Che cosa abbiamo innescato? Un cammino senza fine

Riflessioni* di Nick Campbell** pubblicate sul suo blog *Leaf-Pile (Regno Unito) il 28 aprile 2014. Liberamente tradotte dai volontari del Progetto Gionata.
C’è qualcosa nel titolo di questo romanzo in lingua inglese – No End to the Way (Un cammino senza fine) di Neville Jackson – che mi ha colpito subito. Regalo di Jon, un gentile lettore del mio blog.
La copertina giallo canarino, la posa del modello in copertina con quello sguardo provocante danno subito l’impressione di una carica positiva straordinaria. Pubblicato da Corgi Books (una casa editrice molto mainstream) nel 1967, l’anno in cui l’omosessualità venne depenalizzata nel Regno Unito, il libro sembra incarnare una nuova visibilità, una ventata di ottimismo. E invece il romanzo è tutt’altro.
Tanto per cominciare, quei mini-costumi da bagno color bronzo della copertina non parlano di vita gay britannica, ma australiana. Non so molto sull’Australia, ma ho scoperto che nel Western Australia, dove si svolge il romanzo, l’omosessualità è stata depenalizzata solo nel 1990.
Ma il vero cuore della vicenda è Ray, un pubblicitario di successo che, quando lo incontriamo all’inizio del libro, è ormai “adattato al suo disadattamento”. E qui arriva la particolarità: l’intero romanzo è scritto in seconda persona. Non c’è via di fuga, ti ritrovi dentro di lui, nella sua lingua, nel suo modo di vedere.
Leggendo, mi è tornato in mente The Heart in Exile, scritto in Gran Bretagna nel 1953 da un autore ungherese. Anche quello un appello – un po’ goffo ma affascinante – all’auto-accettazione, con il narratore che si lancia in frequenti divagazioni su perché ci innamoriamo di chi ci innamoriamo. Là c’era un finale felice, ma un inizio tragico, segnato dal suicidio di un ex amante che incombe su tutto. E poi quel narratore aveva rinunciato al sesso, forse per dare un’aura di purezza al suo amore, ma il risultato era che risultava un po’ difficile empatizzare.
In questo romanzo invece, Ray potrebbe anche vivere ancora con i genitori, e all’inizio lo vediamo cercare il coraggio per entrare in un bar gay, ma non prova vergogna per ciò che è. Il libro non cerca di suscitare compassione, prende piuttosto la via del romanticismo. Ray conosce Cor, un affascinante olandese, e tra i due nasce l’amore. Vivono una relazione monogama che chiamano matrimonio (e Ray giustamente chiede: perché no?), ricevono regali di nozze dagli amici e si divertono parecchio sotto le lenzuola… o anche sul pavimento dell’ufficio.
È vero, questi due uomini non si vergognano di chi sono né di stare insieme. Eppure, il fatto di non avere un luogo loro, uno spazio, diventa presto centrale. Fanno l’amore di notte in ufficio, perché non possono portarsi a casa l’un l’altro. Temono di vivere insieme, anche se, economicamente, potrebbero permetterselo. E poi arriva Hamilton, l’ex amante geloso di Cor, che vuole rovinare tutto. Sparge la voce sul “disadattamento” (omosessuale) di Ray, e nel giro di qualche mese Ray perde tutti i suoi contratti, il suo reddito, poi l’ufficio e le prospettive di lavoro. Tutto per via della sua omosessualità.
Riletto oggi, questo romanzo mostra anche i suoi limiti. Le donne quasi non esistono. Ray non è politicamente impegnato, guarda con una certa superiorità all’amico che vive una relazione aperta, e ama Cor anche perché è così maschile, così “normale”.
Ma quello che colpisce è il potere distruttivo dello stigma. Non c’è un movimento, né una comunità omosessuale. Nessun libro, nessuna rivista (figuriamoci!). Devono inventarsi tutto da soli, e quando le cose si mettono male, non c’è nessuna guida. Quando Ray viene calunniato, non può rivolgersi alla legge; quando subisce un’aggressione, non può chiedere aiuto; quando Cor crolla psicologicamente, Ray non può nemmeno parlare con lo psichiatra. E quando la storia d’amore finisce, non ha nessuno con cui parlarne. Né amici, né famiglia.
Ciò che mi ha colpito come particolarmente moderno, però, è la libertà con cui si parla della sessualità di Ray e di quanto incida nel loro rapporto, quando lui non riesce più a provare desiderio per Cor. Mi è tornato in mente un articolo apparso sul numero del ventesimo anniversario della rivista Attitude, una celebrazione dell’accettazione e cultura gay, dei matrimoni e della sessualità LGBTQ+: una vera parata dell’orgoglio, se confrontata col libro No End to the Way (ma con modelli di copertina molto simili). A pagina 26, l’ex curatore della rubrica di appuntamenti Pip McCormack racconta le sue insicurezze nelle relazioni: “Vivo nel costante timore che si stanchi di me, che la familiarità lo annoi, che il mio desiderio sessuale relativamente basso lo spinga a cercare altrove”.
Anche se oggi il contesto repressivo non esiste più – e il concetto stesso di “matrimonio gay” non è più una metafora – le dinamiche intime, i nodi (e gli ingranaggi) che attraversano la relazione tra Roy e Cor risuonano ancora, tremendamente veri. In questi vent’anni sulla rivista gay Attitude, abbiamo avuto modelli, corpi da sogno, e ricordo benissimo quando comprai il mio primo numero, nel 1996 e in copertina c’era Jonathan Kerrigan da Casualty. No End to the Way. Siamo partiti in un tempo in cui sulle persone LGBT+ c’erano solo le chiacchiere nei bar e ci mostra sin dove siamo arrivati.
* Il titolo di questo post viene da una canzone di Sophie Ellis-Bextor, che ho sentito per la prima volta dal vivo in un concerto alla Union Chapel. Io e il mio amico Luke ci siamo ritrovati a ballare la disco su un banco di chiesa. Sophie chiude anche il numero di compleanno di Attitude, in una vecchia intervista in cui le chiedevano: “Hai qualche consiglio per un ragazzo che sta facendo i conti con la propria sessualità?”. La sua risposta? “Compri i miei album”.
**Nick Campbell è autore del blog inglese “Leaf-Pile”, in cui riflette su cultura queer, narrativa e rappresentazioni della mascolinità. Il suo stile combina ironia, memoria personale e critica letteraria.
Testo originale: What Have We Started? … No End to the Way