Di fronte all’amore fecondo di una coppia gay noi cristiani abbiamo qualcosa da dire?
Lettera di don Umberto Ferdenzi tratta da Libertà (quotidiano di Piacenza), 28 luglio 2011
La storia potrebbe sembrare un’ennesima riedizione di Love Story: lui ricco e indipendente s’innamora dì lei, giovane dallo stipendio saltuario. I due decidono di vivere insieme nell’appartamento di lui, come semplici conviventi.
I genitori del giovane disapprovano a tal punto la scelta del figlio da decidere di troncare ogni tipo di rapporto e rimangono abbarbicati alla loro scelta anche quando questi si ammala gravemente.
Solo lei lo curerà nella più totale dedizione e nel più assoluta isolamento. Lui morirà in ospedale non tra le braccia della sua donna ma tra le braccia di mamma e papà, i quali proibiranno a lei di potere anche solo vedere il loro amato figliolo.
E per completare l’opera, i genitori di lui si avvarranno anche del diritto di essere gli unici eredi dei beni del figlio. Immaginiamo di essere al funerale di quel figliolo quando il sacerdote, nella preghiera di commiato, dice: “è stato per noi segno della tua bontà e della comunione dei santi in Cristo”.
Quanti cattolici s’indignerebbero a sentire queste parole dette sulla vita trascorsa di un pubblico peccatore? Pochissimi. A dirla tutta non ci indigneremmo neanche se quelle parole le sentissimo dette di fronte alle bare dei due genitori.
Se quelle bellissime parole, che sono patrimonio di fede della nostra Chiesa, fossero la commovente conclusione della storia d’amore non dì due semplici conviventi ma di due divorziati, il tasso d’indignazione aumenterebbe? Non credo.
Per aumentare il tasso d’indignazione occorre raccontare, la storia così come l’ho ascoltata in un programma televisivo. Non c’è quasi nulla da cambiare negli avvenimenti, è che ad amare in modo così coraggioso il proprio convivente malato non era una lei, ma un altro lui.
Non sono a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso, perché il legame matrimoniale non è solo funzionale al sostegno fisico e morale dei coniugi, ma è anche a favore dei figli i quali, ritengo, abbiano bisogno di entrambe le figure genitoriali. Tuttavia, la domanda rimane: quella storia è stata per noi un segno della Sua bontà e della comunione dei santi in Cristo? A chi ci appelliamo per dare una risposta?
I grandi apparati teorici sono persuasivi quando trattano di natura e contro natura, di vita conforme alla dottrina cristiana, di piena appartenenza alla comunità ecclesiale, ma quando tra le pieghe di questi costrutti entra la vita col suo gioco singolare dì amore e sofferenza la quadratura del cerchio non riesce quasi mai.
Questa libertà anarchica della vita indigna, infastidisce, perché quando siamo condotti a prendere una posizione sul caso singolo la chiarezza razionale, che pur serve per orientare le nostre scelte, è spesso una coperta troppo corta: vorresti che le spiegazioni avvolgessero tutto l’umano, i suoi gusti, le sue tendenze, le sue perversioni, eppure quando cerchi di coprirti le spalle finisci col lasciare scoperti i piedi.
Spingiamo la lama più a fondo: occorre aspettare di giungere al capolinea per riconoscere nella vita i segni della bontà di Dio? Immaginiamo che questa storia di pubblico peccato sia nella mia parrocchie, come dovrei presentarmi a casa loro? Come un buon padre che resta vicino ai loro figli testardi e ribelli?
Qui arriva lo sguardo corto del buonista: vede la veste bianca della santità su di sé, Oppure dovrei presentarmi con l’umile coraggio di chi deve ancora capire fin dove si spinge la fedeltà di Dio alle storie dégli uomini?
Qui, penso, inizia lo sguardo buono, lo sguardo di chi vede la veste bianca negli altri; uno sguardo che se tace il male osa anche dire il bene che vede (bene-dire): segno della tua bontà e della comunione dei santi in Cristo. Presunzione? Forse, ma il problema non sta lì, ma nel compito di darsi uno sguardo buono.
La storia di vita di questi due conviventi espone noi a prendere una posizione, e non basta dire che Dio nella sua grande misericordia saprà certamente vedere il bene là dove noi non possiamo vederlo.
Queste amnistie spirituali non tengono e sono scorrette, perché questa volta il bene lo vediamo: sta in tutto quel tempo di fedeltà, dedizione e cura nel più duro isolamento, quello creato dalla relazione familiare. Un bene che solo dei maniaci del legalismo oserebbero staccarlo dalla storia nel suo complesso.
Una storia imbarazzante e irriverente. E cosa ci aspettiamo dall’amore di due gay? Tuttavia, sono proprio queste forme d’irriverenza che dovremmo salvaguardare e che, purtroppo, vengono sbiadite nella loro carica dirompente ogni volta che si penalizza la diversità. Si vorrebbero queste storie accomunate con troppa superficialità a quelle eterosessuali: stessi diritti e stesse priorità.
La capacità di provocare che hanno questi amori “diversi” sta proprio nell’essere esclusi dalla tutela dei diritti, esclusi dalle graduatorie dei privilegi, esclusi dalla capacità di essere strutturalmente aperti alla vita. Eppure, davanti a questa storia non posso fare a meno di pensare che la cura, la dedizione di quel giovane verso il suo compagno ammalato sono state un’apertura alla vita più forte di quanto hanno saputo essere e fare i genitori, in tutti i loro anni di onorato matrimonio.
Dio li benedica.