All’università Salesiana di Roma si è parlato di identità di genere: ecco come
Testimonianza di Piotr Zygulski
La tre giorni “Giovani e sessualità. Sfide, criteri, percorsi educativi”, che ha coinvolto ben 700 persone tra relatori e partecipanti, la maggior parte dei quali educatori e consacrati della famiglia salesiana, testimonia il cambio di passo sui temi della sfera affettiva. L’Università Pontificia Salesiana di Roma ha organizzato il convegno, tenutosi dall’1 al 3 marzo 2024, collocandolo in un percorso triennale, dopo due anni di ricerche sfociate in cinque pubblicazioni della collana “Giovani, affetti e identità” (LAS) e che preludono al corso di perfezionamento in Educazione affettiva e sessuale che partirà il prossimo luglio.
Un giovane salesiano si è detto soddisfatto per l’apertura con la quale si è potuto riflettere, nonché scrivere e scegliere le domande poste ai relatori: “I criteri dei nostri percorsi di formazione rischiano di essere impostati in modo molto rigido, caricati di luoghi comuni e timori, e a volte si fa fatica a parlare schiettamente di affettività e sessualità”. Ci si è confrontati su come i cambiamenti sociali siano intrecciati con il fenomeno affettivo, sul significato relazionale e simbolico del nostro corpo sessuato, e poi sull’identità di genere e sull’educazione digitale che dovrebbe andare di pari passo con quella all’intimità. Per il sito Settimana News ho scritto una sintesi dettagliata degli interventi. Qui vorrei soffermarmi sugli aspetti che maggiormente riguardano le persone LGBT+.
L’approccio dei teologi: dal peccato alla fiducia
Dai teologi, come don Miguel Ángel García Morcuende (consigliere generale per la pastorale giovanile salesiana), mons. Philippe Bordeyne (preside del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia), e don Andrea Bozzolo (Rettore dell’Università Pontificia Salesiana) è stato costante il richiamo a uno stile accogliente, caloroso e umanizzante nell’affrontare la sfera affettiva. Anziché un approccio moralistico focalizzato sul peccato o su ricette semplicistiche oggi non più credibili, si è suggerito un accompagnamento fiducioso all’interno di un’educazione integrale alle relazioni, affinché i giovani possano affrontare l’ambivalenza della sessualità – narrata anche nelle vicende bibliche – vincendo paura e insicurezze.
Gender: da spauracchio ideologico a teoria critica con la quale confrontarsi
L’approccio alle questioni di genere è stato relativamente sereno, senza enfasi sulla famigerata “ideologia gender”. Benché siano state contestualizzate dalle relatrici all’interno dell’individualismo contemporaneo (la sociologa Chiara Giaccardi) o delle sempre più diffuse insicurezze nei confronti del proprio corpo, spesso frammentato e confuso (la filosofa Susy Zanardo), hanno ritenuto utile ricorrere alla teoria che distingue tra sesso biologico (sex) e identità di genere (gender), vedendo quest’ultima in una certa connessione con il corpo (la psicologa Elena Canzi).
Gen- è in sé una radice relazionale, che rimanda a una dualità di diversità in relazione, per cui ciascuno si riconosce vedendo l’altro, e non a un binarismo, tipico invece del linguaggio digitale delle macchine, ha ricordato Chiara Giaccardi. Anche don Bozzolo ha sottolineato che il corpo non è solamente l’aspetto biologico (sex senza gender), né una libertà disincarnata (gender senza sex), ma un intreccio simbolico, che porta significati, oltre di sé, protendendosi in una relazione di riconoscimento reciproco.
Vi è quindi una presa di distanze sia dalla cosiddetta ideologia gender che separa nettamente il corpo sessuato e de-simbolizzato, visto come limitante, da un genere fluido, disincarnato e de-corporizzato, sia dall’opposta ideologia anti-gender, che sbrigativamente riconduce il genere al sesso fenotipico, senza tenere in considerazione il percorso – complesso e talvolta doloroso – di individuazione della persona come corpo vivente, sessuato, in relazione. Entrambe le ideologie hanno intenti manipolatori.
