Il cristianesimo è queer. Lo sviluppo della teologia queer
Articolo della teologa Elizabeth Stuart* pubblicato su The Way, Rivista dei gesuiti inglesi, 1999, pp.371–381, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
La rivolta di Stonewall del giugno 1969 – accesa dagli avventori di un bar di New York, noto come uno spazio relativamente protetto per le persone sessualmente emarginate, che resistettero a uno degli usuali controlli di polizia e reagirono veementemente agli abusi per quattro giorni – è diventato l’inizio mitico e simbolico del moderno movimento di liberazione gay. Essa viene commemorata ogni anno in tutto il mondo occidentale (e non solo) nelle celebrazioni del Gay Pride. Stonewall è il simbolo della trasformazione delle persone omosessuali in persone lesbiche e gay che rivendicano la loro voce, la loro soggettività, il loro agire morale e il diritto a definirsi e determinarsi. È il simbolo del rifiuto della normatività eterosessuale e della patologizzazione dell’omosessualità. Dopo Stonewall le lesbiche e i gay cominciarono a creare uno spazio culturale pubblico per loro e a chiedere l’uguaglianza di fronte alla legge e alla società in generale come stabile gruppo di minoranza.
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Teologia gay
La teologia gay cominciò a emergere negli anni ’70, quando i gay cristiani iniziarono a riflettere teologicamente sul movimento di liberazione gay. Nei primi tempi tale riflessione era dominata dagli uomini, che si ritenevano in grado di fare teologia sulle lesbiche e a favore delle lesbiche. Uno dei primi libri di teologia gay ad essere pubblicato fu una raccolta di saggi di teologi britannici, Towards a theology of gay liberation (1977) (1). I teologi compresi nel volume (molti dei quali erano membri del Gay Christian Movement da poco formatosi) misero in campo idee e tecniche nascenti che sarebbero state sviluppate dai teologi gay nei successivi vent’anni, tra le quali troviamo la valorizzazione dell’esperienza gay come strumento ermeneutico per decostruire le teologie dominanti e l’insegnamento della Chiesa, lo smascheramento delle assunzioni eterosessiste negli studi biblici e teologici “oggettivi” e il ruolo centrale della sessualità nella personalità umana. Tuttavia il libro ha un forte tono apologetico; era diretto alla Chiesa nel suo complesso e al “dibattito gay” che stava appena prendendo piede nelle comunità cristiane del Regno Unito. Durante lo sviluppo della teologia gay, l’apologetica cessò di essere la prima preoccupazione (e venne in gran parte affidata agli eterosessuali progressisti) e venne rimpiazzata dal desiderio di fare teologia da e per le persone lesbiche e gay, per permettere loro di sopravvivere e prosperare nelle comunità omofobe (incluse le Chiese).
Una notevole assente da questo libro innovativo è l’influenza della teologia della liberazione latinoamericana. La teologia gay successiva (la maggior parte della quale scritta e pubblicata negli Stati Uniti) ha dei forti debiti nei confronti della metodologia e delle intuizioni della teologia della liberazione. Da questa i teologi gay hanno assorbito il concetto che Dio è sempre dalla parte degli oppressi e che la teologia consiste in una riflessione critica sul coinvolgimento attivo nella lotta per la giustizia politica e sociale.
L’influenza della teologia della liberazione è molto evidente nell’opera di Richard Cleaver e Gary David Comstock (2). Per entrambi è centrale la vicenda dell’Esodo in quanto evento salvifico paradigmatico della tradizione giudaico-cristiana, il quale rivela che la salvezza è un movimento terreno e storico dalla schiavitù alla libertà, dall’oppressione alla liberazione. Per entrambi i moti di Stonewall sono un evento paragonabile all’Esodo per l’intero popolo gay e il coming out è la personale partecipazione a quel movimento. Cleaver in particolare traccia uno strettissimo parallelo tra l’esperienza della Pasqua ebraica e Stonewall, affermando che dai due eventi è nata una nuova classe di persone (composta di differenti razze, generi, situazioni economiche etc.) e che, come gli antichi Israeliti, il popolo gay ora si trova a vagare nel deserto – sta formando un’identità di gruppo basata su un patto ma sta anche cercando di capire cosa significa non essere più un popolo di schiavi.
