Non sapevo cosa vuol dire essere la madre di un ragazzo gay
Riflessioni di Marta*, semplicemente una madre
Adesso lui non ne parla quasi più. Io provo ogni tanto a toccare l’argomento, ma sento che in qualche modo gli duole. Mi chiedo se se ne sia pentito. Se si sia pentito di averlo detto, e perchè. Di avercelo detto, a me e a suo fratello, quella sera a cena. Lui non tocca più l’argomento. Non accetta le occasioni che gli offro per parlarne. E lo rispetto. Sia chiaro. Perchè un figlio, lo so bene sin da quando erano nella mia pancia, e non sapevo neppure che colore avessero i loro occhi, fin da allora lo sapevo che i figli vanno innanzitutto rispettati.
Oggi ero a parlare con un paio di insegnanti. Mi ingrasso di soddisfazione quando vado a parlare di lui. Ancora un paio di mesi e le scuole superiori sono finite. Per cui non devo perdermi nessuna occasione per sentirmi dire che è un bravo ragazzo, serio, impegnato, e che posso davvero esserne orgogliosa. E io ne sono orgogliosa. Sono io sua madre, e lui è un figlio splendido.
É andata così anche stamattina. “E’ gentile con i compagni e le compagne, disponibile… gentile… non lega con gli altri ragazzi, e sta con le sue amiche. Ma è comprensibile, dice l’insegnante, perchè gli altri quattro ragazzi son ben più superficiali di lui. Signora, può ben esserne orgogliosa”. Quale genitore non vorrebbe sentirselo dire? È bravo, intelligente, ironico, curioso, serio, studioso, …
Non se ne sono accorti. Nessuno di loro se n’è accorto. A volte qualche frase: “Non scende con gli altri a giocare a calcio”, “Non lega con i compagni e preferisce le compagne” … Ma lui è sempre stato così. Fin da piccolo. Per me è normale vederlo circondato da amiche, e non amare sport di squadra, o violenti. Ma non lo avrei mai detto. No, davvero.
E’ un lavorio difficile, questo di cercare le tracce, di raccogliere il filo della sua storia, e rinarrarmela fino a quella sera. Quanto tempo è trascorso? Sette mesi. Già. Quella sera. Faceva caldo. Eravamo a cena, io e suo fratello, e come al solito aspettavamo anche lui. Era giovedì, ed era ora di cena. È entrato ed è apparso un po’ teso. Si è seduto al suo solito posto, e prima ancora di iniziare a mangiare, ci ha snocciolato addosso quelle parole che non avrei mai immaginato di ascoltare, da lui men che meno. Con il capo chino, le mani incrociate sotto il tavolo, ci ha detto velocemente, quasi sottovoce: “Io sono gay”. Sì, esattamente così, ha detto.
Non ricordo se prima avesse detto altro, qualcosa del tipo: “Devo dirvi una cosa”. Non so proprio. La mia memoria ha cancellato ogni altro ricordo. So che l’ho guardato e pensavo scherzasse. “Esci da questo film!”, gli ho detto. Smettila di scherzare. Su questo non si scherza. Il fratello mi precisa: “Non sta scherzando. Non lo vedi?”.
No, non lo vedevo. Non lo avevo mai visto bene, evidentemente. Pur amandolo. Pur amandolo infinitamente. Mi colpirono le dita delle sue mani, bianche. Era tesissimo. Con il capo chino. Aspettando gli effetti della bomba che aveva lanciato. Dovevo credergli, per le parole del fratello, e per le sue mani bianche, fredde, bagnate di emozione.
Mi sembrava un dejà-vu. Avevo già sentito parole simili. Non potevo vivere quei momenti di nuovo. Non poteva il destino accanirsi così beffardamente con me. Ma quella era tutta un’altra storia, e poco aveva a che fare con lui, con mio figlio. Si sopravvive a notizie simili. Sapevo che si sopravvive. Ma si attraversa un dolore indicibile.
Non avevo mai provato, nella mia vita, la sensazione dello stomaco chiuso. Avevo appena iniziato a cenare. Forse avevo ingerito qualche foglia di verdura. Forse anche un pezzo di pane. Ma non riuscii ad ingerire altro, quella sera. Null’altro. Come avere un laccio che stringe forte lo stomaco, e non lascia passare neppure l’aria, dopo che parole pesantissime si erano scagliate dentro di me, nel profondo del mio intimo. Parole dure con la voce dolce di mio figlio. Il mio figlio più piccolo. Come era possibile? E, soprattutto, quanto dolore dovrà vivere? E come potrò proteggerlo? Perchè una madre innanzitutto protegge. Poi viene il resto.
