A caccia di gay in Iraq
Articolo di Doug Ireland tratto dal mensile Carta, novembre 2006 , pp.72-82
Ogni gay e ogni lesbica qui vive in un regime di paura, di puro terrore, per la possibilità di essere bastonato o ucciso», dice Ahmad, gay, 34 anni, per telefono dalla sua casa di Baghdad (ndr in Iraq). «L’omosessualità è vista come qualcosa di importato dall’occidente e come opera del diavolo».
Ahmad è mascolino e si comporta come un eterosessuale. «Io posso uscire senza essere molestato o seguito», racconta. Ma non è lo stesso per i suoi amici gay più effeminati. «Loro semplicemente non possono mettere il naso fuori di casa, punto e basta – dice – se lo facessero, verrebbero uccisi». Per aiutarli a sopravvivere, Ahmad continua a portargli a casa cibo e altri beni. «La situazione per noi è ben al di là del pericolo». La vita per i cittadini gay e le cittadine lesbiche, nell’Iraq devastato dalla guerra, è gravissima e peggiora di giorno in giorno.
Mentre il presidente George W. Bush propaganda una società più democratica, migliaia di civili muoiono ogni mese nella guerra civile a bassa intensità e i gay vengono presi di mira per il solo fatto di essere gay. Le brigate Badr il braccio armato del Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciri, la principale organizzazione politica sciita) hanno lanciato una campagna di «pulizia sessuale» e proteggono squadroni della morte che hanno il compito di sterminare gli omosessuali.
Quando la principale personalità religiosa sciita, il grande ayatollah Ali al Sistani, ha rimosso dal proprio sito web una fatwa che invocava la morte per gay e lesbiche — la fatwa ora vale solo per le lesbiche — alcuni osservatori avevano pensato che il regno del terrore omofonico sarebbe finito. La fatwa, però, rimane in piedi e anzi la persecuzione dei gay iracheni si è solo aggravata.
«Negli ultimi due mesi la situazione è peggiorata di continuo», dice Ali Hili, un gay iracheno che vive a Londra, dove ha fondato e coordina l’associazione Iraqi Glbt. «Solo nel mese scorso ci sono stati tre raid del ministero dell’interno in due delle case sicure che manteniamo a Bassora e a Najaf. Cercavano persone specifiche, con una lista di nomi. Alcuni sono stati uccisi sul posto». Il ministero dell’interno è pesantemente infiltrato da uomini dello Sciri che cercano in questo modo di far rispettare la fatwa di Sistani.
Il gruppo di Hill, formato da una trentina di gay che vivono in esilio a Londra e che hanno deciso di organizzarsi dopo la fatwa di al Sistani, ha il proprio network di informatori, di fonti e di appoggio in tutto l’Iraq.
Con la voce rotta dall’angoscia, Hili ricorda due di loro, due lesbiche che avevano una casa sicura a Najaf, dove si rifugiavano adolescenti finiti nel giro del commercio e dello sfruttamento sessuale. «Sono state accusate di gestire un bordello — dice Hill — e solo poche settimane fa sono state sgozzate nella casa a Najaf».
«Ogni giorno abbiamo notizie dal nostro network in Iraq di nuovi orrori contro le persone gay e lesbiche. È semplicemente troppo, non ce la facciamo a rispondere a tutte le richieste di aiuto».
Hili continua: «Siamo solo una piccola organizzazione di volontari, e nessuno ci aiuta. Non ci aiutano le forze di occupazione statunitensi, non ci aiutano le Nazioni unite, non ci aiuta Amnesty lnternational, nessuno. E abbiamo un disperato bisogno sogno di aiuto». Grazie a un traduttore, diversi gay iracheni mi hanno descritto le condizioni di vita nel loro paese. Nessuno ha voluto dirmi il suo nome, per paura di ritorsioni, e tutti hanno storie terribili da raccontare.
