A Firenze tre preti e una suora sui “Sacramenti ai gay, pronti all’obiezione di coscienza”
Articolo di Maria Cristina Carratu tratto da La Repubblica – edizione di Firenze, 16 ottobre 2012
«Obiezione di coscienza ». È la parola-chiave della nuova lettera — la seconda — inviata la scorsa settimana all’arcivescovo Giuseppe Betori dai tre preti e dalla suora che già ai primi di settembre avevano sollevato, in un testo indirizzato alla massima autorità ecclesiastica fiorentina, la questione dell’accesso degli omosessuali ai sacramenti, in particolare l’eucaristia, sempre negato dalla Chiesa.
Una lettera a cui Betori non ha risposto direttamente, come i firmatari avevano chiesto, ma all’interno del suo discorso al clero all’eremo di Lecceto, e, riferendosi anche al Catechismo, ribadendo il deciso no della Chiesa ad una apertura.
E adesso, in una seconda lettera all’arcivescovo, don Fabio Masi, don Giacomo Stinghi, don Alessandro Santoro e suor Stefania Baldini tornano sull’argomento con accenti ancora più decisi. Dopo aver chiesto inutilmente la pubblicazione in anteprima del testo («per rispetto dell’arcivescovo ») sul settimanale diocesano Toscanaoggi, hanno deciso di inviare per posta sia la prima, che la seconda lettera, che la risposta di Betori, a tutti i preti e agli oltre 200 consigli pastorali delle parrocchie fiorentine. La prima volta, Masi, Stinghi, Santoro e Baldini avevano centrato il loro intervento sulla necessità che la Chiesa accettasse di storicizzare e contestualizzare la posizione della Bibbia sull’omosessualità.
Lo avevano fatto tenendo conto delle nuove visioni sul tema, anche scientifiche, e soprattutto avevano dichiarato che nelle loro comunità gli omosessuali sono già ammessi alla comunione, nella nuova lettera parlano esplicitamente di «obiezione di coscienza »: non come «disprezzo delle regole», spiegano, ma come «amore e riconoscimento sofferto della comunità di cui uno è parte, aperto anche ad accettare le conseguenze della posizione che ha preso».
Perché, si chiedono i preti e la suora, «in altri campi i capi della Chiesa la onorano e la consigliano, e qualcuno dice addirittura che è la forma più alta di amore e di rispetto della legge», e in questo caso no? «La Chiesa di Firenze, anni addietro», si ricorda, «ha avuto modo di approfondire il senso dell’obiezione di coscienza, e noi siamo figli di quel periodo». Nella lettera si fa riferimento
anche alle parole pronunciate dall’arcivescovo a Lecceto («L’attenzione alle condizioni delle persone» aveva detto Betori «non può mai portare a un travisamento della verità», la quale deriva dalla «visione antropologica proposta dalla rivelazione», e non lascia spazio a troppi distinguo: «Proprio il bene delle persone richiede sì accoglienza, ma prima di tutto il dono della verità senza confusioni»), per sostenere che «nel cammino della Chiesa non c’è stata una ‘visione antropologica’ definita compatta, immutata e immutabile», ma «per grazia di Dio» la visione espressa in certe epoche del passato «si è evoluta ed è cresciuta».
I quattro ne sono convinti: «Noi parlando non rivendichiamo un diritto, ma esercitiamo un dovere: è la Chiesa che ha diritto di conoscere la nostra esperienza». La sfida è aperta, la parola torna all’arcivescovo.