Che tipo di apostolo sei?
Riflessioni del gesuita James Martin* pubblicate su Outreach (Stati Uniti), sito di risorse pastorali cattoliche per le persone LGBTQ, il 14 luglio 2024, liberamente tradotte da Innocenzo Pontillo
Spesso pensiamo ai discepoli e agli apostoli come se fossero la stessa cosa. E in alcuni punti dei nostri Vangeli, questi termini sono effettivamente usati in modo intercambiabile. Ma nella versione del vangelo in greco originale, sono parole diverse.
La parola greca tradotta come “discepoli” è mathetes , che significa “studente”. (È da qui che deriva la parola “matematica”). Ai tempi di Gesù, essere un discepolo significava non solo imparare dall’insegnante, ma seguirlo, a volte fisicamente. Essere un discepolo significava vivere come faceva l’insegnante.
È interessante notare che ai tempi di Gesù, di solito era lo studente a cercare l’insegnante. Gesù invece capovolge completamente questa situazione: cerca lui i suoi discepoli. “Seguitemi”, dice. Gesù li chiama per nome e a volte dà loro anche nuovi nomi. “Tu sei Pietro”, dice a Simone. (Pietro, o in greco Cefa, significa “roccia”). È lo stesso nelle nostre vite: Dio prende sempre l’iniziativa, risvegliando in noi il desiderio di seguirlo e di avvicinarci a Dio, di condurre vite di amore come discepoli. In sostanza, in questi modi Dio ci sta dicendo: “Seguitemi”.
“Apostolo” deriva invece dalla parola greca apo , che significa “via” o “fuori”, e stellein che significa “mandare”. Quindi un apostolo è uno che viene mandato.
Nel Vangelo di Marco 6,7-13, Gesù manda “I Dodici”, che è un altro modo di parlare degli apostoli, in una missione speciale per predicare la Buona Novella, per guarire e scacciare i demoni.
Per inciso, se leggete attentamente i Vangeli, potete vedere dei cerchi concentrici in continua espansione attorno a Gesù.
Prima c’è il cerchio più interno, Pietro, Giacomo e Giovanni, che Gesù porta con sé sul Monte Tabor per la Trasfigurazione.
Poi i dodici apostoli. Poi i discepoli, che a un certo punto sono numerati e salgono sino 72. Poi un gruppo più amorfo di seguaci. Poi, forse, le folle.
Immagino che tutti noi ci consideriamo discepoli, mathetes , coloro che imparano da Gesù e cercano di seguirlo. Ma quanti di noi si considerano apostoli, ovvero persone mandate?
Si può avere un’idea di questo in un termine di recente diffusione nella chiesa: ovvero dei “discepoli missionari”. E se sei mandato, qual è la tua missione? A cosa ti sta mandando Gesù?
Beh, dipende da chi sei. Forse ti mandano a prenderti cura dei malati in un ospedale o a prenderti cura di un parente anziano nella tua famiglia. Forse ti mandano a lavorare come avvocato che si occupa di casi pro bono per i poveri. Forse ti mandano come insegnante, imprenditore o scrittore. O a essere madre o padre. Forse ti mandano ad aiutare una comunità in particolare: quella delle persone LGBTQ, dei migranti, delle madri single, dei senzatetto.
O forse ti mandano a svolgere un ministero più formale nella chiesa, come lettore o ministro dell’eucaristia.
Se sei un apostolo, abbi fiducia nel fatto che sei stato inviato, ma ricorda anche chi è il responsabile, cioè chi ti sta inviando.
Ma la domanda implicita che Gesù pone nel Vangelo di Marco 6,7-13 è: sei in grado di far dipendere il successo della tua azione da lui? Spesso ci sentiamo frustrati, soprattutto nella nostra chiesa, quando le cose non sembrano muoversi abbastanza velocemente. Ma è chiaro che dicendo agli apostoli di non prendere nulla con loro, Gesù sta ricordando loro che il successo della loro missione non deriva da mezzi umani, ma da lui.
Quindi, se sei un apostolo, sii sicuro che sei stato inviato, ma ricordati anche chi è al comando, cioè chi ti sta inviando.
*James Martin, SJ, è il fondatore di Outreach, un sito di risorse pastorali cattoliche per le persone LGBTQ, ed è direttore editoriale di America Media, settimanale cattolico statunitense.
Testo originale: What kind of apostle are you?