Come avrei potuto proteggerlo dalle violenze che avrebbe potuto rischiare di vivere? Erano queste le prime immagini che mi sono venute alla mente. Lo avrebbero deriso? Offeso? Ferito? Picchiato?
E come dirlo ai nonni? E soprattutto al papà? Omofobo come so essere suo padre. Violento. Stupido. Darà tutte le colpe a me, anche della sua omosessualità. Non sarà facile stare vicino a mio figlio, quando lo saprà suo padre. Se lo saprà.
Siamo separati ormai da dieci anni. Marco era piccolo, quella volta.
Già. Siamo separati. Ecco, i colleghi psicologi, quelli oscurantisti, troveranno questa la ragione della sua omosessualità. Le condizioni ci sono tutte. Ma c’entra? Non c’entra? E comunque, anche se c’entrasse, ormai la situazione è quella che è.
Le mie parole stavano uscendo dalla pancia, senza riflettere, e stavo dicendo stupidaggini. Non riuscivo ancora a pensare.“Tanto, a me più di tanto non importa avere nipoti, mi basta che tu sia felice. Lo sai bene che non ho pregiudizi sulla omosessualità. Sai, no? Che i miei amici sono gay. Che il mio miglior amico è gay. Però ho paura per le difficoltà che dovrai vivere. Mi dispiace. Ti sarò sempre al fianco. Ti voglio bene. Non me lo sarei mai aspettato. Ma sei sicuro? Come fai a dirlo? perchè lo dici? … magari è un periodo … vuoi che ne parliamo? … Lo hai già detto a qualcun altro? Chi lo sa? …
Un brodo di parole mi stava uscendo, mentre lo stomaco era sempre più chiuso, e le mani di mio figlio si stavano colorando, si stava rilassando, forse.
So di averlo abbracciato, sfiorando forse per la prima volta con nuova consapevolezza i suoi leggeri capelli, con una voglia immensa di baciarlo, come quando era bambino, piccolo bambino fra le mie braccia. Il mio piccolo bambino.
Il fratello era uscito dalla stanza, finita la cena, era andato per conto suo, non aveva detto quasi nulla, lasciandoci da soli a mescolare tra quelle parole. Fino a quando anche Marco si alzò e disse le solite parole: “Va be’. Vado sù”. La solita vita, in qualche modo continuava.
Rimasi sola. Confusa e sola. E con lo stomaco chiuso. Mi chiedevo se sarei stata capace di tacere. In fin dei conti la cosa riguardava lui e solo lui aveva ed ha il diritto di dirlo a chi vuole, quando e come vuole. Agli altri, e a me prima di tutto, compete tacere. Forse era la volta buona che avrei imparato a tacere. Per amore e per rispetto di mio figlio. Tacere.
Avevo bisogno di parlarne con l’unica persona che sapevo mi avrebbe capito, e forse aiutato. E dire che in quel periodo avevo deciso di chiudere con questo mondo. Ormai ne sapevo abbastanza, avevo attraversato abbastanza i territori dell’amore “che non osa dire il suo nome”, sentivo il bisogno di volgere i miei interessi altrove. E invece no. Non lo sapevo abbastanza. Non sapevo nulla di cosa significasse essere la madre di un ragazzo speciale. Quella sera non riuscivo ancora a dire “omosessuale”.
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* Conosco Gionata.org ormai da anni. È stato il luogo che più ho frequentato in internet per cercare di capire un’altra vicenda fondamentale nella mia vita. Qui ho conosciuto persone molto belle. E ho avuto modo di conoscere di persona anche i webmaster.
Giorni fa, parlando con Innocenzo, gli ho detto che mi piacerebbe scrivere di queste mie vicende su Gionata, ma che non so neppure da dove cominciare, tanto è un groviglio, che non è facile dipanare.
“Fallo a puntate”, mi ha risposto. E allora, se volete, questa può essere la prima puntata, un po’ diario, un po’ ricordo. Un racconto in itinere. Che un po’ va avanti, e un po’ torna indietro, per cercare di capire, e trovare il filo di una vicenda normale, perchè normale è innamorarsi e amare, anche se l’orientamento non è quello normalmente considerato normale.
Non ho idea di come andrà a finire, perchè si sta ancora svolgendo. E io non ho ancora compreso tutto. Anzi, a volte mi pare di non aver capito niente.