La piena liberazione sarà possibile quando la comunità gay imparerà la lezione della Chiesa primitiva, cioè che è solo quando impariamo a solidarizzare con gli altri gruppi oppressi e ci impegniamo nell’”ospitalità eucaristica” con coloro che consideriamo “altri”, pronti a farci mettere in discussione e trasformare da loro, che si creerà un’autentica comunità di amanti. Nel frattempo la comunità gay subisce la costante tentazione dei “luoghi sicuri in Egitto”, di una pseudoliberazione che prende la forma di una cultura commerciale che trasforma le persone gay finanziariamente in grado di parteciparvi in collaboratori di un sistema economico oppressivo e creatore di ghetti – tutte cose che possono essere eliminate velocemente e facilmente. Per Comstock l’Esodo e la resurrezione sono due decisivi movimenti di rivelazione attraverso i quali deve essere letto e giudicato il resto della Bibbia. Questo gli permette di rigettare l’autorità di quei testi biblici che sembrano condannare le relazioni omosessuali.
L’influenza della teologia della liberazione (come anche della teologia di colore) è evidente nella costruzione del “Cristo queer” nell’opera di Robert Goss (3). Alla stregua di altri teologi della liberazione coevi, Goss radica la sua cristologia nella prassi di Gesù piuttosto che nella sua natura e presenta un Gesù che in nome di Dio solidarizza con coloro che sono oppressi ed emarginati dalle istituzioni religiose e sociali del suo tempo. Interpreta la resurrezione come Dio che “esce allo scoperto” a fianco di Gesù, innalzandolo alla condizione di Cristo: una parabola universale di Dio. In tutti i tempi e in tutti i luoghi Cristo è solidale con gli emarginati e gli oppressi. In un mondo omofobo ed eterosessista Cristo chiede alla sua Chiesa di seguirlo schierandosi con la causa queer e scorgendo la sua presenza in quella comunità. Goss utilizza qui il termine “queer” in senso piuttosto specifico per riferirsi all’alleanza fluida dei “fuorilegge” sessuali, lesbiche, gay, bisessuali e transgender che hanno fatto causa comune di fronte alla pandemia di AIDS, celebrando la differenza e impegnandosi nella strategia dell’azione trasgressiva per disgregare le strutture eterosessiste e omofobiche. Goss considera l’azione trasgressiva una parte essenziale della prassi cristiana, nella tradizione dell’azione parabolica praticata dai profeti e da Gesù.
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Teologia lesbica
La teologia lesbica come branca distinta della teologia è sorta dall’esperienza lesbica di marginalizzazione nelle teologie gay e femminista. È molto più debitrice alla teologia femminista che a quella della liberazione ed è stata spesso molto più radicalmente decostruttiva nei confronti della tradizione rispetto alla teologia gay. Senza alcun dubbio la teologa più influente tra quelle che hanno descritto l’esperienza lesbica è stata Carter Heyward. Da questa prospettiva Heyward rigetta sia il Dio del teismo classico che il Dio del liberalismo cristiano come indifferente e al di là dei problemi della sessualità, della fisicità e dell’uguaglianza: tale Dio sta infatti dalla parte degli oppressori (4). Heyward identifica invece Dio con quello che la poetessa nera femminista Audre Lorde chiamava “l’erotico”, una profonda conoscenza ed energia corporale che spinge a sentirsi persone di valore e muove alla reciprocità nelle relazioni con gli altri. Fare esperienza di questa energia relazionale, radicalmente immanente, significa essere coinvolti nel processo del “diventare simili a Dio”, anche se questo è difficile da perseguire in un contesto culturale nel quale le relazioni sono basate sull’ineguaglianza del potere. Per Heyward ciò che definisce il ministero di Gesù è la sua dimostrazione che Dio non sta al di sopra o al di là dell’umanità, bensì con noi e tra di noi. Nella sua vita Gesù ha dimostrato la dunamis di Dio, l’incontrollabile energia della giusta relazione, un’energia che tutti noi possiamo possedere e condividere. La significatività di Gesù non sta nella sua differenza rispetto a noi ma nella sua somiglianza con noi, il che rende la vita cristica possibile per ciascuno di noi (5). In quanto femminista lesbica non può accettare il dualismo tra maschio e femmina, tra sessualità e spiritualità, tra gay ed etero, e di conseguenza non può accettare un dualismo tra divinità e umanità che possa miracolosamente combinarsi in uno e un solo individuo. Piuttosto, quello che la storia di Gesù ci insegna è che tutti gli esseri umani sono in grado di manifestare il potere divino.
