Le parole che non mi hai detto. La scoperta della mia omosessualita’
Testimonianza di Marco
Ciao. Sono Marco e ho partecipato sabato 21 aprile 2007 per la prima volta a un incontro del gruppo Kairos (gruppo di credenti omosessuali di Firenze). Con un sentimento di fiducia che spontaneamente nasce nel mio cuore, mi presento un po’ meglio a voi nella speranza di avere la possibilità di continuare a conoscere Kairos e voi tutti.
Ricordo che un paio di anni fa, un mio amico sacerdote mi parlò dell’aridità spirituale, quale prova che tante persone si trovano ad affrontare nel proprio percorso di fede. Don Francesco cercava di darmi speranza, in un momento per me molto delicato, nel quale sentivo che la mia fede stava scomparendo. “Sta vicino al Signore”, mi diceva.
Da anni e anni avevo sempre vissuto la fede come un prezioso regalo che Qualcuno mi aveva fatto e in quelle settimane, davvero tristi, avevo come l’impressione che quel Qualcuno si stesse riappropriando di ciò che mi aveva prima gratuitamente offerto.
Il contesto era parecchio complicato: tante bellezze, ma anche qualche difficoltà. Facevo parte, ormai da tempo, di un gruppo giovani della parrocchia e i rapporti di amicizia si stavano consolidando con tante persone.
Il mio essere omosessuale era una cosa in me molto chiara e ne avevo parlato con il mio parroco, con un altro sacerdote – don Francesco appunto – e anche con un’amica che partecipava con me al gruppo giovani. Il mio atteggiamento rispetto a ciò era complesso e attento; sentivo che il ragionare di quella mia condizione era veramente uno dei modi per percorrere le profondità del mio io e proprio per questo motivo cercavo di capire, di capirmi, mantenendo una posizione di apertura verso quello che mi si presentava.
Don Francesco mi ha sempre accolto con affetto, ma è sempre stato chiaro nel qualificare l’omosessualità come una tendenza da contenere – al pari, diceva, dell’egoismo – e cercava di confortarmi parlando della mia condizione come di una prova, anzi come della mia prova, come della mia strada per la santità, in poche parole: la castità e l’offrire ogni volta a Dio, nella rinuncia, i miei sentimenti per un altro ragazzo.
Al mio parroco – la mia parrocchia era ancora un’altra da quella nella quale frequentavo il gruppo giovanile – avevo parlato in confessione, ma dicendogli anche che da tempo stavo discutendo della cosa con il mio direttore spirituale – don Francesco appunto – ; lui mantenne un atteggiamento di ascolto senza mai approfondire molto: i nostri rapporti continuarono tranquilli come prima, la mia attività di catechista pure.
La mia amica del gruppo giovani erano anni che sapeva della mia omosessualità, come del resto sapeva che io provavo ad ascoltare le diverse voci che avevo intorno, con un atteggiamento di apertura, volto alla comprensione profonda di quello che io ero e di quello che mi si diceva. Spesso la mia amica c’andava giù pesante e l’aria si fece irrespirabile nel momento in cui lei vide crescere in me un sentimento verso un mio amico.
Ricordo che andavo da lei in cerca di complicità, di comprensione, con il mio cuore innamorato tra le mani e lei trattava tutto con disprezzo. Quando le parlavo delle mie emozioni, sempre era evidente il suo pesantissimo giudizio; i miei sentimenti, dei quali sentivo fortemente l’autenticità, la verità e la purezza erano continuamente negati e trasformati in un inganno, in cose sporche.
I rapporti con questa mia amica continuarono, anche se nelle sofferenza – sicuramente reciproca – per molti altri mesi, fino ad un pomeriggio dell’aprile 2006. Mi venne a trovare a casa e mi comunicò la sua volontà di non volermi più vedere e mi pregava di non cercarla più. I nostri sei anni di amicizia li voleva finire lì.
Per lei era insopportabile continuare nella nostra amicizia: mi sentiva non sereno nei suoi confronti e poi lei non poteva accontentarmi nella mia richiesta di evitare le sue continue pressioni sulla mia vita che io consideravo certamente indebite.
Lei mi diceva che non ne poteva fare a meno, mi diceva che non avrebbe rispettato se stessa e la verità se mi avesse risparmiato la normale dose di intrusioni, ammonimenti, rimproveri, giudizi… Io sarò stato un po’ ostile, ma il fatto era che ero al mio limite di sopportazione.
Nel nostro rapporto ero in uno stato di continua ricerca della sopravvivenza, lei non mi faceva vivere, letteralmente non mi permetteva di avere la quotidianità che io decidevo di avere, dovevo renderle conto del mio tempo, dovevo renderle conto di come gestivo le amicizie. Per me era difficile, ma cercavo di trovare spazi d’amicizia.
Le avevo chiesto, se proprio non riusciva ad evitare alcuni eccessi, se quantomeno poteva smettere di trattare senza tregua come spazzatura il mio essere omosessuale.
Questa sfera affettiva, intima, di progetto di vita lei la considerava effettivamente come spazzatura e io non ce la facevo più a vivere una simile continua violenza: anziché fare quello che liberamente volevo fare nella mia vita, ogni giorno dovevo giustificare quello che ero e dovevo lottare per la mia esistenza come persona. Perché poi la sensazione è proprio quella.
Lei mi voleva costringere ad essere chi non sono. Io le dicevo: «Io sono così. Io sono Marco». Cavolo se lo so. E lei mi diceva: «No, quello che tu chiami Marco non esiste, è una cosa, uno schifo che devi cambiare e io ti devo aiutare in questo perché so che è giusto così» (aiuto medico compreso).
