Un gay diviso a metà. Ritrovare nella teologia di McNeill “la sessualità secondo Dio”
Testimonianza pubblicata sul blog opentabernacle (USA) il 7 gennaio 2010, liberamente tradotte da Mery
Una delle cose più importanti che ho fatto nel 2009 è stata leggere Sex As God Intended/La sessualità secondo Dio (editrice Lethe Press, 2008, 265 pagine) del teologo John McNeil. Quelle che seguono sono alcune considerazioni su un libro che, a mio parere, ha tantissimo da offrire ai lettori.
Poiché ho molte cose da dire, sia sul libro, sia sull’importanza di McNeil come pioniere della teologia gay, scriverò questa recensione in più riprese. La prima parte, che fa da premessa alla riflessione sul libro, contiene una mia personale testimonianza della forza della sua teologia.
Sex as God Intended mette insieme un’intera vita di considerazioni profetiche da parte del teologo sulla vocazione delle persone omosessuali nella Chiesa e nella società.
In un momento in cui nelle comunità cristiane era pressoché inesistente qualunque discorso teologico da parte di o sulle persone omosessuali, John McNeil ne plasmò uno, partendo, da un lato, dalla sua esperienza gioiosa e insieme dolorosa di credente omosessuale, dall’altro, dagli anni di lavoro come terapeuta al fianco di altri gay credenti.
McNeil tracciò un cammino per quei tanti di noi che ancora credono che sia fondamentale tenere insieme la propria vita di omosessuali e la propria esperienza di fede.
Ricordo benissimo il mio primo incontro con l’opera di McNeil. Ero un giovane teologo neolaureato all’inizio della sua carriera nelle università cattoliche, quando lessi quel saggio di straordinaria modernità che è La Chiesa e l’omosessuale.
Anche se, durante tutto il periodo dell’università, avevo avuto una relazione stabile con un ragazzo, relazione che, in realtà, era già cominciata alle superiori, né io né il mio compagno Steve eravamo pronti a dichiarare pubblicamente la nostra identità, tantomeno all’inizio di una carriera come teologi.
Non eravamo pronti a una simile dichiarazione perché non l’avevamo fatta nemmeno con noi stessi, nonostante la relazione lunghissima (e nonostante quella che dentro di me sapevo essere la verità, anche se non volevo ammetterlo).
Non sapevamo come dirlo. Molto semplicemente, per teologi come noi nella Chiesa non c’era un tracciato da percorrere. Non c’era posto per noi, punto e basta. L’unica via era quella della negazione, una negazione di se stessi che riduce la persona a brandelli, una via in cui la sorgente della vita creativa ed intellettiva, cioè l’amore per un’altra persona, non può essere nominata, considerata, presa come punto di partenza della propria vocazione nella Chiesa.
Essere divisi a metà fa male. Ferisce. Produce una sofferenza che accompagna l’intera vita. Fin dall’inizio della mia carriera di studioso di teologia, in tutti i contesti pubblici cominciai ad essere assalito da un terrore paralizzante, che ora riconosco essere stato il prezzo che pagavo per aver creduto di poter tenere separata, e nascosta, la mia vita privata da quella pubblica di insegnante in un’università cattolica.
Fu solo quando quest’ansia da prestazione divenne così forte da sopraffarmi, al punto che a malapena riuscivo ad entrare in aula, che cominciai a guardarne in faccia le cause – e a guardare in faccia quel che ero.
Durante gli anni faticosissimi in cui feci coming out, prima con me stesso, poi con la famiglia e gli amici e, infine, pubblicamente, contattai McNeil. Il libro “La Chiesa e l’omosessuale”, mi aveva indicato una strada. E in quella strada, io volevo credere. Volevo credere nella profondissima intuizione spirituale secondo cui noi omosessuali siamo stati creati come siamo per uno scopo e abbiamo un posto nel piano di salvezza di Dio.
Ma credere in questa strada e vederla aprirsi davanti a te, sono due cose molto diverse. C’era (e continua ad esserci, perché il coming out è un processo continuo e ininterrotto) il problema di vivere ciò che nel profondo del cuore sappiamo essere la verità, di vivere la nostra vocazione di gay credenti e nel mio caso di teologo gay, e allo stesso tempo vivere all’interno di una Chiesa che rifiuta di riconoscere la grazia di questa vocazione. Che, anzi, rifiuta i gay credenti in toto. Che non apre nessuna porta ai gay dichiarati per lavorare nelle istituzioni religiose.
Perciò, scrissi a John McNeil in piena crisi. Mi rispose affettuosamente, come prete (anche se come un prete che era stato sospeso dai ministeri per aver dichiarato apertamente il suo orientamento sessuale) e come terapeuta. Mi assicurò che avevo un posto, una vocazione, nella vita. Queste parole aprirono una strada nuova, soprattutto nel mio animo, anche se, a me e Steve, la Chiesa non faceva altro che sbattere porte in faccia.
Nel periodo del coming out, per me era fondamentale ascoltare parole come queste, mentre mi arrovellavo per questioni personali e vocazionali, e per l’impossibilità di essere me stesso fino in fondo e allo stesso tempo assicurarmi un posto di lavoro in un’università cattolica.
