guarita del tutto dall’epatite. Non dalla mia omosessualità…
Riandando a quel terribile periodo, durante il quale Gesù continuò a vegliare su di me, amo pensare che questa malattia, lungi dall’aver rappresentato un’esperienza negativa, per me, mi abbia messa in modo definitivo al riparo da una terapia che non aveva più ragion d’essere: Laura era guarita, sì, ma non dal lesbismo.
Solo dalla sua malattia fisica. Tutto il resto andava bene così com’era. Alla fine degli anni ’90 non c’erano molti libri a tematica omosessuale sul mercato e, di quelli, pochi erano riusciti a chiarire in modo definitivo che l’omosessualità non è un morbo dal quale si possa guarire.
Inoltre, i testi sul lesbismo si contavano sulle dita di una sola mano; fra questi, divorai in poche ore quello scritto da Antonella Montano, l’allora giovane psicologa romana che aveva appena scritto Psicoterapia con pazienti omosessuali.
Del tutto rapita dai concetti in esso contenuti, le scrissi per invitarla a Genova, al fine di tenere un convegno a tema. Accettò. Fu anche grazie a lei se, oggi, posso dire di essere una lesbica del tutto consapevole del proprio orientamento sessuale e serena, oltre che per nulla nascosta.
Da quella proficua esperienza nacque il mio attivismo lesbico per i diritti civili: insieme ad un piccolo gruppo di amiche ed amici fondai un’associazione culturale che, mentre intendeva divulgare le più innovative forme di medicina naturale, si prefisse l’ambizioso scopo di far conoscere all’opinione pubblica ligure il mondo omosessuale in genere e quello lesbico in particolare.
Quando Lidia entrò nella mia vita, era il 2007, ci conoscemmo quasi per caso. Lei stava iniziando a muovere i primi passi, da aspirante pubblicista, nel mondo del web e da un anno circa aveva aperto un blog. La trovai facilmente.
Aveva appena pubblicato un post in cui annunciava al mondo che uno dei suoi più grandi desideri si era appena avverato: fare il bagno con un delfino.
La foto che aveva inserito sopra il commento scritto ritraeva una donna di mezza età, con i capelli corti, sorridente, immersa in una piscina, il busto fasciato da un salvagente, con il muso di un delfino che le sfiorava una guancia. Ancora non lo sapevo ma, con il senno di poi, già mi ero innamorata dei suoi occhi e di uno sguardo sorridente ma con un persistente velo di tristezza.
Decisi di contattarla attraverso la messaggeria privata e, complice il fatto che lei è discepola di Paramahansa Yogananda, le scrissi qualcosa a proposito dei rituali quotidiani del Kriya Yoga.
Lei mi rispose nel giro di qualche ora e, da quel giorno in avanti, non smise di mandarmi messaggi o e-mail nelle quali, con una sincerità disarmante, cominciò a narrarmi i dolori di un cammino che l’aveva portata a capire, a quarantadue anni, di essere lesbica.
Io apprezzai molto la sua spontaneità e ricordo di essermi lasciata andare ad un commento del tipo: «Grazie a Dio ha incontrato una persona come me, che non si approfitterebbe mai della sua sincerità al limite del naïf, altrimenti qualcun altro o altra avrebbe potuto nuocerle alquanto…»
All’epoca entrambe stavamo vivendo una storia alquanto travagliata con le rispettive compagne tanto che, all’inizio della nostra conoscenza, né lei né io avremmo mai pensato che potesse nascere un sentimento amoroso fra di noi.
Così ci scambiammo i numeri di cellulare e, dopo qualche settimana, cominciammo a sentirci. All’epoca lei viveva fuori Genova. Fu così che nacque una bella amicizia.
Io la chiamavo quasi ogni mattina, intorno alle otto e mezza, poco prima che lei entrasse in ufficio, per sincerarmi che lei stesse bene e che la sua compagna non l’avesse fatta soffrire e lei era sempre molto disponibile e ridanciana.
Ci rendemmo presto conto che entrambe eravamo propense ad una certa allegria che era in grado di rendere ogni nostro dialogo telefonico molto piacevole, poiché eravamo facili alla battuta di spirito. Più la battuta era ridicola o assurda e più ridevamo come matte.
Le settimane passavano e la mia storia d’amore cominciò a traballare in modo irrimediabile. Sembrava che io esistessi, per la mia compagna, solo in quanto soprammobile. Fu allora che accadde qualcosa di terribile, nella vita di Lidia: la sua compagna la lasciò.
