I gay e quelle “diaboliche” Dark Room
Considerazioni di Emanuele Macca del Gruppo del Guado Cdi Milano
Buio o semibuio, odore di chiuso e di sudore, corpi che si sfiorano e si toccano, desideri e pulsioni che vogliono esprimersi liberamente e togliersi il velo di ogni censura… C’è un misto di liberazione e di ossessione, l’occhio e lo sguardo spesso dominano e schiacciano la parola e l’ascolto.
Siamo figli anche delle nostre pulsioni carnali e figli di una società che ha economizzato tutto. Quello che una volta si faceva nascostamente dietro gli alberi e i cespugli, nei campi o nei laghetti, ora lo si fa anche in locali studiati apposta per il consumo di carnalità.
E Milano di queste realtà è ricca… tanto ricca da averne di tutti i gusti sia sessuali che estetici. Ci sono quelle dominate dal buio e dal senso della trasgressione, quelle specializzate per i feticismi e quelle più pulite e con zone curate e luminose per un pubblico “più esigente” che ama mantenere spazi di normale socializzazione.
Un bar, una sauna, un cameriere con gli soli slip fisicamente ben fatto, dalla parlantina brillante e possibilmente tutto depilato… quel ragazzo che tutti sognerebbero di stringere tra le loro braccia per vivere con lui un momento di passione.
Mi aveva colpito con che attenzione ai particolari le ha descritte Di Tolve (1) nella sua autobiografia che narra il suo passaggio dall’omo all’eterosessualità. Con lo sguardo di tutti i genitori sono luoghi tremendi, chiunque leggesse queste righe proverebbe ribrezzo se le lega a un suo caro e tanto più a suo figlio.
Eppure sono luoghi che hanno fatto parte di tutta una storia, di tutta un’umanità, lungo la strada, talvolta dentro e talvolta fuori le mura della città. Col nostro corpo e i suoi desideri dobbiamo fare i conti: annullarlo e demonizzarlo, considerarlo solo prigione eterna di una realtà senza scopo se non in una dimensione diversa e totalmente alternativa, non rende giustizia di Dio che si è fatto uomo, carne, sudore, persona con tutto ciò che questo comporta.
C’è un non so che di diabolico in luoghi che manifestano tutta la carnalità dell’uomo e ci appiattiscono in questa carne… ma c’è anche una dimensione diabolica nell’idealizzare un bene per tutti quasi irraggiungibile che ci rende maschere che devono dire quello che non sono e devono reprimere un pezzo della loro “identità”.
Questi luoghi li ho vissuti anch’io, ma li ho vissuti con uno spirito sempre diverso col passare del tempo. Sono partito da un frequentarli schizofrenicamente come qualcosa in cui l’Emanuele omosessuale potesse sperimentare aspetti di sé che nel resto della vita doveva “forzatamente” censurare fino a che un giorno… è accaduto un “miracolo”…
L’ansia legata alla mia salute caduca e alla mia disistima fisica mi ha sempre fatto vivere male il rapporto sessuale in quanto espressione massima della fisicità.
Ma l’attrazione per il corpo – come è umano – mi è sempre appartenuta; osservare i bei ragazzi, desiderare che mi abbracciassero e toccassero, osservare la nudità come qualcosa di assolutamente naturale ha sempre fatto parte della mia indole. E credo sia questo che mi ha spesso indotto a frequentare questi luoghi.
Gli odori ancestrali e talvolta travolgenti della fisicità umana e di ogni sua espressione li ho conosciuti, ma buttarmi fino in fondo in simili esperienze non ho avuto il coraggio di farlo. Guardare e toccare un po’ sì, ma andare fino in fondo no! Di questo desiderio abortito al suo nascere mi sono sempre sentito prigioniero.
Eppure anche queste esperienze hanno acquistato un senso, col trascorrere delle notti e degli anni. Quella apparente prigione che mi impediva di tuffarmi appieno nella più sfrenata sessualità, nel darmi in toto ad altri corpi che quasi sicuramente il giorno dopo nemmeno si sarebbero ricordati della mia esistenza, è stato un modo per sviluppare l’osservazione e la riflessione.