Diverse teologhe lesbiche, Heyward inclusa, hanno proposto l’amicizia come modello di relazione più adatto a incarnare l’energia dell’erotico e la giusta relazione. Mary Hunt lo utilizza come paradigma delle relazioni sessuali e non solo, proprio perché l’amicizia è stata storicamente apprezzata dalle donne in quanto esperienza di uguaglianza, mutualità e reciprocità e in quanto forza che stimola alla lotta contro l’ingiustizia (6).
Nella sua analisi, molto più esplicitamente cristiana e teologica, Elizabeth Stuart afferma che questo modello merita attenzione perché è la descrizione dominante tra le persone lesbiche e gay che parlano delle loro relazioni (7). Stuart sostiene che la Chiesa non gay ha molto da imparare dalle persone lesbiche e gay perché forniscono un modello di relazione che evita le strutture del matrimonio patriarcale che sono diventate problematiche per molte donne, oltre a fornire un modello unificante per le relazioni gay ed etero, per i single e chi vive in castità verso un unico sforzo comune, la creazione di un mondo di amicizia. Stuart afferma che il vantaggio dell’amicizia è che ha una lunga storia come relazione ideale nella tradizione cristiana e che è il modello di relazione incarnato da Cristo. Da qui l’esperienza lesbica e gay può essere utilizzata per sviluppare la tradizione cristiana invece di limitarsi a rigettarla.
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Tratti comuni delle teologie lesbica e gay
È possibile isolare due elementi chiave in comune tra la teologia lesbica e quella gay:
– la priorità dell’esperienza nel processo di fare teologia;
– l’assunzione di una identità sessuale stabile, che è un luogo epistemologico; anche se i teologi e le teologhe hanno opinioni diverse sulle origini di tale identità (alcuni la considerano un dato biologico, altri una costruzione sociale), tutti affermano che è stabile abbastanza da poterci fare teologia.
Ambedue le posizioni sono diventate sempre più difficili da sostenere. Le teologie basate sull’esperienza vengono sempre più percepite come problematiche da coloro che le sostengono, che sono diventati consapevoli del fatto che ogni tentativo di rendere più definiti i concetti esperienziali perché siano sufficientemente forti da portare il peso della teologia implicano necessariamente l’esclusione, e quindi fanno violenza all’esperienza degli altri (8). C’è il pericolo che le teologie basate sull’esperienza finiscano per propugnare una forma appena mascherata di essenzialismo (9) o una identità basata sull’oppressione e il vittimismo che, per quanto cerchi di non farlo, tende ad evitare il concetto di peccato, a meno che esso non si applichi a qualcun altro.
La teologia post-liberale ha attirato l’attenzione sulla natura comunitaria, culturale e post-linguistica di ogni esperienza, il che rende problematica la sua utilità come fondamento teologico (10). Le teologie basate sull’esperienza rendono inoltre difficile, per chi non condivide quell’esperienza, comprenderla o tradurla in maniera significativa – e non riduzionista – nel suo linguaggio teologico. Così, le teologie esperienziali sono spesso distaccate dalla vita della comunità cristiana e dai dibattiti ecclesiali. Pur essendo state estremamente efficaci nella decostruzione delle teologie dominanti, hanno avuto meno successo nella ricostruzione della teologia, seguendo la strategia demitologizzante della teologia liberale che svaluta la tradizione senza spesso apprezzare la sua ricchezza e la sua varietà. Spesso, alla stregua del liberalismo moderno, riducono la teologia ad un sistema etico avulso da ogni tipo di cosmologia, che non può che competere allo stesso livello con altri sistemi etici.
