Coppie gay, il sì dei gesuiti ai diritti
Articolo di Filippo Di Giacomo tratta da l’Unità, 11 marzo 2012, p.33
Lucio Dalla riposi in pace. E i soloni di questi giorni vadano a fare un giro in biblioteca. Avranno così modo di scoprire che in Italia l’unica piattaforma giuridica per le coppie conviventi, anche dello stesso sesso, è quella firmata dai gesuiti.
Se i gay (o i filo-gay) di professione, fanno finta di non averla letta, è solo perché è una proposta più ragionata e più ardita dei «dico» di laicista memoria del 2006, e più vitale e concreta dei «cus» del 2007, nati già morti in Parlamento.
La si può leggere nel numero di giugno 2008 di «Aggiornamenti sociali» autorevole rivista diretta da padre Bartolomeo Sorge (www.aggiornamentisociali.it). Già dalla prime righe, e fuori da ogni polemica, la tesi viene enunciata senza giri di parole: le convivenze tra due persone dello stesso sesso fanno bene alla vita sociale ed è possibile, anzi auspicabile, il loro riconoscimento giuridico.
Sono venti le pagine di studi firmate dal gruppo di specialisti (laici e preti: Carlo Casalone, Giacomo Costa, Paolo Fontana, Aristide Fumagalli, Angelo Mattioni, Mario Picozzi, Massimo Reichlin) impegnati ad approfondire per la rivista, i temi bioetici, con riflessioni che non condannano né escludono, ma cercano possibilità per uno «spazio di incontro» tra le diverse culture del nostro Paese. Il perché sia importante il riconoscimento delle coppie omosessuali stabili è detto con chiarezza: «per il bene comune».
La definizione è presa alla lettera dal Concilio Vaticano II: il bene comune è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e speditamente» (Gaudium et spes, n.26). Ne consegue, si legge sempre nello stesso numero di «Aggiornamenti sociali», che il Concilio ha a cuore la piena dignità della persona che fiorisce in un rapporto stretto tra individuo e società. L’una e l’altra, se separati soffrono.
Ancora, il «bene comune» del Concilio trova radici anche nella nostra Costituzione, laddove l’articolo due prescrive che alla persona debbano essere riconosciuti diritti e imposti doveri sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si esplica la sua personalità.
Perché allora la lesbica e il gay che vivono, amano, soffrono, gioiscono da tempo all’interno di una coppia in stretto rapporto con la società (lavorano, pagano le tasse, vivono di cultura, ecc.), non devono da questa essere riconosciuti? Lasciarli ai margini, significa non contribuire al «bene comune». Anzi, è ledere gli individui, è impoverire la società. Carlo Casalone, vice direttore della rivista lo scrive esplicitamente: «La persona riferisce di scoprirsi omosessuale senza volerlo e quasi sempre in modo irreversibile.
Il compito dell’etica non sta quindi nell’insistere per modificare questa organizzazione psicosessuale, ma nel favorire per quanto possibile la crescita di relazioni più autentiche nelle condizioni date». E anche sulle condanne magisteriali (nel 2003, la Congregazione della Dottrina della Fede ha reiterato la dottrina che vede nell’amore omosessuale mancanza di autenticità e disordine, negando il riconoscimento di «specifici diritti» agli omosessuali.
Ed ha espresso grande insofferenza per l’uso ideologico della «tolleranza ») Paolo Fontana, incaricato per la bioetica nella Diocesi di Milano, pone alcuni chiari e sereni interrogativi: che ne facciamo del peso sociale delle relazioni tra conviventi? Se c’è una coppia stabile emergono diritti e doveri, e la società deve tutelarli.
Come fare? Gli scritti magisteriali hanno davvero esplorato tutta la questione, o ancora non si sono pronunciati sulla rilevanza sociale di una coppia solida? Ne consegue, sintetizza Fontana, la necessità che per le coppie stabili, occorra trovare soluzioni in cui ai diritti corrispondano uguali doveri. Per i cattolici e la Chiesa dunque, la parola chiave è «unione stabile», anche per una coppia omosessuale.
E, giuridicamente parlando, restano in attesa di un istituto giuridico che sappia riconoscerne l’importanza e, quindi affermi diritti e doveri di chi offre cure e sostegno al partner. Senza necessariamente concentrarsi solo sulle espressioni sessuali o su quelle affettive. Al legislatore poi, che la convivenza sia sessuale o sublimata, non deve interessare.
Nell’Angelus di una domenica di giugno del 2000, Giovanni Paolo II, riferendosi proprio ai credenti omosessuali, disse: la dottrina cattolica va presa nella sua integrità evangelica; la discriminazione non è più concepibile; chi vuole riconoscersi nel cristianesimo, qualunque sia la sua opzione affettiva, deve anche accettare di progredire nella legge morale che la tradizione apostolica ha sempre tratto dagli insegnamenti della Scrittura Santa.
Tanto, per “sorella morte, omosessuali o eterosessuali non fa differenza: ci rende tutti poveri allo stesso modo, tutti mendicanti della stessa misericordia”.