“Dire che c’è una linea che connette il corpo con il genere non significa che questo sia semplice e automatico, ad esempio nel caso di abusi che disorientano tale processo. Non intendere la dicotomia maschile/femminile in modo rigido non significa non riconoscere che è connessa con il dato sessuale”, ha affermato la dott.ssa Canzi, che nelle risposte ha corretto alcune affermazioni che potevano suonare transfobiche.
Ha invitato ad accompagnare la persona “facendo scendere la mente nel corpo” e suscitando verso di esso fiducia, in ascolto senza giudizio, nei casi di incongruenza di genere. Più precisa, la psicologa e psicoterapeuta Chiara D’Urbano ha esplicitato che, per i più recenti criteri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (ICD-11), la varianza di genere non è un disturbo psicologico, a meno che la persona non viva in modo sofferto, e non a causa dello stigma sociale, l’incongruenza tra genere esperito e quello assegnato alla nascita.
Susy Zanardo, in sintonia con Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, ha messo in luce la compresenza nell’attuale “supersocietà” di “rigurgiti patriarcali” – nelle posizioni violente, fondamentaliste e impositive e repressive – che intendono fronteggiare invano la diffusa liquefazione di ruoli e identità, secondo quanto prescrive un certo iperprogressismo ipernichilista funzionale al capitalismo consumista, dove tutto è interscambiabile.
Pure Bozzolo, riprendendo l’intervento del confratello salesiano Paolo Gambini, ordinario di psicologia, ha insistito sul carattere dinamico dell’identità di genere, che si inscrive nelle concrete vicende personali che possono risultare bloccate da stereotipi rigidi o confuse da stereotipi indefiniti.
Benché più vicina al femminismo della differenza, Susy Zanardo apprezza alcune intuizioni degli studi di genere nella misura in cui contribuiscono a decostruire certi immaginari stereotipati che non tengono conto che la sessualità, più che un dato, è un percorso di scoperta. Don Gambini, dal canto suo, ha affermato di apprezzare le teorie del gender quando combattono gli stereotipi e l’omofobia, e promuovono un rapporto paritario e non omologante tra i diversi generi, già compresenti nella nostra psiche androgina, mentre ne ravvisa la debolezza quando negano l’identità sessuata o esaltano una fluidità che provoca insicurezze.
Un docente africano cambiato dall’incontro con le persone omosessuali
È stato interessante il laboratorio del professore congolese don Staffen Yhanil Cheysnel Nkodia (Istituto Giovanni Paolo II) sulla sessualità nella cultura africana, che la considera un dono divino finalizzato alla procreazione. La sterilità, così come l’omosessualità, è una disgrazia, ma lo è pure, per molte famiglie, avere figli che entrano in seminario o in un convento. Di converso, la poligamia è accettata, e sono diffuse varie pratiche per favorire la fecondità e la virilità.
Con un discernimento alla luce del Vangelo è possibile recuperare l’aspetto comunitario delle scuole africane di apprendimento della sessualità, soppiantate dall’eccesso di pudore dei colonizzatori occidentali.
Il prof. Nkodia ha riconosciuto che l’omosessualità è presente anche tra i preti africani. Egli ha confessato di essere divenuto meno rigido grazie alla pratica pastorale, a un confronto schietto con persone omosessuali. A suo dire è importante domandarsi se l’omosessualità sia una scelta: se si potesse cambiare, perché una persona dovrebbe scegliere una vita così sofferta? Dio forse non ama l’omosessualità, ma sicuramente ama l’omosessuale, ha dichiarato, suggerendo la lettura di Xavier Thévenot, “Sempre mio figlio. Omosessualità in famiglia” (Paoline 2004) e Philippe Ariño, “Omosessualità controcorrente” (Effatà 2014), che è sostenitore della continenza sessuale suggerita dal Magistero tradizionale cattolico. Infine ha prospettato che la Chiesa, nello sviluppo della sensibilità pastorale, potrebbe condurre forse, in futuro, anche a una definizione più inclusiva di “coppia”, così da farvi rientrare pure due uomini o due donne.