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La teoria queer
La seconda è una posizione chiamata in causa dal paradigma noto come teoria queer. La teoria queer è associata in particolare a Michel Foucault e allo sviluppo delle sue idee da parte di Judith Butler (11). Foucault mette in discussione i due concetti centrali su cui si basano la teoria post-illuminista e la teologia della sessualità. Il primo concetto è quello di una identità fissa ed essenziale, che sia sessuale o di altra natura. Foucault afferma la costruzione sociale dell’identità sessuale attraverso il discorso e la ridefinizione costante. Il secondo è l’idea che il potere è un qualcosa posseduto dai gruppi dominanti e utilizzato contro altri gruppi che hanno meno potere, per esempio le donne, i gay, i poveri etc. Il potere è fluido e presente in ogni parte della società, pronto ad essere esercitato da qualsiasi gruppo. Dove il potere viene esercitato c’è sempre una resistenza, anch’essa una forma di potere.
Queste idee vengono sviluppate da Judith Butler, che afferma che il femminismo ha compiuto un errore fondamentale continuando a presumere che esista una stabile identità di “donna” in qualche modo legata al corpo femminile, che è stabile abbastanza da permettere alcune generalizzazioni (non molte, forse). Questa è una posizione paradossale per gran parte delle femministe, considerata la loro antipatia per l’approccio biologista alle questioni di genere. Butler cerca di mettere in discussione la connessione “naturale” tra sesso, genere e desiderio, affermando che il genere e il desiderio sono instabili: infatti una sua famosa conclusione asserisce che il genere non esprime una qualche natura interiore ma è performativo. Impariamo a diventare una donna o un uomo seguendo il copione di genere che la nostra cultura ci fornisce e ogni performance reinscrive quel genere sul nostro corpo. È solo quando alcune persone gettano via il copione o lo interpretano male o in maniera sovversiva che la natura non-naturale del genere viene rivelata. Secondo Butler, le performance di genere parodistiche come quelle delle drag queen o delle coppie lesbiche butch-femme dimostrano nella maniera più chiara la falsità della connessione tra sesso, genere e performance. Butler invoca la resistenza ai copioni di genere che ci vengono imposti e la proliferazione di performance di genere sovversive, ma si rende conto della difficoltà a mettere in atto tale resistenza in quanto nessuno è completamente estraneo ai copioni di genere.
Questo è dunque l’”essenza” della teoria queer: non esiste nessuna sessualità e nessun genere essenziali. La parola “queer” non designa quindi un’altra identità che si affianca a lesbiche e gay (anche se viene talvolta utilizzata in maniera confusa per designare una coalizione radicale di lesbiche, gay, bisessuali e transgender) bensì una destabilizzazione radicale delle identità e la resistenza alla naturalizzazione di ogni identità.
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Teologia queer
La teologia queer, dunque, si identifica propriamente come quella teologia che utilizza un approccio foucaldiano e butleriano alla relazione fluttuante tra sesso, genere e desiderio e che cerca di riflettere teologicamente da tale prospettiva. Non necessariamente viene fatta da persone lesbiche o gay e non necessariamente si preoccupa unicamente delle questioni della sessualità e del genere. In questo senso la teologia queer ha appena cominciato a ritagliarsi uno spazio, ma da alcuni segnali potrebbe diventare uno degli elementi più importanti di uno dei movimenti teologici contemporanei più significativi.
Kathy Rudy si basa sulla teoria queer per affermare che per i cristiani l’unica identità stabile è quella di membri del popolo di Dio, la Chiesa, comunicata dal battesimo e costituita da Dio stesso (13). Nessuna identità dovrebbe avere la precedenza sull’identità cristiana e perciò, all’interno della Chiesa, il genere non può essere un fattore determinante nell’asserire quale tipo di sesso sia morale. Il battesimo, e non la biologia, è il mezzo con il quale si diventa cristiani e in Cristo “non c’è né maschio né femmina”; il genere viene radicalmente decentralizzato.
