Chiara D’urbano: “Passare dalla perseverazione alla perseveranza che sa accogliere la realtà”
Intervento in collegamento on line di Chiara D’urbano* all’incontro “PIETRE D’ANGOLO” (Firenze, 5 aprile 2025), trascrizione a cura dei volontari de La tenda di Gionata
Intanto grazie a La Tenda di Gionata. E lo dico non per forma, ma perché davvero, in mezzo a voi, mi sento in famiglia. A casa. Certo, ho la sensazione di portare acqua all’oceano, perché siete già così profondamente coinvolti.
Vedo tra voi amici e amiche che hanno dato contributi preziosi su questi temi: padre Pino Piva, Luciano Moia, don Andrea Conocchia, tanti volti amici. Mi dispiace non essere lì fisicamente. In questi giorni sono presa dall’uscita del mio nuovo libro Vocazioni felici. Integrare orientamento sessuale, affetti e relazioni (Edizioni San Paolo, 2025), altrimenti sarei stata con voi.
Vorrei comunque condividere qualche riflessione. Sono una psicologa e psicoterapeuta: ci si potrebbe chiedersi “cosa c’entra?”. Penso che il dialogo tra scienza e fede sia fondamentale. Non esiste una “scienza cristiana” o una “scienza per credenti”, come dico spesso, però la scienza deve dialogare con la fede e la fede deve essere sempre aperta al dialogo con la scienza.
Molti osservano che anche nel mondo della ricerca non sempre gli studiosi sono pienamente liberi o trasparenti, e che spesso portano con sé delle influenze politiche. È vero, può succedere. Ma nonostante questo, il dialogo rimane irrinunciabile. Perché?
Perché gli studi ci permettono di confrontarci con un linguaggio condivisibile, basato su concetti e costrutti che non sono soggettivi, ma riconosciuti come validi dalla comunità scientifica, anche se ricerche e riflessioni sono in continua evoluzione. Per questo motivo parliamo dello “stato attuale” delle conoscenze. Tuttavia tale confronto con la scienza, anche per i credenti, è irrinunciabile.
Non mi soffermo a ripetere o ad approfondire i concetti di base, ma per aprire insieme questa vostra giornata – così intensa e così importante – partirei da un acronimo che conosciamo bene: LGBT+. È diventato molto diffuso, ma dobbiamo riconoscere che, in realtà, non rappresenta appieno la complessità delle vite a cui si riferisce.
O meglio, mette insieme realtà molto diverse tra loro. Padre Pino Piva parlerebbe di realtà di “frontiera”. Perché frontiera? Perché ancora oggi la società, la cultura, e purtroppo spesso anche la Chiesa, fanno fatica a comprendere, ad accogliere, a guardare con uno sguardo libero, e non spaventato, queste dimensioni umane così variegate e complesse.
Vorrei sottolineare un primo aspetto importante: quando parlo di complessità o diversità, non sto attribuendo alcun giudizio morale, né sto parlando di ciò che è sano o insano. Complessità e diversità indicano la ricchezza e la varietà dell’essere umano, nelle sue infinite sfaccettature.
E proprio perché è un tema che mi sta a cuore, vorrei fermarmi un attimo sul linguaggio. Credo, infatti, che sia importante, all’inizio di una giornata come questa, ribadire che prestare attenzione alle parole sia un gesto di grande cura.
Perché? Perché il linguaggio è il primo spazio di accoglienza e di incontro possibile. A volte, anche dopo confronti importanti, capita ancora di sentire l’uso di termini inadeguati o poco rispettosi.
Prestare attenzione alle parole significa creare le condizioni per uno scambio vero. Come dice Marshall Rosenberg, in un testo “Le parole sono finestre [Oppure muri]” (Introduzione alla Comunicazione Nonviolenta, 2003). Il linguaggio, quindi, non è una questione di galateo: è un modo concreto di prenderci cura gli uni degli altri, di esprimere rispetto, amore e attenzione verso noi stessi, i nostri figli, fratelli, sorelle, amici, vicini.