Quanti volti ho visto, quante persone sono scivolate via davanti ai miei occhi senza nascondere nulla di loro, dando forse per scontato un patto tacito… “che essendo tutti passati da quell’angolo di mondo proibito nessuno ne avrebbe mai parlato all’esterno con altri”.
Persone che trepidavano dal desiderio, persone più anziane in locali pieni di marchette spesso superbe o almeno non dialoganti (del resto stavano lì per lavorare, non per tessere legami umani), ma anche persone che senza problemi ti trattavano da pari a pari e che ti raccontavano pezzi della loro storia. Qualcuno avendo bevuto qualche bicchiere di troppo, avendo assunto qualche cocktail di troppo, perdeva il controllo e diceva e piangeva tutto quello che altrimenti non avrebbe mai avuto la forza di dire. Un paio di ragazzi stavano assumendo ormoni per fare cambio di sesso senza alcun controllo medico… erano vite lì accanto alla mia!
Ed io ho avuto l’onore di raccogliere piccoli frammenti di vite… Ho così imparato a dare un senso a quei luoghi. E varie volte mi è capitato di uscire la mattina e andare a pregare nella Chiesa più vicina, pieno di un’emozione strabordante, col cuore che a tratti era gonfio di serenità, della serenità di aver conosciuto delle persone e di poter condividere questi racconti col Signore.
Non posso demonizzare questi locali come fa Di Tolve (2)… Non posso demonizzare il vissuto delle persone che è anche un pezzo del mio vissuto. Ma vivrei anche come un incubo pensare che quei locali siano l’apice della mia vita, il modo migliore in cui passare i momenti liberi della mia esistenza.
Come tutti gli esseri umani, sono e credo sarò sempre in bilico tra la mia fisicità e la mia spiritualità, ma lì ho imparato anche che ogni cosa che viene vissuta da noi diventa unica e non classificabile. Infatti con i nostri occhi e le nostre emozioni anche noi contribuiamo a fare i luoghi. Questa consapevolezza mi porto dietro… e se la saprò applicare in ogni dove, in ogni momento inatteso della mia vita forse saprò vivere meglio e più in armonia col mondo.
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(1) LUCA DI TOLVE, “Ero gay. A Medjugorje ho ritrovato me stesso”, ed. Piemme, pagg. 110 – 114 dove Di Tolve descrive le varie tipologie di locali nei capitoli “Sadomasochismo su misura” e “Una questione di <pelle>” e sottolinea che si tratta di “gente che, poi, per i consueti meccanismi di dipendenza , è rimasta totalmente invischiata, mantenendo anche al di fuori dei rapporti carnali il ruolo di schiavo e padrone” (pag. 113).
Purtroppo però Di Tolve parla solo di queste storie rinforzando l’idea che molti di quelli che da questi locali passano lì si fermano. Non approfondisce ma anzi liquida quei gay che anche in virtù di una ricerca di fede cercano e vivono dimensioni alternative e più mature o non avendo mai frequentato questi locali o vivendoli senza quell’ossessione descritta nel libro ma consapevoli che le vere relazioni sono altro e mirando di fondo alla ricerca di questo “altro”.
(2) cit., Di Tolve non disdegna di citare la scorretta interpretazione che fa della parola drag queen tal Andrea Berardicurti in arte “La Karl du Pugnet” il quale dice che drag queen significa ”regina drago” ispirandosi alle regine cinesi che indossavano abiti e acconciature esagerate a tal punto che per potersi muovere dovevano farsi trasformare dagli schiavi. Si sa che in inglese drago si dice “dragon”, e comunque l’autore fa un ulteriore forzatura trasformando una citazione di costume in un fatto etico e valoriale accostando il drago a quella figura biblica che si oppone a Dio e al Leviatano quasi a dire che anche le “drag queen” sono un richiamo satanico.
Per concludere poi con la citazione di Michele, l’autrice di “Fuggita da Satana” (sempre edizioni Piemme), la quale afferma che il sacrificio umano è quello più gradito a Lucifero, e a seguire viene l’atto sodomitico che, benché sia meno cruento rispetto al primo, è passibile di essere reiterato migliaia di volte (pag. 132).