Filippo era gay, ma non per i suoi genitori. Un prete racconta
Testimonianza di don Gino Rigordi tratta da “Il male minore – Devianza giovanile, un problema per tutti”, ed. Mondadori, 2007, pagg. 31-32
Una sera, a Milano, sono andato alla “Casa della Cultura” per la presentazione di un libro di storie gay. Nel mio intervento ho detto che ognuno dev’essere libero di vivere la sua sessualità e la sua affettività come decide. La Chiesa ha il diritto di affermare le sue regole, ma devono esserci libertà e rispetto per scelte diverse. Un po’ di applausi, qualche fischio.
Poi, due ragazzi sono venuti a parlare con me dei loro problemi. “Sei il primo prete che non fa lo scandalizzato. Sei sicuro di essere vero?”. “Proviamo a conoscerci” è stata la mia risposta. Filippo era uno studente, figlio di un dirigente aziendale; Marco, un sedicenne imberbe, molto bello. Ci siamo incontrati diverse volte al bar e qualche volta in pizzeria.
Filippo non era sicuro di essere gay, anzi non avrebbe voluto esserlo affatto. Aveva lottato molto contro la sua omosessualità. A scuola lo chiamavano “sciupafemmine”, perché era un bel ragazzo e aveva successo con le donne. Poi si è innamorato di Marco: un amore clandestino, ma travolgente e sofferto.
“Perché Dio mi ha fatto omosessuale? Mio padre e mia madre hanno progetti grandiosi per me. Sono figlio unico, e se lo sapessero gli spezzerei il cuore.” Bisognava capire bene cosa gli stava succedendo ed aiutarlo ad accettarsi. Occorrevano una grande delicatezza e molto rispetto per vedere meglio se la sua omosessualità fosse definitiva.
Ai nostri incontri è venuto un po’ di volte anche Marco, ma poi il loro rapporto si è rotto. Al liceo una bidella li aveva scoperti a baciarsi, lo aveva gridato in pubblico e denunciato la cosa al Preside. I genitori di Marco avevano spedito il figlio da certi parenti a Roma, ma ancora prima, un po’ per paura, forse anche per egoismo, il grande amore era finito.
Filippo era disperato, e per consolarsi ha cominciato a frequentare ambienti della prostituzione, dove un bel ragazzo come lui finiva spesso in qualche letto sbagliato.
“Tu non devi fare marchette. Non è così che si cerca e si vive un amore, non buttandosi via.”
“Potrei venire a letto anche con te, un prete mi manca. Ti piacerebbe?”
“Se mi fai un’altra volta una proposta del genere, ti do un cazzotto in faccia.”
Si è scusato, ma ho sentito tutta la sua vergogna e tutto il suo dolore, e un indefinito senso di pericolo. Fino a quando la sua famiglia l’ha scoperto. Mi ha raccontato solo un po’ di quello che è successo: le lacrime della madre, le botte del padre, la cacciata da casa per la vergogna della famiglia. E poi una lunga teoria di psicologi e psichiatri.
“Lascia stare quel prete, che ti fa più male che bene” gli aveva detto il padre. “Troppo debole, e perfino un po’ complice. Qui, per farti guarire ci vuole una terapia bella decisa!”. Filippo si è buttato dal settimo piano di un palazzo, in una cittadina alle porte di Milano. Prima di compiere il suo gesto estremo, mi ha scritto che mi voleva bene.
E quando sento parole di condanna o di disprezzo per i gay, talora anche da parte di autorità religiose, provo solo tristezza e indignazione.