Un altro punto che avevo già accennato riguarda l’acronimo LGBT+. È un acronimo che tenta di raccogliere una grande varietà di esperienze umane in continua evoluzione. Non è esaustivo, però. Inoltre lo utilizziamo per semplicità, anche se raccoglie piani differenti dell’identità sessuale. Alcune lettere riguardo l’orientamento sessuale (L, G, B), altre, invece, come sapete, riguardano le questioni di genere. Siamo, appunto, su piani diversi, parliamo di ricchezze e complessità differenti. E, lo ripeto, non intendo in alcun modo dare un’attribuzione migliore/peggiore. Siamo oltre una logica strettamente binaria, e siamo fuori da un atteggiamento valutativo.
Devo dire che anche i testi più recenti, come il DSM-5, oggi arrivato anche a una edizione revisionata (DSM-5-TR), si sono ormai allontanati da un concetto binario di salute e malattia.
Oggi si riconosce e si valorizza la varietà dell’essere umano lungo una linea continua che va dal massimo benessere a situazioni più vulnerabili.
Rispetto all’acronimo, partirei dall’orientamento sessuale.
Cos’è l’orientamento sessuale? La definizione è una delle prime aree in cui si sono creati pregiudizi e malintesi, purtroppo anche nella comprensione da parte della Chiesa.
L’orientamento sessuale è definito, dall’American Psychological Association, come “un modello stabile di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale”.
Mi piace riprendere tale definizione, perché già il modo in cui viene presentato dalla comunità scientifica mette in evidenza la complessità e la ricchezza del fenomeno: attrazione emotiva, romantica e sessuale. L’orientamento sessuale, dunque, abbraccia tutto l’universo affettivo, relazionale e corporeo della persona: riguarda il cuore, gli affetti, la sessualità fisica, corporea, genitale. Questo modello stabile può essere orientato verso persone dell’altro sesso, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi.
Eric Kandel, Premio Nobel per la medicina, definisce l’orientamento sessuale come “attrazione romantica”. Gli basta l’espressione attrazione romantica. Perché l’orientamento tocca il cuore, coinvolge gli affetti, e quindi abbraccia tutta l’umanità della persona.
Quando invece parliamo di genere, ci muoviamo su un altro piano: l’identità di genere “è una categoria di identità sociale e si riferisce all’identificazione di un individuo come maschio, femmina, o, a volte, come appartenente a categorie diverse da maschio e femmina” (DSM-5-TR). In altre parole come una persona sente di appartenere al proprio corpo di nascita, come uomo o come donna, o secondo una varietà di vissuti personali. Ritornerò sull’identità di genere. Non voglio trasformare questo momento in un incontro tecnico. Vorrei, piuttosto richiamare che oggi, non solo nella Chiesa cattolica ma anche nella società, stiamo vivendo un percorso lungo e faticoso, in cui purtroppo chi è coinvolto spesso paga il prezzo della lentezza nel comprendere e accogliere.
Giornate come quella che state vivendo sono importanti proprio per creare cultura. E la cultura non è un concetto astratto, significa comprensione, consapevolezza, capacità di accogliere e riconoscere la realtà umana in tutte le sue sfumature.
Dunque tornando all’orientamento sessuale, l’orientamento è prima di tutto una realtà affettiva. Ed è la definizione che meglio raccoglie tutta la ricchezza dell’esperienza umana legata all’orientamento.
Sappiamo che, però, l’orientamento omoaffettivo, ancora oggi continua a essere caricato di pregiudizi e malintesi. Purtroppo, anche la psicologia, a volte, ha avuto una sua responsabilità, attraverso studi che non erano realmente tali, perché non supportati da ricerche solide.
Presunte statistiche che, a volte, si basavano su uno o due casi isolati e che sono state utilizzate per costruire generalizzazioni ingiuste. Ecco, allora: quando riflettiamo su questioni sensibili – e per sensibili intendo quelle che toccano direttamente la vita e i vissuti profondi delle persone – dobbiamo prima di tutto fermarci a conoscere, a informarci, prima di valutare o di esprimere giudizi.