Per poter stabilire un possibile concetto de-generizzato di sesso morale, Rudy si volge alla tradizione cristiana e alla persistente concezione secondo la quale il sesso deve essere unitivo e procreativo. Nell’insistere che l’attività sessuale debba essere unitiva la Chiesa ritiene che essa debba diluire e trascendere i confini del sé, che è ciò che tutti i cristiani sono chiamati a compiere nel corpo di Cristo. L’amore sessuale infatti fa parte del processo di costruzione della comunione della Chiesa. Il principio procreativo cercava di garantire la dimensione unitiva rendendo ogni atto di amore sessuale aperto alla generazione di un nuovo membro della Chiesa. In anni recenti, tuttavia, perfino i teologi morali cattolici romani hanno cominciato ad affermare che non necessariamente la procreazione deve identificarsi in toto con la riproduzione. Questo è evidente nello spostamento verso la teoria della complementarietà da parte dei teologi, sia protestanti che cattolici romani. La teoria della complementarietà, tuttavia, è completamente basata sul genere ed è priva di una dimensione ecclesiale; inoltre emargina chi fa voto di celibato e i single non meno delle persone coinvolte in relazioni lesbiche e gay. Rudy è critica anche nei confronti delle altre teologhe lesbiche che difendono la reciprocità come criterio per il sesso morale. Rudy trova irrealistico questo approccio: il potere è presente in tutte le relazioni (talvolta come forza positiva) e nessuno di noi è libero dall’inculturazione: non esiste una forma “pura” di sesso, completamente libera da ogni forma di influenza.
Rudy tenta di riconfigurare il principio procreativo basandosi sul concetto biblico di ospitalità. L’attività sessuale deve essere ospitale, sia nel senso che ci apre all’altro, sia nel senso che quella relazione ci aiuta ad aprire la nostra vita allo straniero/estraneo tra di noi. Tutti i cristiani sono chiamati ad essere ospitali in ogni aspetto della loro vita perché il corpo di Cristo è un corpo ospitale. Il sesso morale è unitivo e ospitale, edifica il corpo di Cristo infrangendo i confini del sé e catapultandoci verso lo straniero/estraneo. Non ha nulla a che vedere con il genere.
Nella sua opera più recente Elizabeth Stuart si è spostata da una prospettiva teologica lesbica a una queer (14). Come Rudy, Stuart afferma che il battesimo relativizza tutte le altre identità. Riprendendo il concetto butleriano di parodia, definita come “ripetizione con una distanza critica”, Stuart afferma che la performance parodistica di genere è un elemento essenziale del discepolato cristiano proprio perché il genere viene destabilizzato dal battesimo e decentralizzato nella morale cristiana. La performance di mascolinità e femminilità da parte del battezzato o della battezzata deve essere strana (come è spesso stata nella tradizione cristiana) perché deve costituire una critica culturale del genere. Sempre alla stregua di Rudy, Stuart cerca di radicare la morale sessuale cristiana nell’ecclesiologia, sostenendo che una relazione casta nel corpo di Cristo dovrebbe esibire i quattro contrassegni della Chiesa. Dovrebbe essere una nel senso di essere unitiva; dovrebbe essere santa nel senso di manifestare la realtà divina della pura grazia e del dare in abbondanza che crea la possibilità della parità e della reciprocità in luogo del semplice scambio; dovrebbe essere cattolica nel senso di essere parte integrante del progetto della Chiesa universale; dovrebbe essere apostolica nel senso di non essere un affare privato ma di svolgersi all’interno di una comunità che si considera sottoposta all’autorità di una tradizione, nel costante pericolo di tradirla. Si deve quindi essere umili nel giudicare la moralità di una qualsiasi relazione.
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Teoria queer e “ortodossia radicale”
L’intuizione della teoria queer (che ci è utile per ritornare a una dimensione della tradizione cristiana che la modernità ha oscurato) che afferma l’instabilità del genere nel corpo di Cristo possiamo trovarla anche nel nuovo movimento teologico noto come “ortodossia radicale”. L’”ortodossia radicale” si caratterizza per il rifiuto del liberalismo teologico da una parte e del nichilismo postmoderno dall’altra. I teologi dell’”ortodossia radicale” amano affermare che il cristianesimo non è semplicemente uno dei tanti discorsi che competono tra loro in una condizione di parità perché il cristianesimo è, nel suo discorso e nella sua prassi, nella narrazione che fa di se stesso, più postmoderno di ogni altro discorso. Ciò che il cristianesimo offre è una metanarrazione non fondativa. Le sue dottrine della creazione e dell’incarnazione forniscono una narrazione di resistenza a tutte le forme di essenzialismo, asserendo “la priorità del divenire e dell’emergenza inaspettata (15)”.