No a terapie riparative. Educatori, preti e persone consacrate LGBT, perché no?
Paolo Gambini e Chiara D’Urbano hanno affermato che la maturità non dipende dall’orientamento sessuale, ma piuttosto dalla sua serena integrazione all’interno del funzionamento psicoaffettivo della persona. Gambini ha evidenziato piuttosto il problema dell’omofobia interiorizzata di chi rifiuta la propria omosessualità. Ha accennato all’omosessualità latente di chi nega di esserlo, benché proietti la propria omosessualità circondandosi di persone omosessuali.
Si tratta pur sempre di una scoperta, che in età evolutiva passa normalmente attraverso la masturbazione e il confronto con i genitali dei coetanei dello stesso sesso, sino a eventuali esperienze fisiche, che nell’adolescenza non implicano l’omosessualità del ragazzo, soprattutto se non vi è un coinvolgimento romantico: è importante rassicurare e attendere la fine dell’adolescenza. “Dare tempo” è un invito richiamato pure da Chiara D’Urbano.
Per Gambini è importante che il coming out giunga al termine del processo di scoperta. L’orientamento sessuale non va poi confuso con il genere – smentiamo lo stereotipo del “gay effeminato” – ma è una variante non patologica della sessualità umana, trasversale alle altre dimensioni dell’identità sessuale.
Non è una scelta, ma l’attrazione romantica e sessuale che una persona prova verso lo stesso genere e/o quello opposto. Sia Gambini che D’Urbano concordano sull’origine multifattoriale dell’orientamento sessuale, che non può essere scomposto né tantomeno “riparato”, ma piuttosto accolto: entrambi hanno detto in modo fermo che le terapie riparative sono inefficaci, dannose e gravemente contrarie alla deontologia.
L’omofobia interiorizzata invece può essere affrontata in terapia, affinché la persona possa riconciliarsi con il proprio orientamento sessuale. Considerano apprezzabile che alcune persone omosessuali intraprendano una scelta di vita religiosa: vanno poste le medesime condizioni che si chiedono agli etero.
Inoltre, rilevava Gambini, è possibile che la scoperta dell’omosessualità avvenga successivamente all’ordinazione o alla professione: anche in tal caso si suggerisce una serena accettazione dell’orientamento sessuale, affinché sia aiutata a vivere il Vangelo con maggiore autenticità. “Una persona che ha fatto un lavoro su di sé per integrare la propria omosessualità sa cosa appartiene a sé e cosa può dare agli altri: se è in retta coscienza, può fare benissimo l’educatore”.
Dello stesso avviso Chiara D’Urbano, per la quale l’orientamento sessuale – che “è un talento per la persona” – va contestualizzato nella maturità psicoaffettiva. Osserviamo come una persona gestisce gli affetti, come vive le relazioni, se sa collaborare con lealtà, che rapporto abbia con gli altri, con i soldi e con l’autorità: sono questi gli aspetti per capire se possa fare l’educatore, proseguire nella consacrazione religiosa o diventare prete. Infine don Alberto Goia, delegato per la Pastorale Giovanile salesiana del Piemonte, si è domandato se una persona LGBT non solo possa essere un buon prete, religioso o religiosa, ma pure un santo.
L’unico scivolone che si può segnalare al professor Gambini, il quale ha voluto accennare a forse troppe questioni, riguarda la bisessualità, da lui descritta erroneamente nei termini di un’identità “fluttuante”, indecisa tra l’orientamento omosessuale e quello eterosessuale.