L’orientamento omoaffettivo, ancora oggi – e siamo nel 2025 – viene considerato talvolta, anche in documenti istituzionali, come una sorta di zoppia, come un deficit evolutivo. Da qui derivano gli interrogativi su che cosa abbia “causato” nella persona un orientamento omoaffettivo. Studi che hanno cercato di collegare l’orientamento alla presenza o assenza di figure genitoriali: padre assente, padre troppo presente, madre invadente, madre distante…Ma questi collegamenti tout court non sono validi.
Gli studi scientifici più seri e aggiornati, quelli riconosciuti a livello internazionale sia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che dall’American Psychiatric Association (APA), affermano chiaramente che l’orientamento omoaffettivo è una variante naturale e sana della sessualità, e non è una patologia. E quindi non va “curata” e “riparata”. Non mi soffermo sulla dannosità delle terapie riparative.
Questa è una base fondamentale: l’orientamento omoaffettivo è una variante naturale della sessualità umana. E da qui dovrebbero discendere conseguenze logiche e coerenti, anche per chi opera all’interno della pastorale o in ambito educativo.
Purtroppo, lo sappiamo, ci sono ancora storie, esperienze vissute, che raccontano di quanto sia pesante il fardello del pregiudizio, per cui in persone omoaffettive “c’è qualcosa che non va” e che, prima o poi, verrà fuori. Anche chi vive un orientamento omoaffettivo talvolta fatica interiormente a liberarsi da quel pensiero sottile e perverso di “essere sbagliato”.
Ecco perché giornate come oggi sono molto preziose: aiutano a chiarire presupposti fondamentali, aiutano a fare giustizia. Chiarire, infatti, è un modo concreto per restituire dignità alle persone, alle “sventurate vittime” – come qualche Autore ha definito le persone omoaffettive – di studi errati, di interpretazioni sbagliate, di letture affrettate e dannose.
L’orientamento omoaffettivo è, a tutti gli effetti, una variante naturale dell’orientamento eteroaffettivo. Non è un deficit. È, piuttosto una risorsa, un talento.
Il compito della comunità umana e della comunità cristiana è quello di valorizzare ogni persona, ogni diversità, affinché ciascuno possa trovare il proprio posto nella vita, nella Chiesa, nella società.
Alla fine, tutto questo impegno – che può sembrare complesso – è orientato a un obiettivo molto semplice e molto umano: aiutare ogni persona a trovare la propria strada.
A trovare la propria felicità.
Perché accogliere, comprendere, accompagnare i vissuti delle nostre sorelle e dei nostri fratelli non è solo un gesto di bontà, ma un atto di giustizia. E significa contribuire a creare una Chiesa, e un mondo, più giusti, più veri, più umani.
E la ricchezza umana non riguarda soltanto l’orientamento affettivo. Un’altra grande dimensione di questa varietà riguarda l’identità digenere, che come già dicevo “è una categoria di identità sociale e si riferisce all’identificazione di un individuo come maschio, femmina, o, a volte, come appartenente a categorie diverse da maschio e femmina” (DSM-5-TR), e questo può corrispondere o meno al sesso di nascita. In altre parole, l’identità di genere è il sentirsi uomini o donne in modo più o meno conforme rispetto al sesso biologico di nascita.
Anche qui, non mi addentro in dettagli tecnici.
Una prima considerazione è che la comunità scientifica mondiale – quella che fa riferimento ai principali Manuali Diagnostici, come il DSM-5-TR e l’ICD 11 – ha fatto dei passi molto importanti.
Anche le diversità di genere – oggi definite con il termine “disforia di genere” o “incongruenza di genere” – non sono considerate, in se stesse, disagi clinici. Non si tratta di malattie, né di deficit.
Quando parliamo di incongruenza di genere, piuttosto, ci riferiamo a una condizione di non corrispondenza tra la propria identità e il corpo di nascita.
Su questo voglio essere molto chiara: la depatologizzazione è il risultato, lento ma inarrestabile, di una progressiva comprensione più profonda della ricchezza e della varietà dei processi umani.
Ovviamente, non si deve banalizzare o ipersemplificare: la comunità scientifica riconosce che vivere una incongruenza di genere può generare, e spesso genera, una sofferenza nella persona. Ma attenzione: si parla di una sofferenza che non nasce dall’essere diversi, ma piuttosto dalla difficoltà di accettarsi, di farsi accogliere, di vivere serenamente la propria identità in un mondo che è ancora carico di pregiudizio.
