“Angels in America”, storie di angeli e uomini d’America
Articolo tratto da Diario n.16 del 2007
«Sono cresciuto in un piccolo paese della Louisiana, dove gli ebrei erano quelli che non credevano in Cristo e che sarebbero andati all’Inferno.
I miei genitori mi hanno sempre insegnato a ribellarmi al pregiudizio, a non aver paura di essere minoranza. La mia idea del pluralismo democratico americano si è formata lì, sulla necessità di salvaguardare le minoranze e di vivere secondo una legge di giustizia morale».
Con queste parole Tony Kushner racconta, in questa intervista, l’idea di tolleranza che è alla base dell’opera teatrale “Angels in America”. Storia di tradimento e grazia nell’America reaganiana, dramma sul vivere e sullo sforzo di fissare e di liberarsi dalla propria identità sessuale, etnica e religiosa perchè, oggi, «il rifiuto della disperazione è un obbligo».
Per Tony Kushner vale l’antico motto di Denis Diderot: «Toglietemi la politica e la morale, e non saprò più di cosa parlare». Da un’ora di conversazione con Kushner si esce, infatti, con alcune centinaia di opinioni su guerra in Iraq, giustizia sociale, buco nell’ozono, ego-anarchisti, fondamentalisti cristiani, intercettazioni dell’Fbi, legge mosaica, omofobia, dinastia Bush, antisemitismo.
Il concetto non è poi molto diverso da quello che Kushner mette in bocca a Louis, il suo alter ego teatrale di Angels in America: «Non ci sono angeli in America, non c’è passato spirituale, non c’è passato razziale, c’è solo la politica».
In realtà, mentre il torrente in piena procede, ci si rende conto che la «politica» di Kushner è qualcosa di vasto e mobile, è il gioco delle relazioni sociali, il groviglio di amore, odio, sesso, desiderio, speranza, malattia che tesse la vita di ognuno e che lui porta a teatro.
Questa miscela di disagio e ipotesi di vita debutta sui palcoscenici italiani il prossimo 2 maggio (ndr 2007). Al Teatro delle Passioni di Modena, Teatridithalia porta in scena con Emilia Romagna Teatro Angels in America. Si avvicina il millennio, la prima parte dell’opera più famosa di Kushner. «Un’impresa non facile», ammettono i due registi, Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, che prevedono di montare la seconda parte, Perestroika, nell’ottobre 2008.
L’impresa è titanica: complessivamente, sette ore di spettacolo, più di trenta personaggi, otto atti, 59 scene, un epilogo. E poi, in omaggio al sottotitolo della commedia, Fantasia gay su temi nazionali, una struttura che ricorda appunto una «fantasia», un’opera musicale fatta di arie, duetti, terzetti, variazioni e interludi, con scene e battute che si sovrappongono, angeli che volano e ben 71 cambiamenti d’ambiente: dalle camere da letto alla corsia d’ospedale a Central Park al Polo Sud.
Successo travolgente. «Nemmeno io potevo immaginare cosa sarebbe diventata Angels in America », racconta oggi Kushner. L’opera nasce infatti come lavoro su commissione nel 1987, quando lo scrittore viene avvicinato da Oscar Eustis, regista del Mark Taper Forum di Los Angeles. Eustis, rimasto impressionato dal primo lavoro di Tony Kushner, A Bright Room Called Day, gli chiede una commedia sull’impatto dell’Aids nella comunità gay di San Francisco.
I due cercano finanziamenti, conducono workshops, sviluppano il lavoro. Millenium approaches va in scena per la prima volta a San Francisco nel 1991; Perestroika debutta l’anno successivo. Nel 1993-94 le due parti arrivano a Broadway. Il successo è immediato. Kushner vince il Pulitzer, due Tony, una miriade di altri premi. Nel 1994 Harold Bloom inserisce Angels in America nella lista dei capolavori del suo celebre Western Canon.
Peter Eötvös ne trae un’opera musicale, Robert Altman comincia a pensare a una versione televisiva (che vedrà la luce soltanto nel 2003, con Al Pacino, Meryl Streep, Emma Thompson e la regia di Mike Nichols; i produttori erano rimasti spaventati dai preventivi di Altman).
Angels trasforma un giovane e oscuro scrittore di teatro nel più celebre drammaturgo della sua generazione. Kushner scrive altre commedie (Slavs, Homebody/Kabul, Caroline or Change), diverse sceneggiature per il cinema (la più recente, Munich, per Steven Spielberg). I suoi interventi pubblici – che si tratti di Martha Stewart o di war on terror – ne fanno l’uomo di spettacolo americano più éngagé, una sorta di nuovo Arthur Miller in un momento in cui il teatro – e la cultura – tendono a staccarsi dalla vita pubblica.
Il suo matrimonio in Massachussetts con il fidanzato di sempre, l’editor di Entertainment Weekly Mark Harris, viene segnalato sulla pagina dei «matrimoniali» del New York Times. È la prima volta che il giornale dedica quello spazio a una coppia gay.
«All’inizio Angels in America doveva essere proprio una riflessione sulla mia identità gay», ricorda lo scrittore, «Scrivendolo, è diventato qualcos’altro». Forse sarebbe meglio dire che Angels in America è diverse cose in un’opera sola: una storia di tradimento e grazia nell’America reaganiana, un dramma sul vivere con – e morire di – Aids, sullo sforzo di fissare e di liberarsi dalla propria identità sessuale, etnica e religiosa.
Ambientato a New York nel 1985, al culmine dell’epidemia di Aids, Angels segue le vite di un gruppo di uomini e donne legati da uno strano destino circolare. Prior Walter è un giovane Wasp cui è stato diagnosticato l’Aids. Il suo fidanzato Louis, ebreo radical e intellettuale, non sopporta la malattia di Prior, che abbandona, legandosi al mormone repubblicano e omosessuale nascosto Joe Pitt, sposato alla Valium-dipendente Harper.