La mia amica era distrutta dal dolore, reso ancor più forte dal fatto che la ragazza ritornò presto sui suoi passi, convinta di aver perso una persona per lei importante. Lidia mi mise a parte di tutto ciò nel momento più difficile della sua vita, fresca di coming out solo sul posto di lavoro, mentre i suoi famigliari erano ignari di tutto.
E così io divenni la sua più stretta confidente e, mentre ascoltavo i suoi dolori, lei accoglieva i miei. Questo scambio di intimi pensieri durò fino a che entrambe non realizzammo che le persone alle quali avevamo affidato i nostri cuori non erano adatte a noi: la sua storia ebbe termine poco prima della mia e, quando fummo sicure di esserci liberate del tutto dal giogo di un rapporto a senso unico, ci rendemmo conto di amarci.
Fu Lidia a fare il primo passo. Forse fu la prima a capire che fra noi c’era di più… Chi lo sa… Ora, con il senno di poi, potrei affermare con assoluta certezza che di quegli occhi sorridenti, accanto al muso di bottiglia di un delfino, mi ero davvero innamorata, anche se il buon Dio deve aver atteso il momento giusto per farci mettere insieme. Io amo pensarla così…
La nostra conoscenza reciproca continuò a distanza, dato che io vivevo a Genova e lei in Campania e, quando realizzammo che la nostra spiritualità era affine, ci rendemmo conto a vicenda di aver trovato l’anima gemella.
Lidia è una persona credente che si definisce cristiana ma non cattolica ed io penso la stessa cosa di me… Quel volto etereo, quello sguardo amorevole incastonato in un’aureola dorata, l’immagine di Gesù nella mia mente, sono sempre stati presenti nel mio cuore e nella mia anima e so che per Lidia è la stessa cosa.
Da quando stiamo insieme, quattro anni di cui circa tre e mezzo di convivenza, non è passato giorno senza che i nostri pensieri più puri siano stati rivolti a Dio.
Ogni nostra azione, ogni evento della nostra vita appartiene a Lui e, quando don Piero, il sacerdote del Don Bosco di Genova, è venuto a cercarmi per chiedermi se mi sarebbe stato possibile fare la mia testimonianza di fronte alle parrocchiane ed ai parrocchiani, è iniziato un cammino spirituale che, oggi, a distanza di tee anni, può contare su un gruppo di gay e lesbiche cristiani, voluto dal nostro prete e tenuto insieme dall’amore di Dio.
Quello che mi unisce a Lidia non è un semplice rapporto di coppia: quando ci abbracciamo e ci scambiamo i baci più dolci del mondo, quando i nostri corpi si uniscono in un abbraccio, a guidare i nostri gesti è la presenza amorevole di Dio nelle nostre anime. Amiamo pensare che, se stiamo insieme, lo dobbiamo a Lui.
Il dolore che proviamo, ogni volta che qualche esponente della chiesa cattolica si scaglia contro le persone gay o lesbiche con parole di fuoco, ingiuste e fuori luogo, intrise di pregiudizio e discriminazione, è qualcosa che è in grado di penetrarci nel cuore e di lacerarlo in modo profondo.
Quando ci viene detto che l’unione spirituale di due anime durante un atto d’amore carnale è un’esperienza mistica riservata alle coppie eterosessuali, ci rammarichiamo…
Quando ci viene assicurato che ad aver stabilito ciò è Dio e che noi, gay e lesbiche, possiamo instaurare solo rapporti d’amicizia con le persone del nostro stesso sesso, senza coinvolgimento fisico, praticando la castità, ci sentiamo insultate…
Quando ci viene ribadito che le femmine sono esseri inferiori rispetto al maschio e che, come tali, il loro unico compito è la procreazione, ci sentiamo umiliate. Perché sporcare ciò che Dio ha voluto immacolato ovvero l’anima delle donne e degli uomini?
Perché voler vedere assurdi disegni divini che discriminano, quando Dio vuole solo la nostra piena realizzazione di esseri viventi? Perché voler escludere a tutti i costi le persone gay e lesbiche dall’ecclesia, la comunità umana dei cristiani e delle cristiane dal momento che, all’atto del battesimo, l’unione con Dio attraverso Gesù ci ha legate e legati da qui all’eternità, attraverso un ponte spirituale, all’amore cosmico?
Fino a che esisteranno persone che, in nome di una non meglio precisata Autorità Superiore, si permettono di discriminare altre persone, l’amore di Dio nelle donne e negli uomini non potrà dirsi compiuto. Lidia ed io stiamo lottando perché le generazioni future possano, un giorno non lontano, vedere compiersi l’atto supremo d’amore nei confronti di Dio.