Hussein, 32 anni, vive con la famiglia di suo fratello, che è sposato, a Baghdad. «Vivo in uno stato di terrore dall’anno scorso, da quando al Sistani ha emanato quella fatwa, in cui incoraggiava ogni famiglia a uccidere figli e fratelli se non erano disposti a cambiare il loro comportamento gay — dice — mio fratello, che è tenuto sotto pressione dai seguaci di Sistani, ha minacciato di farmi del male o perfino di uccidermi se mi azzardo a mostrare anche il più piccolo segno della mia omosessualità».
In fuga dalle milizie
Hussein ha già perso il suo lavoro, in un negozio di fotografia, perché il proprietario non voleva che le persone pensassero che dava una mano a un gay. «Sono stato costretto a diventare molto attento al modo in cui appaio e mi vesto, e cerco di comportarmi in modo da rimanere al sicuro — dice Hussein, che è un p0’ effeminato – diverse volte sono stato seguito per strada e pestato, solo perché avevo un taglio di capelli fatto un po’ meglio e che ai loro occhi sembrava femminile. Ora mi rado la testa».
Anche il modo di vestire può essere una ragione per essere uccisi, per i gay iracheni. «Anche solo sembrare ben curato e pulito, per non dire elegante e ben vestito è un rischio per un gay – dice Hussein – perciò non metto vestiti eleganti e curati, per evitare di far pensare che io sia gay, ed esco di casa solo per cercare cibo».
Uno dei migliori amici di Hussein, Haydar, è stato di recente trovato ucciso, con un colpo alla nuca, in una fattoria deserta appena fuori dalla città. «Alcuni dicono che sia stato ucciso da un membro della sua famiglia, per una questione d’onore. Altri dicono invece che sia stato ammazzato da una di quelle squadre della morte», dice Hussein. «Tutti pensano che sia facile, in questo periodo di caos, uccidere un gay e farla franca, visto che non c’è né legge, né ordine», continua.
Tutto quello che Hussien vuole è lasciare l’Iraq: «Le cose erano già erano difficili per i gay quando c’era Saddam, ma non terribili come adesso. Almeno allora non si doveva temere per la propria vita, mentre adesso si può essere uccisi in qualsiasi momento».
Anche scappare dall’Iraq e rifugiarsi in qualche democratica nazione occidentale, non è una garanzia. Il caso di Ibaa al Alawi, un istruito gay ventottenne che è scappato da Baghdad a Londra e adesso corre il rischio di essere rimpatriato, è tristemente tipico.
«Sono vittima di questa ideologia religiosa ed omofobia importata in Iraq dallo Sciri e dalle brigate Badi-», dice al Alawi, cresciuto in una famiglia molto laica, nel suo inglese perfetto, «Le brigate Badr sono molto ben organizzate, controllano due piani del ministero dell’interno iracheno a Londra e indossano uniformi della polizia».
Al Alawi ha lavorato per due anni nell’ambasciata britannica di Baghdad, dove teneva corsi agli studenti che volevano andare a studiare nel Regno unito. «La mia famiglia, però, ha iniziato a ricevere minacce a causa mia dalle brigate Badr – racconta – hanno minacciato mio fratello dicendogli che se non fosse riuscito a convincermi a cambiare i miei modi gay mi avrebbero ucciso.
Hanno lanciato una pietra avvolta in una lettera di minacce nel giardino di casa nostra. C’erano alcuni passi del Corano e in modo molto sgrammaticato dicevano che, siccome ero un peccatore, se non avessi cambiato comportamento, in tre giorni mi avrebbero ucciso».
L’incidente ha spaventato al Alawi così tanto da convincerlo a lasciare il lavoro all’ambasciata e a chiudersi in casa per due mesi. «Un giorno sono uscito per fare spese con mia madre, e mentre eravamo fuori, un pick up è arrivato davanti a casa nostra, carico di uomini in uniforme. Hanno sfondato la porta e lanciato in casa una granata. Se mia madre ed io fossimo stati a casa, saremmo stati uccisi. I vicini che hanno visto la scena ci hanno detto che erano uomini delle brigate Badr».