Pertanto si riconosce una valenza clinica solo quando la persona vive un disagio interno, una sofferenza che non è dovuta allo sguardo stigmatizzante degli altri, ma alla propria fatica personale di fare alleanza con se stessi.
Ed è proprio su questo che dobbiamo riflettere: certamente una peculiarità rispetto all’identità di genere richiede un cammino personale, innegabile, di autoconoscenza, di comprensione di sé, e di accoglienza rispetto a ciò che si è. Ma l’aspetto più pesante è il giudizio, la discriminazione, la mancata accoglienza a far soffrire.
Quindi, tutta la riflessione che facciamo oggi, deve avere una doppia valenza.
Da un lato, una valenza teorica: conoscere significa abbattere i pregiudizi. E abbattere i pregiudizi significa impegnarsi a non ferire gli altri, a non creare ulteriore sofferenza là dove, spesso, gli altri potremmo essere anche noi.
Non stiamo parlando di realtà lontane, astratte. Parliamo di noi, delle nostre comunità, dei nostri figli, delle nostre sorelle e dei nostri fratelli.
Conoscere, approfondire, informarci vuol dire, come ho detto più volte anche oggi, anche affinare il linguaggio, abbattere la tentazione – purtroppo sempre in agguato – di emettere giudizi di valore, di incasellare le persone come “migliori” o “peggiori”, come “superiori” o “inferiori”.
Quando impariamo a conoscere davvero, ad ascoltare le storie e i vissuti reali, il nostro sguardo cambia. Si allarga, si fa più sensibile, più umano.
Ma la riflessione ha anche un’altra valenza, ancora più profonda: una valenza umana e pastorale. Perché conoscere significa anche diventare capaci di accogliere, di ascoltare, di accompagnare le persone nei loro cammini.
Padre Timothy Radcliffe, domenicano ed ex maestro generale dei Domenicani, parlava spesso di questa missione: “Aiutare le persone a realizzarsi e ad essere felici” (What Is the Point of Being a Christian?, 2005). Ecco, aiutare una persona a essere felice significa aiutarla a tirare fuori la migliore versione di sé.
Significa accompagnarla con rispetto, riconoscendo il suo vissuto, le sue emozioni, i suoi sogni. Non si tratta di giudicare o di modificare qualcuno, ma di camminare insieme, perché ognuno possa diventare pienamente se stesso, pienamente se stessa.
Per questo è così importante imparare a conoscere la ricchezza dell’esperienza umana. Perché ci aiuta a essere migliori come persone, come accompagnatori, come madri, padri, sorelle, fratelli, amici.
Ci aiuta a entrare nel vissuto dell’altro, a cogliere ciò che l’altro sente come buono e vero per sé, e ad aiutarlo a trovare alleanza con se stesso.
Perché trovare il proprio posto nella vita, sentirsi a casa in se stessi, è ciò che davvero è dirimente per ogni persona umana.
Per voi sono concetti già noti, ma credo sia sempre importante ribadirli.
Togliamoci dalla testa l’idea che ciò che conta sia il “tipo” di orientamento o il vissuto di genere. Non è questo che fa la differenza. Come ci ricorda Eric Kandel, l’orientamento sessuale è un’attrazione romantica, è un moto del cuore.
La vera differenza sta in come le tante dimensioni di sé sono integrate, armonizzate all’interno della persona. È questo che racconta chi siamo davvero.
Vorrei poi aggiungere un’altra riflessione che nasce dalla mia esperienza clinica: quando una persona, in un contesto terapeutico o di accompagnamento, si apre e fa un self-disclosure – cioè racconta qualcosa di così intimo come il proprio orientamento o la propria identità di genere – sta condividendo un dato preziosissimo.
Ma è fondamentale ricordare che questo dato, da solo, non esaurisce chi è quella persona. Non ci dice ancora chi è Marco, chi è Francesca, chi è Luca o chi è Paolo. Non ci dice come quella persona ama, come collabora, come vive la responsabilità, se è generosa, se è leale, se è fedele.