Joe è il protégé dell’avvocato omofobico e a sua volta omosessuale non dichiarato Roy Cohn, uno dei personaggi realmente esistiti della commedia (mandò sulla sedia elettrica Ethel Rosemberg), che muore di Aids assistito dalla drag queen e infermiere Belize, il migliore amico di Prior.
La scena di questo girotondo è, come ci viene più volte suggerito, l’America di Ronald Reagan, un universo folle che sprofonda nel caos morale. «Siamo i bambini di Reagan», canticchia a un certo punto Louis. «Forse siamo liberi. Di fare qualsiasi cosa. Bambini del nuovo giorno, menti criminali. Egoisti e ingordi e incapaci d’amare e ciechi».
Per Kushner questa così decisa caratterizzazione storica è ciò che rende Angels in America straordinariamente attuale. «Può sembrare un paradosso, ma non lo è. L’America di George W. Bush realizza tutte le promesse di quella di Reagan».
E quindi, in ordine sparso, un’amministrazione che si identifica con il capitale e che fa diventare sempre più ricchi i ricchi, una classe dirigente allergica al governo federale, che pensa che l’egoismo sia una virtù e che la società funzioni meglio senza tasse e controlli, un ceto politico di cowboys che ha in spregio la diplomazia e che bombarda e uccide e irrompe in società di cui non conosce nulla. «Insomma, l’America di Katrina», spiega Kushner, «che è poi il paese che Reagan aveva promesso: un luogo senza rete sociale, dove se hai i soldi ti salvi e se non li hai muori sepolto dal fango».
Contro quest’America Kushner continua a definirsi un «socialista e materialista storico», che crede nella redistribuzione della ricchezza, nella giustizia sociale, nella tradizione dell’«ebraismo etico e agnostico». «La mia sensibilità politica», racconta Kushner, «è modellata sulla tradizione ebraica.
Sono cresciuto in un piccolo paese della Louisiana, dove gli ebrei erano quelli che non credevano in Cristo e che sarebbero andati all’Inferno. I miei genitori mi hanno sempre insegnato a ribellarmi al pregiudizio, a non aver paura di essere minoranza. La mia idea del pluralismo democratico americano si è formata lì, sulla necessità di salvaguardare le minoranze e di vivere secondo una legge di giustizia morale».
L’insistenza sui temi pubblici e politici di Kushner non deve comunque trarre in inganno. Angels in America è il primo pezzo di teatro americano a guadagnare lo status di classico dai tempi di Un tram chiamato desiderio e Morte di un commesso viaggiatore.
L’impresa non è stata raggiunta tanto grazie alla trasformazione del drammaturgo in «intellettuale pubblico», che arringa, provoca, sfida, istruisce il pubblico dal palco. Kushner è l’uomo che ha scritto: «Non c’è abbastanza rabbia per tutto ciò che mi fa arrabbiare», ma è anche colui che ha detto: «I miei lavori migliori nascono dalla tensione continua tra responsabilità e frivolezza».
Kushner lo chiama «teatro epico», debitore nei confronti di Shakespeare ma anche dell’opera barocca italiana: «Penso si debba chiedere al teatro di fare cose impossibili, come far volare un angelo, lanciare un libro infiammato, materializzare i sogni e girare il mondo.
D’altra parte, che ragione c’è di restare tutto il tempo in cucina?». Una dichiarazione antinaturalistica secondo Kushner in perfetto accordo col migliore teatro americano: «In Europa sottovalutate il teatro americano. Lo limitate alla dimensione realistica. Non è così. In Morte di un commesso viaggiatore e in Un tram chiamato desiderio ci sono momenti di puro espressionismo. E la più grande commedia americana, Lungo viaggio verso la notte, è tutto tranne che realistica».
In queste settimane Kushner sta scrivendo la sceneggiatura per il nuovo film di Spielberg, dedicato ad Abraham Lincoln. Il salto può apparire enorme, dagli «angeli» di 20 anni fa. In realtà non è così. Ieri come oggi, Kushner continua a occuparsi del vero tema centrale che percorre la letteratura americana: e cioè la storia, le condizioni, il destino dell’America.
L’approdo a Lincoln è naturale per l’autore di Angels in America: dove Prior proclama il suo essere Wasp, dove Joe, Harper e Hannah sono mormoni, dove il Polo Sud di Harper è una «frontiera» e un rabbino annuncia che gli ebrei hanno percorso un «lungo viaggio» tra Europa e Atlantico prima di raggiungere la «terra promessa» America.
Non è un caso che oggi Kushner definisca Angels, oltre che una commedia «gay e ebraica», anche una «commedia di New York», nel senso di un’opera che si nutre del pluralismo, della diversità, delle identità frastagliate e incerte che compongono il crogiuolo della città.
«È per questa sua natura così mobile e rivoluzionaria che i conservatori e i fondamentalisti di tutto il mondo la odiano». Anche le parole con cui ci saluta, in fondo, alludono a questa dimensione così intimamente americana della sua opera.
Gli chiediamo perché, dopo tanta disperazione e dolore, Angels in America si conclude con Prior, Louis, Belize e Hannah – un Wasp, un ebreo, un nero e un mormone – a parlare del Great Work, della battaglia per la vita, che deve continuare. Ci risponde ancora, Kushner, che «il rifiuto della disperazione è un obbligo».
Qualcuno ha scritto che la grande letteratura americana oscilla tra «il sogno e la caduta dal sogno». Tony Kushner mostra, in fondo, la tenace persistenza di quel sogno, anche dopo la caduta.
Tony Kushner, Angels in America, Ubulibri, 1995, 184 pagine
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