Queer e musulmana? La mia vita dimostra che è possibile
Riflessioni di Lamya H* pubblicate sul sito Salon (Stati Uniti) il 20 luglio 2015, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
Sono eccitata al pensiero di questo appuntamento, davvero. È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che mi hanno spezzato il cuore e la mia migliore amica ha preso in mano la situazione, decidendo per me che è tempo di andare oltre. Mi ha ingiunto di scaricarmi Tinder, ha fatto il tifo per me mentre completavo alla bell’e meglio il mio profilo, mi ha incoraggiata mentre mi muovevo nel sito e parlavo con le donne più simili a me. C’è voluto un po’, ma ora sto cominciando a prenderci la mano. E ora sono eccitata per questo appuntamento. Questa donna è tra le più compatibili che Tinder mi abbia trovato. Abbiamo scherzato, ci siamo prese in giro tantissimo, una cosa fondamentale per me: è una persona intelligente, divertente, piacevole da parlarci assieme.
Ci dobbiamo incontrare per un gelato e il mio appuntamento è un po’ in ritardo. Guardo attentamente le facce dei passanti per intercettarne una che somigli alla sua foto di Tinder: voglio beccarla prima che lei becchi me. “Cerca un hijab” le ho detto, un po’ ansiosa di rivelare cosa si nasconde sotto i cappelli e i caschi delle mie foto, “È difficile confondermi”. Mi ha risposto con nonchalance, senza reazioni feticiste né di sorpresa: mi ha messa a mio agio. Sono eccitata al pensiero di questo appuntamento.
A meno che.
A meno che i nostri sguardi si incontrino timidi nel medesimo istante, ci si scambi un veloce saluto prima di ordinare, ci si sieda con i nostri gelati e parta la seconda domanda: “Allora, Lamya, ma sei contemporaneamente queer e musulmana?”.
Sempre a meno che.
È una cosa che accade spesso e ho elaborato una mia strategia: per le ragazze bianche medie poco furbe, per le donne che frequentano i bar lesbici e parlano di nulla, per quelle che non perdono tempo per conoscermi e ovviamente non ascoltano le mie risposte. Per sbarazzarmene velocemente, per passare oltre.
Il copione è andato pressapoco così: prima cosa, l’indulgenza: alzo brevemente gli occhi al cielo. Poi, la risposta che ho pronta in saccoccia: che essere queer e musulmana non si escludono a vicenda, che l’Islam non è un monolite, che il mio Islam è aperto e il mio Dio è di ampie vedute. Che anche l’essere queer non è monolitico, che esistono vari modi di essere queer, diverse narrazioni che non sempre assomigliano ai modelli occidentali del coming out, del creare un nido, della famiglia nucleare che imita il modello etero. Che la gente non deve essere ossessionata da chi, come noi, vive a questi crocicchi apparentemente improbabili, che il mio essere queer e musulmana non ha bisogno di riconciliazione perché sono due cose profondamente intrecciate tra loro, nella parte più profonda del mio essere.
Ho finito di istruire, ma sono esausta e il mio interesse è svanito. I successivi tentativi di scherzare vanno a vuoto: dopo aver lasciato passare un po’ di tempo, prendo la scusa del lavoro per svignarmela. Il mio amico mi chiama a tarda sera, improvvisamente, quando da un pezzo è passata l’ora di telefonare. Fa uno squillo e riattacca. La nostra amicizia dura da parecchio tempo e so benissimo che devo rispondere immediatamente quando telefona di nuovo, prima che possa cambiare idea. Sussurra un ciao, e questo è il segnale che devo prendere il controllo della conversazione: sprofondo nel divano con il telefono nella semioscurità del salotto e e mi metto a chiacchierare di tutto e di niente fino a che non è pronto a parlare.
Lentamente ce la fa. Suo padre è malato. Ha appena finito di parlare al telefono con sua madre, con i suoi commenti maliziosi sul suo ex ragazzo e le sue forti colpevolizzazioni. “Preghi in questo periodo?” gli dice, “Stai leggendo il Corano? Se lo facessi, conosceresti la differenza tra giusto e sbagliato”. È arrabbiato e stanco, ma soprattutto stanco: del presunto legame tra la sua omosessualità e i problemi della sua famiglia, dei silenzi, del non essere capace di rispondere a tono, di lasciare che le cose peggiorino in nome della compassione. Ma lo sanno i suoi genitori che lui soffre, che gli stanno facendo del male, che gli stanno togliendo il sollievo che ha trovato nella religione? Il suo discorso si muta in lacrime e mi ritrovo a piangere con lui, per il mio amico intimo.
A meno che.
A meno che, mentre le lacrime si sciolgono nel silenzio che regna confortevole tra di noi, non venga fuori una domandina: “Tu come fai, Lamya? Come fai a essere contemporaneamente queer e musulmana?”. A lui, al mio amico, non posso mentire, a chi nei tempi duri era presente, a lui per il quale ero presente nei suoi tempi duri, a chi sa cosa vuol dire lottare con l’essere queer e musulmana. Lui mi rifiuto di liquidarlo con risposte preconfezionate, non posso assolutamente farlo e il motivo è questo: per me stessa, risposte preconfezionate non ne ho.