Ecco perché, anche quando affrontiamo temi delicati e complessi, non dobbiamo mai cercare l’uniformità di pensiero a tutti i costi. Non dobbiamo diventare ideologici, e quindi convincerci a vicenda, per appiattire tutte le sensibilità.
Siamo qui per costruire spazi di dialogo. E come dice padre James Martin (Building a Bridge, 2017), siamo chiamati a costruire ponti.
Costruire ponti significa impegnarsi per creare luoghi dove anche chi fa più fatica, chi è più resistente o chi parte da una sensibilità diversa, possa comunque riconoscersi nei valori fondamentali che ci uniscono:
- il valore delle relazioni,
- la capacità di voler bene,
- l’attenzione all’altro.
Alla fine, che senso ha interrogarsi se una persona ha un orientamento omoaffettivo, eteroaffettivo o biaffettivo? Non è questo che ci permetterà di capire chi è, davvero, quella persona.
L’orientamento è una parte importante, certo, perché è una risorsa, è un talento di Dio. Ma quello che conta davvero è come la persona ama, come costruisce le sue relazioni, come sa assumersi delle responsabilità, come si prende cura degli altri e di sé stessa.
Ecco, io penso che noi abbiamo davvero tanti valori e tante dimensioni su cui costruire ponti, anche nei contesti dove, magari, il dialogo sembra più difficile.
Vorrei allora aggiungere una nota personale, molto semplice, ma che per me ha un valore grande. Anche per me, all’inizio della mia attività clinica, il cammino non è stato immediato.
Riconosco che ero più rigida. Semplicemente perché non avevo ancora incontrato i volti, le storie, le esperienze reali.
È stato il contatto con le persone concrete che, nel tempo, mi ha profondamente cambiata. Sono state le loro vite, le loro sofferenze, la loro bellezza a costringermi – e lo dico volutamente – a mettermi in ginocchio davanti a tanta verità.
E allora oggi, sento davvero di esprimere una profonda gratitudine verso tutto il cammino che realtà come La Tenda di Gionata portano avanti. Un cammino che non riguarda solo chi si avvicina direttamente, ma che si diffonde, come onde buone, intorno a loro. Perché conoscere, incontrare, ascoltare ha un valore inestimabile: ci permette di non restare rigidi su posizioni astratte, ci obbliga a confrontarci con la vita vera.
Il pregiudizio, in fondo, è proprio questo: un’idea che si rifiuta di cambiare anche quando viene messa davanti alla realtà.
E voglio chiudere con un’ultimissima riflessione che, per me, è stata anche una scoperta interessante. Noi sappiamo quanto sia importante essere perseveranti: la perseveranza è una virtù meravigliosa. Ma attenzione: essere perseveranti non significa insistere ostinatamente su qualcosa che si rivela sbagliato o sterile.
In psicologia esiste infatti un termine poco conosciuto, ma significativo: perseverazione. La perseverazione è il tratto disfunzionale di chi continua a portare avanti un pensiero, un comportamento, un’idea, anche quando ormai è chiaro che sta fallendo, che non funziona più.
Ecco, allora: chi insiste nel non voler comprendere, nel non voler dialogare forse non ha ancora incontrato volti, storie, persone come Marco, Francesca, Luca, Paolo…
I vostri spazi di dialogo, i vostri incontri, sono così importanti: aiutano a passare dalla perseverazione alla perseveranza quella che sa accogliere la realtà.
Ed è anche il mio augurio per tutti noi.
* Chiara D’Urbano è psicologa e psicoterapeuta, Consultore al Dicastero per il Clero e Perito ai Tribunali Ecclesiastici della Rota Romana, dello Stato della Città del Vaticano e del Vicariato di Roma. Da anni lavora nella formazione e nell’accompagnamento terapeutico dei processi vocazionali singoli e di comunità. Ha pubblicato diversi libri tra cui Per sempre o finché dura. Processi psicologici del cammino sacerdotale e di vita in comune (Città Nuova, 2018 – 110 pagine), Percorsi vocazionali e omosessualità (Città Nuova, 2020 – 216 pagine) e Vocazioni felici. Integrare orientamento sessuale, affetti e relazioni (San Paolo, 2025).