In cammino verso la completezza tra amore e spiritualità
Riflessioni di Giacomo Tessaro, volontario del Progetto Gionata
Quali sono le cose più importanti nella vita? Per cosa vale la pena vivere? Sono domande che puzzano di banalità e di luogo comune, tanto che vengono spesso parodiate riferendosi alla cosiddetta crisi esistenziale: una battuta da fumetto.
Spesso la prima domanda viene declinata al singolare: LA cosa più importante nella vita, come se la vita potesse essere ridotta a un solo aspetto, a una sola delle sue diecimila sfaccettature, ridotta a vessillo che si inalbera orgogliosamente ma che può nascondere una abissale insoddisfazione o infiniti rimpianti. Fossero pure cose gigantesche e tremendamente importanti come costruire una famiglia unita nell’amore o una passione che diventa lavoro, la vita, gran parte della vita, ti sorprende sempre facendosi trovare altrove, fuori dai confini che abbiamo segnato con tanta cura.
In questo momento credo di sapere abbastanza bene cosa mi occupa e mi appassiona: c’è così tanto da approfondire nei campi che ho scelto, che non basterebbe una vita intera per esaurirli! Eppure, alcune cose che forse credo di avere scelto mi sono state semplicemente offerte dalla vita: le stesse mie inclinazioni innate non le ho certo scelte io. Da cosa deriva la mia passione per le questioni LGBT? Solo dal fatto che a un certo punto una persona che frequentavo si è scoperta gay? Alla fine importa poco: conta il fatto che, attraverso l’impegno gionatino, forse posso essere utile a qualcuno e stringere qualche amicizia vera. Da cosa deriva la mia inclinazione per la “spiritualità” nel senso più ampio del termine, che dall’ateismo mi ha portato alla fede cristiana, che da vaga aspirazione mi ha portato allo studio della Bibbia e della tradizione protestante? È semplicemente un’inclinazione innata verso ciò che va al di là del mondo tangibile (che può prendere forme anche devianti) o è la Grazia di Dio che mi ha prescelto da prima che io nascessi, così che, anche quando ero ateo, in realtà ero già membro della Chiesa invisibile? Che importa: la fede è speranza e più che speranza, è un salto nel vuoto, nell’oceano oscuro dell’anima dell’universo e, quello che è sommamente importante, è qualcosa che ha arricchito la mia vita di esperienze e amicizie come nessun’altra cosa abbia mai provato.
La vita, dicevo, ha diecimila sfaccettature, ma non credo che tutte abbiano la medesima grandezza e profondità. Io penso, e perdonatemi se non siete affatto d’accordo, che la religiosità sia una delle sfaccettature più importanti in assoluto, una forza di vita potentissima: non credo che una persona a cui manca il lato religioso (nel senso di relazione con qualcosa che sta oltre il mondo sensibile, con l’Altro per eccellenza) sia una persona completa, fosse pure un artista o un filantropo di eccezionale sensibilità: la persona completa è sia “filantropa” che “teofila”. Con questo non voglio mettermi, io credente, su un piedistallo: a me manca spesso proprio il primo aspetto; mi riesce abbastanza facile amare Dio, ma ho difficoltà ad amare il prossimo come me stesso, e quindi contravvengo anch’io ai due maggiori comandamenti insegnati da Gesù (ammesso che io ami davvero me stesso, naturalmente). Credo che la teoria dell’homo religiosus, ovvero della religiosità come componente ineludibile dell’essere umano, sia profondamente vera (mi viene da pensare a quegli atei ossessionati da Dio e dalla religione, di cui facevo parte anch’io un tempo, e su cui persone più competenti di me potrebbero dire molto), anche se di questa nostra attitudine naturale alla religiosità noi abbiamo fatto tutto e il contrario di tutto, con risultati così spesso aberranti.
Due delle maggiori sfaccettature della vita sono anche, ovviamente, l’affettività e la sessualità: talmente importanti che, se una volta la religione era al centro della vita individuale e sociale, ora queste due sfaccettature sono diventate centrali nella nostra cultura, al punto che rinunciarvi (volontariamente o meno) è divenuto sintomo di forte disadattamento, o perlomeno di una vita gravemente mutilata. Se moltissimi vivono tranquillamente e “pienamente” senza religione (senza nessun aspetto della religiosità, come la fede e i riti, tranne forse un vago sentimento religioso che si sforzano di non approfondire), quasi nessuno che debba rinunciare a questi due aspetti vive sereno: o forse no, forse sono anch’io vittima dei pregiudizi della cultura in cui vivo. Ad ogni modo, chi si ritrova a vivere questa situazione di mancanza ritiene davvero di vivere una vita non completa.