Furono parole che mi restituirono letteralmente alla vita, in un momento in cui faticavo ad affrontare le dichiarazioni che sedicenti terapeuti e organizzazioni salvifiche fanno sui gay, con l’incredibile sicurezza di averne titolo, quando isolano proprio noi tra tutti i peccatori verso i quali potrebbero dirigere la loro opera.
In effetti, per un breve e doloroso periodo, considerai l’ipotesi degli “ex-gay”. Contattai uno dei gruppi più importanti, chiesi aiuto. Finito di leggere il materiale che mi avevano spedito e iniziata la corrispondenza con il consulente che mi era stato assegnato, mi resi conto che a ripugnarmi non erano soltanto tutte le affermazioni pseudoscientifiche e pseudoteologiche: mi ripugnava soprattutto la presunzione di avere il diritto, senza neanche conoscermi, di invadere la mia vita e quella degli altri e dettar legge.
Di dirci che cosa Dio vuole da noi senza nemmeno conoscerci. Quando comunicai al gruppo che non avevo intenzione di seguire la terapia che oh-così-amorevolmente mi offrivano, gettarono la maschera.
Ricevetti lettere minacciose che mi informavano che ero dannato e lo sarei stato per sempre, che dovevo contattare immediatamente il gruppo salvifico o avrei rischiato ogni genere di punizione divina, che si sarebbero presentati alla mia porta piantandomi grane infinite, se non avessi fatto come mi ordinavano.
Nel frattempo, cercavo di approfittare anche dell’assistenza spirituale della chiesa cattolica, a cui io appartenevo. Andavo a confessarmi appena potevo per ascoltare, incredibile, consigli e spazzatura teologica da preti che, spesso, conoscevo, alcuni dei quali erano stati miei professori gesuiti all’università Loyola di New Orleans.
Uno dei mie ex docenti provò in tutti modi a sbirciare attraverso la grata del confessionale. Mi avvertì che, se non mi fossi lasciato alle spalle il peccato, un giorno o l’altro sarei uscito dalla chiesa dopo una confessione, sarei stato investito da un autobus e andato dritto all’inferno. E cosa ne sarebbe stato di me?
Un altro mi ringhiò che il mio peccato, commesso, come scrupolosamente ricordavo a tutti i confessori, sempre con la stessa persona con cui avevo una relazione stabile da più di dieci anni, è il peccato che scatena l’ira di Dio nel mondo.
Un altro mi disse gravemente che l’unica scelta che avevo se desideravo salvarmi era di tornare a casa, chiudere la porta in faccia al mio compagno di peccati e non aprirla mai più.
Il miglior consiglio pastorale che ricevetti da un confessore in quel periodo angoscioso – il migliore, incredibilmente – fu di comprendere che Dio mi aveva assegnato una croce del tutto particolare e che, se l’avessi portata fedelmente, tornando a confessarmi tutte le volte che inciampavo, avrei sostenuto la mia salvezza e la salvezza di molti.
Il Gesuita che mi diede questo consiglio mi incoraggiò ad andare a confessarmi solo con lui, non dai confratelli. Gli altri, disse, non capiscono fino in fondo il dono che hai ricevuto.
Col tempo, tutto ciò cominciò a sembrarmi, beh, semplicemente stupido. Dopo anni di studi teologici, come potevo riportare la mia psiche e il mio intelletto ad una condizione tanto infantile (e di assoluta idiozia), che simili consigli pastorali e la maligna sollecitudine dei salvatori del movimento “ex-gay” mi invitavano ad adottare?
Io desideravo la salvezza: chi non la desidera? Ma a che prezzo? A prezzo di fingere che le menzogne fossero vere e che il senso più sano e profondo di chi ero io, di chi è Dio e di ciò a cui Dio ci chiama fosse completamente sbagliato?
Alla fine, qualcosa di sano e salutare nel cuore più profondo della mia psiche martoriata riuscì a sentire le parole di John McNeil’s in mezzo alle grida con cui, oggi come oggi, numerosi seguaci di Cristo feriscono me e altri fratelli e sorelle gay, e fui in grado di rivendicare la mia identità.
E la mia vocazione, anche se questa vocazione rimane un mistero per me e Steve, in un contesto di chiese ed istituzioni ecclesiali in cui per noi non c’è posto e che ci attaccano e usano come simboli del male per distogliere l’attenzione dalle colpe delle chiese e dei loro leader.
Mi scuso con i lettori ( e con John McNeil) per la lunghezza di questo prologo. E’, tuttavia, una storia che sento il dovere di raccontare, poiché mette in luce il potente e incalcolabile servizio che John McNeil ha reso ai gay cristiani della nostra epoca, tracciando una strada verso l’accettazione di sé all’interno delle strutture di una chiesa che per noi desidera tutto fuorché l’accettazione di sé.
E’ una storia che costituisce un punto di partenza per la discussione di idee che per molti gay credenti, che faticano a vivere la propria vocazione all’interno di chiese generalmente ostili, sono questioni di vita o di morte.
* Ripreso da “Bilgrimage, 27 March 2009” con qualche modifica editoriale
Testo originale: John McNeill’s Prophetic Gay Theology: Sex As God Intended, Part 1