Cosa accade quando i sacerdoti si confrontano con i credenti LGBT+ e i loro genitori?
Riflessioni di Mara Grassi e Agostino Usai, soci de La tenda di Gionata
Il 15 novembre scorso nelle marche un gruppo di sacerdoti, che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine da pochi anni, ha voluto trascorrere una giornata di condivisione e confronto sul tema “fede e omosessualità”.
Non si sono accontentati di conoscere gli articoli del catechismo o i documenti del magistero dedicati a questo tema o di condividere le loro pur preziose esperienze pastorali e umane, ma, secondo lo stile che il Sinodo ci sta insegnando, hanno chiesto all’associazione La tenda di Gionata di poter ascoltare direttamente l’esperienza di una coppia di genitori credenti con un figlio gay e la testimonianza di Marco, un gay credente di origine marchigiana, ma da anni residente a Bologna e unito civilmente con Pier Paolo.
Non ci hanno spaventato le tre ore di viaggio, ma ne valeva la pena. Abbiamo incontrato sacerdoti che sanno mettersi in discussione e che non hanno paura di ammettere spesso la loro impreparazione di fronte a questo tema, non tanto sul piano teorico, quanto in termini di vicinanza e sostegno concreti alle persone Lgbt+ credenti che possono incontrare nel loro ministero.
“Sono in difficoltà – ammetteva uno dei giovani preti – io li accolgo e poi? Come sacerdote voglio essere fedele alla dottrina della Chiesa, ma come posso obbligare una persona a vivere una castità che non ha scelto? Come posso impedirgli di vivere pienamente la propria affettività ed obbligarlo così a una vita che potrà essere solo una frustrazione?”.
In tutti abbiamo visto la volontà di compiere un cammino nella verità e nella carità che si incontrano in Gesù, come un altro di loro ci ha detto. Ce lo ricorda il salmo 84: “Amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Dov’è la verità? La si scoprirà solo nel cammino”.
Cammino che richiede studio, una riflessione teologicamente equilibrata, ma soprattutto una comprensione profonda delle persone che come sacerdoti saranno chiamati ad accompagnare.“È nell’ incontro con le persone che si comprende la volontà di Dio e non ‘l’idea’ della sua divina volontà. Solo nell’incontro con il ‘tu’ dell’altra/o siamo sicuri di non perseguire un’idea di Gesù Cristo, ma di seguire il Gesù reale”. (P. Gamberini).
Abbiamo parlato insieme di omosessualità intesa in primo luogo come omoaffettività, amore e non semplice genitalità, della voglia di vita e di realizzazione umana e affettiva delle persone Lgbt.
Un sacerdote presente all’incontro ci ha ricordato il testo del presbitero moralista della diocesi di Milano Aristide Fumagalli, “L’amore possibile“, in cui con competenza e grande equilibrio si esamina l’aspetto storico, scientifico, biblico, teologico e magisteriale, per provare a dare risposta sul se e quando in un amore omosessuale ci sia amore interpersonale, fecondo e le qualità dell’amore cristiano.
Che bello incontrare dei sacerdoti che si fanno delle domande! Noi genitori ci abbiamo messo 12 anni prima di incontrarne uno che non ci ripetesse soltanto la dottrina. E a Giovanni, il nostro figlio, gay quanto male hanno fatto le parole dei preti a cui si è rivolto, al punto che adesso non ne vuole più ascoltare nessuno.
Ci tornano in mente le parole di don Basilio Petrà: “La morale della Chiesa non è la morale degli specialisti, non è una morale ‘fredda da scrivania’, elaborata con rigore razionale e deduttivo: è la morale che si fa vicinanza, accompagnamento, assunzione dell’altro; è la morale di pastori misericordiosi che, come il loro Signore, non temono di ‘entrare nel cuore del dramma delle persone prospettando le vie del bene possibile e aiutando il discernimento personale senza mai sostituirlo”.
Ma la cosa più preziosa di quell’incontro è stata avere con noi Marco, giovane gay credente, perché grazie a lui abbiamo potuto toccare con mano che è possibile vivere la propria omosessualità e la propria fede in modo sereno, risolto.