Personalmente, ritengo che avere la fede, avere esperienze religiose, mi abbia dato tanto, più di quanto immaginassi, ma c’è un ma: qualcosa pur sempre manca. L’esperienza religiosa, in particolare se vissuta all’interno di una tradizione e di una comunità, offre molto ma non può dare tutto: non voglio certo ridurre anch’io la mia vita a un vessillo. Ma chi vive l’affettività e la sessualità come sfaccettature totalizzanti, o pensa che il proprio orientamento sessuale definisca la sua personalità tutta intera, queste domande se le pone? Chi fa della famiglia lo scopo unico dell’esistenza, non pensa mai che esistano cose in cielo e in terra che il matrimonio e i figli non sempre possono dare? Definire se stessi a partire dal proprio legame a un’altra persona o alla proprio militanza LGBT è importante per molti, ma credo umilmente che aggiungere un di più che ci leghi all’universo e al suo mistero, al di sopra (non al di fuori) delle lotte e delle frustrazioni quotidiane, non faccia che arricchire la nostra personalità e il nostro personale mistero di una sfaccettatura tra le più splendenti.
Una caratteristica di molte, troppe persone nella nostra società, è di vivere l’affettività e la sessualità in modo molto estroverso e la spiritualità (quando c’è) in modo molto introverso. Si vivono le proprie esperienze amorose e sessuali (molte delle quali ben poco edificanti e rispettose del prossimo) in modo esibizionista e chiassoso: pare che bisogna per forza far sapere a tutti, sconosciuti compresi, ciò che di più intimo alberga nel cuore umano. La spiritualità e la religiosità, invece, si vivono spesso e volentieri in solitaria, solipsisticamente, senza legami con una tradizione ben definita né tanto meno con una comunità; forse esiste un legame con Dio, con l’Altro che ci dona la vita, ma manca completamente il legame con il prossimo che, come noi, cerca il rapporto con l’Assoluto: come l’amore (includo in questo termine anche la sessualità vissuta nel rispetto e nella dedizione, come dono spirituale non inferiore alla spiritualità nel senso ristretto del termine) è intimo e strettamente personale ma dovrebbe portarci all’incontro con l’altro (l’amato/a), la spiritualità (includo in questo termine le varie forme di religiosità quando sono autenticamente sentite, non praticate per abitudine e/o conformismo) prende diecimila forme diverse, che danno origine alle diverse tradizioni religiose, ma, se è autentica, deve sempre portarci a un doppio incontro: con l’Altro e con l’altro (il prossimo). Amore e spiritualità albergano nel cuore, ma funzionano meglio se incontrano la razionalità (so già che buona parte di chi mi legge non sarà d’accordo), hanno ambedue a che fare con i misteri più profondi della vita, sono essi stessi misteri che sgorgano non si bene da dove: per tutti questi motivi li vedo come sfaccettature affini, fondamentali tutt’e due. Per questo credo che conciliare orientamento sessuale e fede sia una sfida che merita di essere vissuta, in quanto ci mette in contatto con quanto di più sacro ci sia: il mettersi in relazione con l’altro, con l’Altro e con l’altro (oltre che riconciliare il nostro cuore con se stesso).
La mia spiritualità non ama certo essere isolata: fin dal momento in cui ho abbandonato l’ateismo, il mio primo pensiero è stato di mettermi in contatto con persone e istituzioni (so quanto molti odino questa parola: nemmeno io la amo in certi contesti) che potessero accompagnarmi e fornirmi le prime dritte per entrare in questo mondo per me del tutto sconosciuto: si noti, non volevo che mi dicessero cosa dovevo pensare; la mia fede si è sempre sviluppata e nutrita nell’assoluta libertà di pensiero. (Non è forse libero, assolutamente libero, anche l’amore? Non è forse illusorio rinchiuderlo in dogmi inutili?) Questa fede estroversa mi ha portato a mettermi in contatto con realtà molto diverse tra loro (tra cui Gionata è una delle più importanti) e con persone di tutti i generi, a volte trascurando un po’ il mio rapporto con Dio (ma non se ne avrà a male: Lui sta tranquillo ad aspettare il ritorno dalle mie scorribande). Amore e sessualità, invece, sono sempre state per me delle sfaccettature talmente introverse che… praticamente non si notano. Esistono, ma quasi nemmeno io me ne accorgo, tanto da aver perso quasi del tutto la capacità di farmi sorprendere da loro. Come conciliare fede e omosessualità ormai dovremmo saperlo: si dovrebbero piuttosto formare dei gruppi per vivere queste due sfaccettature in modo più estroverso.
Il cammino per diventare persone complete non è facile per nessuno, anzi, si può essere completi sono in maniera relativa, molto relativa: non siamo certo Mandrake. Essere completi in maniera “relativa” però vuol dire anche “mettendosi in relazione”: integrare le tre relazioni che ho abbozzato nel modo migliore possibile per noi, nel momento particolare che stiamo vivendo qui e ora, credo sia la sfida più esaltante e divino/umana che possiamo immaginare: già solo intraprenderla, senza alcuna sicurezza di farcela, vuol dire essere immersi nel cuore della Vita, che non chiede di meglio che sorprenderci, che ci aspetta fuori dai nostri confini per farsi trovare inaspettato, antico e sempre nuovo.