Caro Monsignore le scrivo
Lettera-aperta di Roberto G. del 19 marzo 2007
Carissimo Monsignore, ho appena letto il suo articolo su Avvenire di sabato 17 marzo 2007 , e immediatamente mi è venuta voglia di scriverle. Ciò che mi ha convinto è stato quel suo particolare modo di porsi: “Cari fratelli”.
Sì, perché non è abituale sentire espressioni di una paternità tanto desiderata e invocata. Anche in quelle poche parole che vengono riportate, ho percepito un atteggiamento di profonda umanità e simpatia di cui si sente un gran bisogno.
Mi dispiace per la lontana, avrei preferito poterla incontrare e comunicarle il mio modo di sentire e di vivere una condizione che certamente capisce non facile.Prima lottando nella solitudine con tutte le proprie forze, rifiutando qualcosa che mano a mano diventava sempre più evidente, e poi in un lento cammino di accettazione e pacificazione. In seguito dover tradurre nel quotidiano un comportamento e uno stile accettabile di vita.
Seguo con molta attenzione il dibattito in atto perché mi interessa in prima persona, e le dico con sincerità che non mi piace il terreno su cui ci si sta scontrando.
Si è creato un fossato che non aiuta per una riflessione attenta, libera da ogni pregiudizio, e se mi consente, anche dogmatico. Tutto viene posto in termini legali di riconoscimenti di diritti (giusti) e di equiparazioni, ma la vera questione è glissata e cioè: come una persona che vive una condizione non voluta per cui ha anche lottato e sofferto, prima rifiutandola e poi, dopo un lungo percorso accettata, possa vivere con dignità – e giustamente lo sottolinea anche lei – la sua realtà?
E ancora è possibile negargli una dimensione anche affettiva, essendo questa un bisogno fondamentale della persona? Io vivo le due dimensioni di cattolico e omosessuale. Frequento un movimento ecclesiale, collaboro a livello parrocchiale ed ecclesiale a vario titolo e per questo non posso che difendere sempre e ovunque la Chiesa e il Papa.
Frequento un gruppo di omosessuali credenti e spesso sono in polemica per posizioni che non condivido, reputo controproducenti certe manifestazioni che danno una immagine distorta e comunque molto parziale della variegata realtà omosessuale.
Detto questo, devo dire che da parte della Chiesa e del Magistero mi attenderei una parola, una risposta a domande che mi urgono. Forse queste stesse parole le attendono anche quelli che in piazza manifestano a volte in modo scomposto.
In alcune riunioni percepisco questo bisogno e questa attesa e, non ottenendo risposta, reagiscono anche allontanandosi dalla Chiesa e dalla Fede.
Queste persone vorrebbero sentire la Chiesa innanzitutto madre che accoglie, è come un grido che sale e chiede aiuto, perché alla fine sanno che l’esperienza di una vita cristiana passa attraverso la Chiesa. Vedo che molte di queste persone si fanno un proprio cristianesimo, fabbricato su proprie misure, ma nel loro cuore urge un segno di simpatia umana e cristiana, cosa che pare di aver percepito in quel breve articolo letto.
Anche io avevo da giovane abbandonato la Chiesa, perché non la ritenevo coincidente con la mia vita, anche se permaneva un profondo rispetto e una nostalgia. Mi sono riavvicinato grazie ad un incontro di esperienza cristiana, e questo mi ha portato a confrontarmi sul piano della fede rispetto alla mia omosessualità. Ho riflettuto a lungo, ho letto tanto, ho scritto lettere e posto domande e quesiti, alcuni anche pubblicati.
Mai una risposta, e quando qualcosa è arrivato o era evasiva o di chiusura dogmatica. La mia esperienza, il mio vissuto e anche la riflessione sulla Parola mi hanno portato a comprendere che la verità è in un divenire, non tutto è sempre stato così chiaro e definitivo anche nella Chiesa (lo Spirito vi guiderà alla Verità tutta intera), abbiamo visto che nella sua storia la Chiesa ha anche rivisto certe posizioni.
Penso che una rilettura forse più libera e attenta della Scrittura (per es. S. Paolo non poteva assolutamente sapere che esiste un comportamento omosessuale non per depravazione ma per condizione – questo la Chiesa lo ha riconosciuto nei suoi documenti -) potrebbe portare a formulare oggi giudizi diversi e più cauti.
Prima si parlava di “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”, “vizio infame” e cose di questo genere. Tutti giudizi che ci sono sedimentati nella mentalità comune, e di cui sentiamo tutto l’enorme peso, cosa che ha portato ad assumere nella società atteggiamenti discriminatori, persecuzioni, ilarità, ironie, ecc.
Se è vero, e di questo ne sono certo, che il disegno di Dio nel creare l’uomo l’ha voluto maschio e femmina e pur vero che dobbiamo confrontarci con una realtà, oltretutto misteriosa, che esiste oggi ed è esistita in tutti i secoli e in tutte le culture. Anche in questo il mistero è più grande di noi. Ogni omosessuale sa bene il dramma del proprio vissuto a cui poi si aggiungono giudizi e condanne che prima si sopportavano, oggi non più.
C’è una coscienza nell’omosessuale di non volersi più flagellare ma essere accettato per quello che è. Capisco che non si debba equiparare una coppia omo alla famiglia perché questa ha un compito unico, ma è altresì necessario oggi un nuovo approccio più realistico ma soprattutto di simpatia umana, con una voglia di capire innanzitutto, cosa che non mi sembra di riscontrare.
E poi anche la scienza ha il suo compito. Capirne la genesi, se esista una componente genetica, i fattori educativi, culturali, antropologici, dovrebbe portare a riformulare la questione. Ognuno nel proprio specifico, la scienza in tutte le sue sfaccettature, la rilettura della Scrittura, ed è ciò che mi auguro, dovrebbero portare per conseguenza ad un approccio di “comprensione” di cui lei parla nella lettera.
Il suo articolo mi ha ispirato fiducia e simpatia, cosa di cui abbiamo assoluto bisogno ed anche l’opportunità di un accompagnamento pastorale da più parti d’Italia invocato. Anche noi ci sentiamo ugualmente figli e non di un Dio minore.