Fino a quando le storie di vita vissuta non emergono, la Chiesa non può cambiare. È questo lo sforzo che tutti noi del mondo Lgbt+ credente stiamo facendo, affinché le nostre esperienze vengano conosciute, condivise e divengano oggetto di riflessione nelle comunità.
Le persone omosessuali, naturalmente, hanno sempre fatto parte sia della società civile sia della Comunità ecclesiale, ma spesso per vergogna, per paura, per senso dell’opportunità sono rimaste nascoste. Il fatto che, soprattutto dagli anni ’80 in poi,le persone Lgbt+ abbiano iniziato a raccontarsi apertamente, ha contribuito a innescare un cambiamento anche nella cultura, nella società, nelle scienze umane.
Noi chiediamo che la Chiesa recepisca le acquisizioni dei più recenti studi scientifici e antropologici e alla luce di questi possa rileggere la Tradizione. È dal 1990 infatti che l’OMS ha definito l’omosessualità come una variante naturale del comportamento umano anche se minoritaria.
Ci sono resistenze molto forti, ma la strada è quella di riuscire a dare risposte nuove a problemi nuovi, tenendo conto, come afferma Gianni Geraci, del principio di realtà, cioè del fatto che la vita delle persone per realizzarsi pienamente necessita di una conciliazione armoniosa fra orientamento sessuale ed esperienza di fede.
Sentendo parlare Marco, ci sembrava di ascoltare la vita di nostro figlio, il tipico bravo ragazzo promettente, bravo a scuola, impegnato in parrocchia come educatore di Azione Cattolica e… un’omosessualità consapevole, ma tenuta nascosta. “Papà, io lo sono sempre stato, portavo una maschera perché mi sentivo sbagliato” ci ha detto Giovanni.
Marco poi è andato a studiare a Bologna e ha tagliato i ponti con la parrocchia, con la Chiesa, immergendosi in una realtà laica che gli ha fatto scoprire un’umanità incarnata. “Mi sentivo però in una sorta di esilio e intanto riemergeva il desiderio profondo – quel desiderium in senso etimologico di ‘nostalgia della visione delle stelle’ (de + sidera)– di ritornare a contatto con la Parola di Dio.
E questo si è realizzato proprio quando ho incontrato il mio compagno di vita. Fino ad allora ad essere esiliato dalla mia vita era stato il mio corpo ed ora finalmente mi sentivo un essere umano integrato. Entrambi avevamo sete di Dio, che mi era stato ‘negato’ dalla cultura ecclesiale che avevo respirato. Per me è stato un ritorno a casa.
Poi è seguita l’unione civile che non ha rappresentato solo una conquista sociale di diritti, ma l’abbraccio pacificato fra la mia anima credente e il mio essere cittadino del mondo”.
Richiamando il passo di Ezechiele 10, dove la gloria di Dio esce dal tempio di Gerusalemme per raggiungere i figli di Israele in esilio, Marco si è domandato: “Dove abita Dio?”, rispondendo sulla base del suo vissuto: “Nel tempio, ma anche nelle nostre vite. Nel ‘sacrario’ intimo della mia coscienza (Gaudium et Spes 16) ora mi sento pienamente me stesso. E dalla pienezza non si può esiliare una dimensione così essenziale come la sessualità, altrimenti rischiamo di creare delle mostruosità.
Io e Pier testimoniamo alla Chiesa che, come afferma la Genesi, siamo cosa buona” – anzi molto buona, ha aggiunto un presbitero – “in tutto quello che siamo, e non nonostante quello che siamo”.
Le parole di Marco, di cui abbiamo riportato una brevissima sintesi, ci hanno profondamente colpiti e resi ancor più consapevoli di dover continuare a raccontare. È una “teologia narrativa” che ci fa riflettere sul rapporto dell’uomo con Dio, con il divino, partendo dalla storia delle persone, perché il Signore si è incarnato per donare vita piena alle persone, non per un astratto sistema teorico.
Vorremmo terminare augurando ai presbiteri che abbiamo incontrato quello che scrive Paolo ai Corinzi: “Dio ci ha resi capaci di essere ministri di una Nuova Alleanza, non della lettera, ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2Cor 3,6).