Fin dai suoi albori il cristianesimo ha cercato non di sradicare la differenza e la varietà, bensì di incorporare e armonizzare tale differenza nel corpo di Cristo, e se la Chiesa in questo ha spesso fallito, allora non è stata fedele alla sua natura. L’”ortodossia radicale” rifiuta di riconoscere la realtà del regno secolare. Fedeli allo spirito del platonismo che ha a lungo e con insistenza aleggiato su Cambridge, i teologi di questa corrente amano sostenere che non esiste uno spazio al di fuori di Dio e che quindi non c’è nessuno spazio, nessuna disciplina, nessuna narrazione, nessun argomento che si situi oltre il campo d’azione della teologia (16). Il secolare quindi non esiste. L’”ortodossia radicale” differisce dal barthismo quando insiste che la rivelazione e la ragione non intrattengono una relazione di dualismo ontologico. Il Logos è sempre mediato dai discorsi umani, ma in questo processo esso trasfigura e sovverte tali discorsi.
L’influenza della teoria queer sull’”ortodossia radicale” è ovvia, ma non frequentemente sottolineata dagli stessi teologi. Il contributo di Graham Ward al primo libro emerso dal movimento, Bodies: the displaced body of Jesus Christ, riflette sull’instabilità del corpo generizzato di Gesù fin dagli albori della narrazione cristiana in termini che devono molto a Foucault e a Judith Butler. Ma accogliendo le loro intuizioni sulla costruzione sociale e la conseguente natura sdrucciolevole e performativa del genere nella storia del Logos incarnato, Ward trasfigura la teoria queer con il mistero che sta al cuore del corpo incarnato, e di conseguenza di tutti i corpi. Come dice, “Il corpo di Gesù Cristo, il corpo di Dio, è permeabile, transcorporeo, trasposizionale. Al suo interno tutti gli altri corpi trovano la loro collocazione e la loro significatività. Noi tutti siamo permeabili, transcorporei e trasposizionali (17)”.
In questo modo il nichilismo potenzialmente distruttivo della teologia queer viene evitata da una sua radicale reinterpretazione all’interno del contesto del corpo di Cristo, nel quale il genere è talmente inserito in ciò che Ward chiama l’ordine del mistero da poter essere interpretato fedelmente soltanto nella Chiesa in maniera sovversiva. Nello stesso volume Gerard Loughlin utilizza il concetto bataillano di parodia per investigare criticamente l’erotismo di Balthasar, rivelando il suo radicamento in una concezione del genere immobile e legata al moderno maschilismo e in una concezione della biologia superata e patriarcale, concezioni parodiate dalla tradizione cristiana.
Per esempio, Loughlin attira l’attenzione sulla parodia sovversiva del genere in Efesini 1:4-6, dove viene detto che il maschio Cristo ha un corpo femminile, la Chiesa; fin tanto che le donne saranno membri del corpo di Cristo, e quindi chiamate a rappresentarlo di fronte al mondo, saranno catturate dal simbolismo della mascolinità, e fin tanto che gli uomini faranno parte della Chiesa saranno catturati dal simbolismo della femminilità (18).
Conclusione
La teologia queer ha spostato l’attenzione dall’esperienza lesbica e gay al dispiegarsi del genere nella tradizione cristiana e nella Chiesa in quanto corpo di Cristo. Molte lesbiche e molti gay guardano con sospetto a questo spostamento, non sono disposti a sacrificare il senso di identità e la voce distintiva che hanno conquistato da poco e non sono convinti dalla teoria dell’instabilità del genere.
Né la teologia lesbica, né la teologia gay né la teologia queer hanno ancora avuto un impatto apprezzabile sui dibattiti ecclesiali in tema di omosessualità, ma forse la teologia queer, nel suo profondo legame con la tradizione, ha il potenziale per ispirare un impegno di trasformazione autentico e reciproco nell’ambito cristiano sui temi della sessualità.
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1 Malcolm Macourt, Towards a theology of gay liberation (London: SCM Press, 1977).
2 Richard Cleaver, Know my name: a gay liberation theology (Louisville: Westminster/John Knox Press, 1995) e Gary David Comstock, Gay theology without apology (Cleveland: The Pilgrim Press, 1993).
