Il Concilio. Cinquant’anni e non li dimostra?
Intervista di Silvia Lanzi a Christian Albini, 18 dicembre 2012
Christian Albini è un giovane teologo cremasco che da anni è impegnato attivamente nel riflettere sulla realtà evangelica per renderla sempre più attuale e vivibile. Non è uno dei soliti teologi ingessati, vecchi e incartapecoriti.
A me che, a suo tempo, ho avuto la fortuna di ascoltalo in una conferenza tenuta a “Il Guado”, ha dato l’impressione di una persona innamorata della Parola e piena di energie. È quindi con grande gioia che lo incontro di nuovo, stavolta per parlare del Concilio ecumenico Vaticano II, che quest’anno compie mezzo secolo.
Il Vaticano II dopo cinquant’anni. Quali secondo te, sono i punti salienti del Concilio?
Se ne è parlato molto. In primo luogo, il recupero per tutti i credenti del primato della Parola, una Parola non più sequestrata, riservata ai chierici. I presupposti della riforma liturgica, cioè una messa più accessibile e partecipata. L’impegno per l’ecumenismo, la libertà religiosa e il dialogo con tutti, che significa una visione non più “al negativo dell’alterità”. Uno sguardo più positivo sul mondo e sulla storia. La concezione della Chiesa come popolo di Dio e come comunione in discontinuità con una visione troppo gerarchica e clericale.
Se dovessi sintetizzare il tutto: con il Vaticano II la Chiesa cattolica è riuscita a uscire da un modo di pensare in cui l’istituzione religiosa e la sua affermazione rischiavano di essere al centro, per ritornare a una testimonianza e a un ascolto in cui il centro è diventato Gesù di Nazaret. Una Chiesa che pensa meno a se stessa e più al Vangelo, insomma.
Dopo mezzo secolo il Concilio è ancora attuale?
Alcuni aspetti dei singoli documenti risentono sicuramente del passare del tempo, ma questi elementi essenziali sono irrinunciabili e permanenti. Credo che valga davvero quanto ha detto Giovanni Paolo II definendo il Vaticano II la grande grazia del XX secolo.
I pastori della Chiesa universale che insieme hanno riscoperto i fondamentali della fede dentro la nostra epoca, con uno stile di libertà straordinario e precedentemente impensabile: basterebbe questo a rendere superflue tutte le polemiche che qualcuno si ostina a voler sollevare contro il Concilio.
Il Concilio è iniziato come una ventata di energia che doveva rinnovare la Chiesa per renderla più aderente al Vangelo e insieme più aperta al mondo che cambia. Secondo te, la Chiesa si è aperta a queste istanze?
I cambiamenti ci sono stati, per quanto si tratti di un cammino lineare e non tormentato. Basterebbe ascoltare chi viveva negli ambienti parrocchiali di mezzo secolo fa, le differenze sono evidenti, innegabili. Questo non significa che il Concilio e la sua applicazione siano un capitolo chiuso.
Se certe polemiche permangono, è perché il senso del Vaticano II va continuamente riscoperto e attualizzato, le sue implicazioni vanno continuamente esplorate. Soprattutto, nella vita ordinaria della Chiesa cattolica, va mantenuto lo “stile” del Concilio, il modo di affrontare le questioni e i rapporti interni alla Chiesa.
È qualcosa che riguarda solo le “alte sfere” o no? E qual è l’insegnamento che può venire a noi laici?
Uno dei limiti del post-Concilio, a mio avviso, è stato quello di pensare che il rinnovamento potesse e dovesse venire solo dall’alto. Un modo di pensare che si è avuto anche in molti ambienti progressisti, spesso elitari, segnati da personalismo, un po’ intellettualisti. Ne ho parlato più ampiamente in un editoriale per il sito dei “Viandanti”. Ho una convinzione.
Il venir meno della generazione del concilio e dei due decenni successivi rischia di lasciare un vuoto, se non si saprà diffondere una nuova sensibilità e suscitare un nuovo protagonismo di cristiani appassionati alla riforma della chiesa. Una strada, a mio parere, potrebbe essere quella di piccole fraternità di laici e preti inseriti nell’ordinarietà diocesana e parrocchiale, senza costituirsi come movimento o associazione a parte.
A legarli sarebbero momenti di condivisione della preghiera e dell’ascolto della Parola di Dio, ma anche spazi di confronto e riflessione su questioni teologiche e pastorali dentro la prospettiva conciliare.
Alcuni sostengono che il Concilio, o meglio le decisioni in esso prese, siano state in larga parte disattese e quasi anestetizzate. Qual è il tuo pensiero a proposito?
E’ inevitabile che un rinnovamento profondo come quello innescato dal Concilio incontri forti resistenze, nel momento in cui riguarda una realtà antica come la Chiesa cattolica nella quale pesano molte tradizioni che rendono difficile distinguere ciò che è l’essenziale, la continuità che va mantenuta, e ciò che è soltanto una forma storica, culturale, che può e deve essere riformata.
A questo, si aggiunga il fatto che il “decentramento” della pastorale dal primato della Chiesa istituzione al primato dell’annuncio evangelico va a mettere in discussione dei ruoli consolidati. Non è solo un fatto di potere – e negli ambienti religiosi c’è anche chi ama, consapevolmente o meno, certe forme di potere -, ma anche un fatto di paura, di atteggiamenti psicologici e spirituali: è più facile, più rassicurante affidarsi a ciò che è già attestato, piuttosto che avventurarsi nel nuovo. Eppure, la disponibilità ad aprirsi all’inedito è costitutiva dell’esperienza di fede, dalla chiamata di Abramo a quella dei discepoli da parte di Gesù.
Nella ricerca post-conciliare non sono mancati degli eccessi di “nuovismo”, ma negli ultimi venti anni circa il pendolo si è decisamente spostato verso l’immobilismo, come se non ci fossero domande aperte, questioni non risolte.
Alcuni – come il cardinal Martini – auspicavano, e auspicano un nuovo Concilio. Che ne pensi tu, da teologo?
In un mondo che cambia ormai rapidamente, personalmente credo che ogni mezzo secolo ci sia bisogno di discernere delle priorità e di avviare un processo conciliare. Ma anche se così non fosse, dovrebbe essere un fatto normale quello di leggere i segni dei tempi e interrogarsi su ciò che di nuovo ci dicono e sulle strade che il Vangelo ci indica. A ogni livello: personale, parrocchiale, diocesano e via dicendo…
Se penso, per esempio, alle omosessualità, non si può non tener conto del fatto che oggi c’è un’autocoscienza e una coscienza di questa realtà che solo fino a cento anni fa era assente. Allora, non si può adottare tale e quale la visione dell’antichità o del Medio Evo, senza un supplemento di riflessione e di problematizzazione. Eppure, la teologia e il magistero non si pongono alcun interrogativo, non la vedono come una questione prioritaria.
Il Vaticano II ha saputo cogliere e interpretare i segni dei tempi – in una parola essere profetico. Ora tocca a noi, perché tutti noi, in funzione del nostro battesimo, siamo chiamati proprio ad essere profeti.