Amo mia figlia, rispetto la chiesa ma…
Intervista di Lidia Borghi*, gruppo Bethel di Genova, 30 maggio 2011
Grazia è una persona ultrasettantenne; è madre di Cinzia, la figlia lesbica quarantenne la cui compagna, V., viene definita, ancora oggi, dalla donna, “l’amica”, nonostante sua figlia tenda, ogni volta, a sottolineare che la sua non è un’amica, ma la persona amata.
Quando Cinzia fece il suo coming out (in gergo americano la dichiarazione del proprio orientamento omosessuale a famigliari, amici e colleghi di lavoro) in famiglia, Grazia ricorda di aver lanciato un grido di disperazione.
Stando al suo racconto, pare che il papà della ragazza abbia accolto la notizia con angoscia, mentre il fratello avrebbe manifestato incredulità.
Per quel che riguarda gli altri esponenti della famiglia, solo lo zio e la cugina sanno, mentre «ad amici e conoscenti – continua – non ritengo sia giusto raccontare i fatti nostri. Battutine e commenti (anche se velati) sono difficili da ingoiare».
Il suo pensiero in merito all’omosessualità giunge ad una biforcazione quando, nell’esprimere il suo parere a proposito delle persone velate, come “l’amica” di Cinzia, asserisce di essere alquanto irritata dal di lei atteggiamento poiché, mentre V. può trascorrere le feste cattoliche con sua figlia, lo stesso non accade all’interno della famiglia di V. la quale, secondo Grazia, «preferisce lasciare sua mamma e suo fratello nell’ignoranza.
Questo (…) è spesso motivo di screzio con mia figlia – aggiunge Grazia – È troppo comodo affrontare così la vita, se poi chi ha questo problema (sic) pensa di battersi per la verità e la libertà di chi non ha il coraggio di esporsi». La dicotomia diventa ancor più netta quando Grazia prova a commentare l’omonegatività sociale della chiesa cattolica nei confronti delle persone omosessuali: «Io amo mia figlia da morire sia per la sua rettitudine che moralità ma nel contempo rispetto la chiesa».