«Che cosa dobbiamo fare?». È l’ora di chiamarlo come sai solo tu!
Riflessioni di Luigi Testa*
«Che cosa dobbiamo fare?», vanno a chiedere a Giovanni Battista (Lc 3,10). Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo preparaci. Dobbiamo essere più buoni. Più generosi. Più disponili. A Natale puoi. Poi Natale arriva, e ti accorgi che in fondo sei sempre impreparato, sempre a mani vuoi. E Lui nasce comunque.
C’è un testo della liturgia orientale, il Mattutino della Resurrezione, che ad un certo punto prega così: «Voi che avete digiunato e voi che non avete digiunato, oggi siate lieti!». Non vale solo per Pasqua: sia che abbiate digiunato che non abbiate digiunato, sia che vi siate preparati che non vi siate preparate, lasciate stare, fa niente, oggi siate lieti.
Il contenuto del Natale non è infatti un nostro impegno, anche necessario, o un nostro rinnovamento morale, anche buono. Almeno a Natale, lasciamo perdere la morale, le virtù, quanto siamo bravi o quando dovremmo esserlo. Il contenuto del Natale è Lui, è il fatto che è presente e che si fa incontrare. Basta. Concentrarsi ancora sul nostro impegno morale è ancora stare curvi su noi stessi, mentre questo è il momento di tenere gli occhi fissi su di Lui.
Si tratta di realizzare che Egli si è unito a ciascuno di noi. Che Egli c’è, è presente – anzi, è la Presenza. Che Egli è reale – anzi, è la Realtà. «Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio» (Is 9,5), e che fai quando ti arriva un bambino? Diventi scemo, gli fai le smorfie, te lo spupazzi. Questo è il contenuto del Natale: diventare scemi per Lui; spupazzarlo.
Che te ne fai delle virtù, se poi non lo abbracci? A che serve essere più buoni, se non te lo spupazzi, se non ti commuovi a guardarlo che sorride e vagisce? Oggi, a Natale, Egli si aspetta che tu gli faccia le smorfie per farlo sorridere. Mica la noia dei tuoi propositi sempre al confine tra narcisismo e moralismo.
Nel ‘700, Alfonso Maria de’ Liguori, uno che di morale se ne intendeva, autore di una Theologia moralis che fece scuola, e che gli meritò il titolo di Dottore della Chiesa – addirittura Doctor zelantissimus –, scriveva pastorali natalizie dense di una tenerezza che oggi abbiamo perso, e che quasi scandalizzerebbe.
Oltre alla ben nota “Tu scendi dalle stelle”, “Quando nascette Ninno” e “Fermarono i cieli” sono delle gemme di mistica intrisa di calore e passione. I pastori svegliati dall’annuncio dell’angelo «trovajeno a Maria co Giuseppe e a Gioja mia; e ‘n chillo viso provajeno no muorzo ‘e Paraviso» – trovarono Maria e Giuseppe con la mia Gioia; e, in quel viso, assaggiarono un morso di Paradiso. «Piglianno confedenzia a poco a poco, cercajeno licenzia a la Mamma: se mangiajeno li pedille co ‘i vasille – mprimmo, e po’ chelle Manelle» – prendendo confidenza poco a poco, chiesero il permesso a Maria, e cominciarono a mangiargli di baci i piedini, e poi le sue manine.
Ma, soprattutto, il cuore innamorato di Alfonso riesce a “spiare” l’intimità che c’è tra Maria e il bimbo appena nato. E mentre il bambino dorme, la mamma non ce la fa a trattenersi: gli posa un bacio sulla guancia, e così lo sveglia – «Si desta il Diletto e tutto amoroso con occhio vezzoso la Madre guardò» Per Alfonso non c’è niente di più bello che guardarli così, madre e figlio insieme: «Ogn’ altra bellezza è fango, è bruttezza».
I nomi con cui chiama il Bambino di Betlemme aprono scorci di incredibile intimità: «Dolce amore del mio core», «Sposo mio, amato Dio», «O diletto del mio petto», «Sole d’ammore», «gioia mia»: «Ninno mio sapuritiello, rappusciello d’uva sì Tu; ca tutt’amore faje doce a vocca, e po ‘mbriache o core» – Bambino mio, così saporito, tu sei un grappolino d’uva, che, tutto amore, fai dolce la bocca e poi ubriachi il cuore.
Il comando dell’angelo a Giuseppe – «Tu lo chiamerai Gesù» (Mt 1,20) – vale anche per noi. Invece forse abbiamo smesso di chiamarlo così. “Signore”, “Maestro”, “Cristo”, dicono una verità, ma il comando dell’angelo è chiaro: «Lo chiamerai Gesù».
Forse questo Natale sarà la volta buona per tornare a chiamarlo così, con affetto semplice, libero, tenero. O forse sarà la volta buona per inventarci un nome con cui chiamarlo nell’intimità, senza pudore, senza timore – di che? –, come fa Sant’Alfonso.
Il nome che nessun altro conoscerà, con cui lo chiameremo solo noi quando – soli noi e lui – lo spupazzeremo come un bambino.
* Luigi Testa è autore di testi a carattere giuridico e scrive su alcuni quotidiani nazionali. “Via crucis di un ragazzo gay” (Castelvecchi, 2024) è il suo primo libro di natura spirituale, altre sue riflessioni sono pubblicate anche su Gionata.org