Dopo il coming out dei nostri figli, l’oscurità può mostrarti la luce (Marco 10, 46-52)
Riflessioni di Federica F. Zanoni
“E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!»Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».
Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.” (Marco 10, 46-52)
La Chiesa ha proposto nel mese di ottobre nella liturgia della XXX domenica del tempo ordinario questo brano che racconta la vicenda di Bartimeo, un cieco che sedeva lungo la strada a mendicare e sente passare Gesù. Il nome Bartimeo, se seguiamo la tradizione aramaica, etimologicamente vorrebbe dire figlio di Timeo, cioè figlio dell’impuro, quasi a indicarci una condizione di poca trasparenza e marginalità. Cosa c’è di più perduto, di più naufrago della vita di un uomo che ha perso la vista e non è più se stesso alla periferia dell’esistenza? Fuori dalla città in completa solitudine? Che sente di non avere più nessuna speranza per il suo domani?
Il grido che rivolge a Gesù, urlando con forza il suo nome, è lo stesso grido che ho sentito esplodere in mia figlia e, credo, in tutti i nostri ragazzi/e, nel momento in cui hanno fatto coming out mettendo a nudo le proprie ferite e il disagio di vivere in un corpo che non apparteneva più a loro.
Quasi una perdita della vista, di quella dimensione corporea e autenticità interiore che li ha resi ciechi, incapaci di trovare una via d’uscita per la loro esistenza. Mentre prima vedevano, ora non vedono più e come Bartimeo gridano “Che io veda di nuovo”.
Anche le persone che rimproverano Bartimeo perché taccia sono le stesse voci che oggi vorrebbero zittirli: sembrano suggerire di fare silenzio, di vivere nel nascondimento, di non coltivare illusioni perché il loro grido è inutile e dannoso, non puo’ arrivare all’orecchio del mondo e di Dio.
Ma Bartimeo urla ancora più forte. Cerca un Dio che accolga i suoi stracci. Questo grido che parte dalla profondità del suo disagio, diventa preghiera e raggiunge Gesù. Non una richiesta di perdono per i peccati, ma di luce per occhi spenti, per una pelle nuova che possa ancora ricevere carezze.
Allora ci vuole coraggio, perché il coraggio è la virtù degli inizi: ricominciare, riprendere in mano la vita, liberare un’energia a lungo compressa come quella che fa balzare in piedi Bartimeo e gli fa gettare il mantello.
Bartimeo rinasce in quella carezza di Gesù che lo chiama e gli chiede che cosa desidera veramente: ”Che io veda”. Non vuole più scorgere solo quel margine di strada in cui è stato relegato a mendicare, vuole scoprire tutta la strada intera. Vuole guardare in alto, vuole rialzare la testa.
Così i nostri figli/e transgender non si sono vergognati di essere i più derelitti, anzi è stata la loro forza.
E’ nata la loro lotta contro il buio degli occhi e il muro della folla. Anche loro chiedono a Dio: mostrati Padre, sentiti Madre di noi ragazzi che abitiamo il margine, facci nascere di nuovo, ridacci la Luce.
Quando, dal bordo della strada, sono capaci di rialzarsi e di gettare il mantello, cioè la loro vecchia identità, aprono strade di luce con risorse che non sapevano di avere, reagiscono a situazioni di morte che credevano senza speranza e riprendono a camminare lungo una strada che prima non vedevano più.
Guardano in alto recuperando l’autostima e la dignità di essere persone nuove. E noi genitori dobbiamo rinascere con loro. Dentro questo abbraccio possiamo salvarci insieme.