Lei nel momento in cui si è resa conto che io, dopo anni di ascolto di me stesso, di quello che avevo intorno, dopo riflessioni, mi trovavo ad essere sereno, tranquillo nelle mie scelte, invece di accettarmi per quello che sono, di darmi tutto il rispetto che riusciva a darmi, ha pensato bene di abbandonarmi.
Non solo. Con il suo carisma è riuscita anche a convincere gran parte dei nostri amici a fare, in modi diversi, quello che aveva fatto lei. Ha voluto che io avessi il deserto intorno a me. Lo scopo, che successivamente mi è stato rivelato da uno di questi ragazzi, era quello di farmi trovare solo.
Questa mia amica ha detto agli altri che siccome io avevo preso una decisione sulla mia vita che lei considerava grave e sbagliata (aprirmi – tra l’altro solo in teoria – a un progetto di vita con un altro ragazzo) allora l’unica e ultima carta da giocare (avrà detto loro magari che lei aveva già fatto tutto il possibile immaginabile e che io ero chiuso nella mia posizione) era di farmi terra bruciata intorno, cioè farmi rimanere solo affinché io potessi rivedere le mie scelte.
Mi voleva dare una sorta di lezione del tipo: «Se persisti nelle tue scelte, allora perdi tutti i tuoi amici». Quindi io, nella sua testa, avrei dovuto rinnegare le mie decisioni e quello che sono perché mi tornava comodo, per non rimanere solo.
Vi lascio immaginare la sofferenza che ha portato nelle mia vita il vedere il mondo di persone, che ero abituato ad avere intorno e alle quali volevo bene, sparire di fatto all’improvviso. Mi sentivo ferito, escluso, giudicato, non rispettato; provavo anche tanta rabbia.
Ho avuto però anche il dono di avere affianco a me delle amicizie davvero belle che mi hanno sempre accolto e anche accompagnato lungo quei lunghi e difficili mesi. E la mia fede nel frattempo? È rimasta in stand-by. In questa confusione che ha caratterizzato questi ultimi due anni non sono riuscito a sciogliere il nodo.
Ancora mi domando cosa mi abbia portato a quella aridità di cui parlavo all’inizio. Spero di capire il peso che su ciò ha avuto la mia condizione di omosessuale. A volte il modo di pensare della mia amica ritorna a farsi sentire nella mia testa: lei sicuramente direbbe che non sento più così vivo il dono della fede, perché non sono stato capace di prendere la strada del sacrificio indicatami da don Francesco.
Comunque nel frattempo ho dato un po’ retta a don Francesco, anche se non per quello che ho appena detto, ma per quello che dicevo all’inizio circa la vicinanza al Signore: negli ultimi due anni, nonostante queste vicissitudini ho scelto di mantenermi vicino a Dio con la partecipazione alla messa domenicale e soprattutto attraverso la ricerca della Verità vera: quella che si fa Amore.
Credo che questa vicinanza mi abbia fortemente aiutato a comprendere che l’unico modo per andare oltre quelle ferite di cui vi ho parlato sia trovare dei gesti concreti di perdono. Non so se la mia aridità sia pienamente spirituale o solo sentimentale. Io comunque razionalmente ho scelto di essere nei paraggi nel caso in cui la fede ritorni in tutta la sua forza.
È con questo spirito debole, ma speranzoso, che mi avvicino a voi. E il mio cuore vibra nel sentire parole come quelle scritte sul sito:
“Kairòs è l’opportunità di scoprire il proprio vero IO, la propria essenza, la propria autenticità ed è per questo che è luogo di accoglienza per coloro che desiderano vivere serenamente l’omosessualità e la vocazione cristiana. Finalità di Kairòs è la promozione umana, alla luce della Parola di Dio.
Per questo propone momenti di crescita, che aiutino le lesbiche e i gay nel proprio cammino di integrazione profonda tra omosessualità e fede cristiana nella convinzione che l’omosessualità sia riconosciuta come un dono di Dio, affinché la loro vita raggiunga la piena realizzazione attraverso questo cammino di accettazione graduale”.
Da qualche tempo riesco a pensare a quello che mi è successo l’anno passato senza farmi assalire dalla rabbia. Spero presto di saper ragionare davvero in termini di perdono, anche se è difficile e sarà sempre difficile rinnovare in me questa volontà.
Mi rendo conto di aver offerto in queste pagine – seppur nella verità dei fatti – un’immagine forte e brutta di alcune persone, dei miei amici del gruppo parrocchiale e soprattutto della mia amica con la quale avevo un rapporto di maggiore confidenza.
Il fatto è che le persone – specialmente quelle a cui hai voluto un casino di bene –, mi rendo conto, non sono solo i loro sbagli, seppur gravi; e in questo periodo – pensando al perdono, chiedendomi che cosa esso sia – ho rivissuto nella mia mente tanti bei ricordi legati alla mia amicizia con lei; ho ripensato alle tanti parti belle della sua persona, che tuttora non potrei non dire di stimare, di amare.
Sto così riflettendo sull’opportunità di mandarle un segno di questo. Anche perché solo così potrò veramente dirle addio. Un addio che per primo ho subito e che ho vissuto, come sicuramente lo avrà vissuto pure lei, nella sofferenza.
Un addio, il mio, che anch’io pronuncerò e che – lungi da essere, come forse fu il suo, un’infelice e irrispettosa tattica – vuole essere una testimonianza di verità e di bene.