Ascensione: restare con i piedi per terra e il cuore rivolto al cielo
Riflessioni di una persona queer credente
“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” (Atti 1,11)
A volte mi sento esattamente come loro: col naso all’insù, a fissare un cielo da cui aspetto risposte. E invece l’Ascensione mi chiede un’altra cosa: non di evadere, ma di abitare pienamente la mia storia, il mio corpo, i miei desideri, la mia fede.
Come persona queer, per anni ho vissuto come se il mio essere dovesse restare in basso, nascosto, poco presentabile davanti a Dio. Pensavo che per amare Dio davvero dovessi salire… salire sopra la mia identità, superarla, negarla. E invece ora capisco che Gesù che ascende non ci invita a fuggire dalla terra, ma ci promette che il cielo è già in noi quando impariamo ad amarci come siamo.
L’Ascensione, per me, è una soglia. Un “non ancora” pieno di promesse. È il momento in cui Gesù se ne va… ma non per abbandonarci. Se ne va per darci spazio. Per dire: “Ora tocca a voi”.
Tocca a noi, anche a noi queer, anche a noi esclusi, riscrivere la storia della salvezza. Tocca a noi essere suoi testimoni “fino ai confini della terra” (Atti 1,8).
Anche se quei confini spesso coincidono con le nostre ferite, con i luoghi dove siamo stati respinti.
Rileggere l’Ascensione oggi, come persona LGBTQ+, per me vuol dire questo: accettare che la vita spirituale non è solo attesa del cielo, ma cammino sulla terra. È capire che la presenza di Dio non sparisce quando il cielo si chiude: cambia forma. Diventa Spirito, soffio, respiro, presenza che ci accompagna, ci libera, ci manda.
E allora sì, posso alzare gli occhi al cielo, ma con i piedi ben piantati in questa terra che mi è stata data da abitare.
Con tutta la mia verità. Con tutte le mie domande. Con tutto l’amore che posso dare.