3 Robert Goss, Jesus acted up: a gay and lesbian manifesto (HarperSanFrancisco, 1993).
4 Carter Heyward, Touching our strength: the erotic as power and the love of God (San Francisco: Harper and Row, 1989).
5 Carter Heyward, Speaking of Christ: a lesbian feminist voice (New York: The Pilgrim Press, 1984).
6 Mary Hunt, Fierce tenderness: a feminist theology of friendship (New York: Crossroad, 1991).
7 Elizabeth Stuart, Just good friends: towards a theology of lesbian and gay relationships (London: Mowbray, 1995).
8 Vedi Susan Brooks Thistlethwaite, Sex, race and God (London: Geoffrey Chapman, 1990) e Mary McClintock Fulkerson, Changing the subject: women’s discourses and feminist theology (Minneapolis: Fortress Press, 1994).
9 Nancy Wilson, Our tribe: queer folks, God, Jesus and the Bible (HarperSanFrancisco, 1995), riesce non di meno a definire la cultura lesbica e gay “caratterizzata dall’ospitalità”. L’impossibilità di dimostrare tale asserzione (anche se potrebbero esserci valide prove sociologiche o antropologiche che potrebbero confermarla, come per la mia asserzione contenuta in Just good friends secondo la quale le persone lesbiche e gay tendono a definire le loro relazioni primarie in termini di amicizia) e il fatto stesso che tali asserzioni non possano essere universalmente applicabili le rendono escludenti e poco efficaci.
10 George Lindbeck, The nature of doctrine, religion and theology in a postliberal age (Philadelphia: Westminster Press, 1984).
11 Michel Foucault, Storia della sessualità. Volume 1: La volontà di sapere (Milano: Feltrinelli, 2013); Judith Butler, Gender trouble:feminism and the subversion of identity (London and New York: Routledge, 1990).
12 Questo è certamente l’uso che ne fa Goss nel suo lavoro e anche in Elizabeth Stuart con Andy Braunston, Malcolm Edwards, John McMahon e Tim Morrison, Religion is a queer thing: a
guide to the Christian faith for lesbian, gay and bisexual and transgendered people (London and Herndon VA: Cassell, 1997).
13 Kathy Rudy, Sex and the Church: gender, homosexuality, and the transformation of Christian ethics (Boston: Beacon Press, 1997).
14 Elizabeth Smart, ‘Sexuality: the view from the font (the body and the ecclesial self)’, Theology and Sexuality 11 (1999), pp 7-18.
15 John Milbank, ‘Postmodem critical Augustinianism: a short summa in forty-two responses to unasked questions’ in Graham Ward (ed), The postmodern God: a theological reader (Oxford: Blackwell, 1997), pp 267-268.
16 John Milbank, Catherine Piekstock e Graham Ward, Radical orthodoxy: a new theology, (London and New York: Routledge, 1999), pp 1-20.
17 Graham Ward, ‘Bodies: the displaced body of Jesus Christ’ in Milbank, Pickstock e Ward, Radical orthodoxy, p 176.
18 Gerard Loughlin, ‘Erotics: God’s sex’ in Milbank, Pickstock e Ward, Radical orthodoxy, pp 143-162.
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* Elizabeth Stuart, nata nel 1963, è una teologa inglese specializzata in Teologia Queer . Ha insegnato Teologia Cristaina presso l’Università di Winchester (Gran Bretagna) ed è stata fondatrice e presidente del Centro per lo Studio del Cristianesimo e della sessualità. Ha co-edito la rivista accademica Theology and Sexuality. Ha numerose articoli e pubblicazioni all’attivo tra cui: Gay and Lesbian Theologies: Repetitions and Critical Difference (Teologie Gay e Lesbiche: Ripetizioni e differenza critica); Just Good Friends: Towards a Lesbian and Gay Theology of Relationships (Solo buoni amici: Verso una teologia delle relazioni Gay e Lesbiche); Daring to Speak Love’s Name (Osando parlare nel Nome dell’amore); Religion is a Queer Thing (La religione è una cosa Queer).
Queste opere mostrano il passaggio della Stuart da un approccio teologico liberazionista ad un approccio di messa a terra della teoria Queer. La Stuart ora sostiene che il genere e la sessualità non sono questioni di preoccupazioni teologiche e che il dovere cristiano è quello di rifiutare di lavorare teologicamente con tali categorie.
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Testo originale: Christianity is a Queer Thing: The Development of Queer Theology (PDF)