Il giorno dopo al Alawi ha comprato un biglietto aereo per Londra, dove ha fatto domanda di asilo politico appena arrivato. La sua richiesta, però, è stata respinta dal ministero dell’interno, che nel Regno Unito si occupa dell’immigrazione. «Mi hanno detto: “crediamo che in Iraq tu sia in una situazione di discriminazione, ma non di persecuzione”. Gli ho perfino fatto vedere una foto di me con Tony Blair di quando lavoravo all’ambasciata, ma non mi hanno aiutato.
Assassini mirati
Nella prima settimana di agosto, l’appello che al Alawi aveva presentato contro l’ordine di espulsione emanato dal ministero è stato respinto. In tribunale ha coinvolto la stampa per cercare di convincere il governo Blair a non rispedirlo in Iraq: «La mia vita è in pericolo, se torno in Iraq. Ho un master in letteratura inglese e un proiettile da pochi soldi delle brigate Badr potrebbe far finire tutto. Che spreco di istruzione».
Mohammed, gay ventenne di Bassora, è scappato in Giordania il 17 luglio, dopo che le brigate Badi hanno assassinato il suo compagno. «Non so come abbiano fatto a sapere del mio compagno, ma lo hanno ucciso con un proiettile alla nuca, perciò ho capito che il pericolo mi aveva raggiunto — racconta via email — ora non so se continuare a vivere senza di lui». La morte del suo partner è stata il culmine di anni di persecuzioni per Mohammed, che sono iniziate nella sua stessa famiglia. «Sono stato gay da quando ero ragazzo, ma la mia famiglia è di sciiti osservanti e non permette l’omosessualità. Penso che mi avrebbero ucciso loro, prima delle brigate Badi, se l’avessero saputo».
La campagna di assassini della brigate Badi non si limita agli omicidi per strada, ma comprende anche sorveglianza su Internet seguita da minacce e violenza. Reti di informatori di quartiere, di militanti e simpatizzanti dello Sciri, tengono sotto controllo i sospetti gay e ne riferiscono i movimenti perché diventino bersagli della campagna di terrore.
«Un giorno navigavo su Internet e sono entrato in un sito di gay iracheni e specificamente di Bassora — racconta Mohammed — ho conosciuto un ragazzo che mi ha dato il suo nome e la sua email.
Ma la misericordia di Dio mi ha salvato. Mi sono accorto che c’era qualcosa che non quadrava, in quel sito, e ne sono uscito rapidamente. Tempo dopo ho saputo che il tipo che avevo incontrato lavorava per le milizie Badi per scovare e uccidere i gay».
In qualche caso, dopo l’intercettazione su internet o nei canali di chat, le milizie dello Sciri incoraggiano il pestaggio pubblico dei gay. Gente del quartiere e perfino semplici passanti a volte si uniscono alla «punizione». «Se sei gay non ti puoi fidare di nessuno, se non i vecchi amici del tuo giro di rapporti consolidati – dice Ahamad – non puoi incontrare o darti appuntamento con persone nuove, perché non puoi mai sapere quali siano i motivi reali delle loro azioni».
Ogni nuovo incontro, è inquinato dalla paura. «Ci sono stati casi di persone che hanno incontrato un uomo, che pensavano fosse gay come loro, solo per scoprire che si trattava di una trappola. Al ricatto sessuale si aggiunge spesso la minaccia di rivelare tutto alle brigate Badi. O capita perfino che un nuovo amico si riveli essere un loro agente in incognito», racconta Ahamad.
«Siamo disperati — concludono — non possiamo vivere in questo stato di continuo terrore. Molti di noi, sono giunti alla conclusione che l’unica cosa da fare è andare via dall’Iraq».