Il concetto stesso di risposta non mi va, come se fossimo creature statiche che hanno bisogno di comprendere tutto, che possono vivere e amare solamente se hanno compreso tutto, senza alcuno spazio per la crescita, il pensiero critico, l’apprendimento. Queste risposte non le voglio proprio avere. Ecco invece alcune cose che mi vanno bene, alcune cose che rendono possibile essere contemporaneamente queer e musulmana, che lo rendono possibile per me.
Il mio essere queer e il mio essere musulmana sono troppo strettamente intrecciati perché possa scegliere tra loro, perché possa pensare che l’una cosa esclude l’altra. Non ho bisogno che me lo dica un imam, che mi dica che ambedue le cose possono darmi conforto e gioia. Non le voglio le spiegazioni dei versetti coranici e degli hadith [i detti del profeta Muhammad n.d.t.] così spesso citati, che secondo molti dicono il contrario. Non che io non abbia studiato attentamente tutte le spiegazioni, tutta l’ermeneutica, tutti i commenti queer al Corano che mi sono capitati sotto mano, eccome se l’ho fatto: alcuni sono convincenti e altri decisamente no, alcuni sono stiracchiati, altri giocano con le parole. Ma quello che mi ha insegnato questo processo è che un testo è un testo è un testo. I testi portano con sé i contesti e le interpretazioni ed è possibile prendere ciò che mi dice qualcosa e lasciar perdere il resto per basarmi sulla mia fede e la mia pratica, sulla mia fiducia nella giustizia e nella compassione.
Per poi estendere quella compassione agli altri, in particolare alle mie comunità islamiche. Non devo rinunciare alle mie comunità, non posso ritenerle del tutto responsabili della loro noncurante omofobia in un mondo omofobo. Penso a quando la politica omonazionalista in voga nella comunità LGBT è stata brandita come un’arma per emarginare ancora di più le mie comunità islamiche, dipingendole come “retrograde” e giustificando l’occupazione. Non devo giustificarmi perché continuo a tornare alla mia moschea, non ho bisogno di dare un nome all’estasi spirituale e al senso di appartenenza che traggo da questo spazio imperfetto, da questa comunità imperfetta. Questa comunità imperfetta che lotta con l’omofobia ma anche con il razzismo e la misoginia, che si batte al tempo stesso contro la sorveglianza e la schedatura razziale, le guerre che vogliono salvarci da noi stessi, le nostre patrie dilaniate dai droni. Questa comunità imperfetta con la quale mi sono impegnata a lottare e contro la quale mi sono ugualmente impegnata a lottare.
Non ho bisogno di sancire il mio essere queer perché sia comprensibile – alle persone etero, attraverso il matrimonio, affermando che l’omosessualità dipende dalla biologia. Non ho nemmeno bisogno di sancire il mio essere queer perché sia comprensibile alle persone omosessuali – non devo rinunciare allo hijab, non devo fare coming out se non voglio farlo: non ai miei genitori, non ai semplici conoscenti, nemmeno a tutti i miei amici.
Quello di cui ho bisogno, invece, quello che capisco di non poter vivere senza, è la comunità, specificamente la comunità islamica queer: la famiglia che mi sono scelta, che comprende le persone che mangiano insieme e protestano insieme, con le quali posso essere queer e musulmana a mio piacimento senza dovermi difendere, senza dover spiegare e giustificarmi. L’iftar [pasto serale n.d.t.] ogni giorno durante il Ramadan, leggere il Corano insieme, andare in spiaggia in gruppo. Persone che mi raccolgano quando ho il cuore spezzato di brutto, persone su cui possa contare per essere sostenuta perché a loro volta hanno contato su di me. Persone che offrano la definizione dell’amore.
Non fraintendetemi: ci sono ancora giornate in cui il fatto stesso di vivere, il futuro, sembra tutto impossibile, giornate in cui parole superficiali e caustiche ti bruciano dentro, giornate in cui mi siedo da sola su uno scalino e piango, in cui è più facile dire le cose giuste che crederci, giornate in cui sono esausta e non reggo. Giornate in cui è più facile sognare il modo più semplice di uscirne, di tagliare i legami, di assimilarmi, o di cedere e fingere.
Ma ci sono anche giornate che vibrano di possibilità rivoluzionarie: strutture famigliari alternative e Islam radicali e sogni di comuni islamiche queer. Sono le giornate che ti fanno pensare che vale la pena, le giornate che rendono possibile essere contemporaneamente queer e musulmana, lasciar perdere gli “a meno che”, per essere, semplicemente.
Parlo di tutto questo, al mio amico. E, invece di sentirmi esausta, provo solamente sollievo.
* Lamya H è una scrittrice queer musulmana che vive a New York.
Testo originale: Yes, it’s possible to be queer and Muslim