Dove sono le donne? Squilibri di genere nelle comunità cattoliche LGBTQ+
Articolo di Elisa Belotti pubblicato sul sito di New Ways Ministry (Stato Uniti) il 7 ottobre 2025. Tradotto da Laura Scarmoncin
Laura Scarmoncin è una traduttrice italiana di testi internazionali ed esperta di storia e studi di genere. Femminista convinta, è attiva nel movimento LGBTǪ+ da molti decenni.
Come cattolica, si è impegnata profondamente su questioni di fede e teologia, portando nuove voci nel dibattito queer italiano attraverso le sue traduzioni di libri su religione e spiritualità, tra cui la traduzione italiana di “Love Tenderly: Sacred Stories of Lesbian and Ǫueer Religious”, pubblicato da New Ways Ministry.
Elisa Belotti l’ha intervistata per Bondings 2.0 sulla scarsità di donne negli spazi cattolici LGBTǪ+, sulla persistenza della predominanza maschile nel movimento e sulle sfide e le possibilità di costruire comunità in cui le voci e le esperienze delle donne siano pienamente accolte.
In molti spazi cattolici LGBTQ+ gli uomini sono più numerosi e visibili delle donne. Dal tuo punto di vista, perché le donne lesbiche, bisessuali e queer partecipano meno?
La penuria di donne e la prevalenza di uomini negli spazi politici misti è un ricorso storico vecchio quanto l’attivismo LGBTQ+, e resta uno dei suoi maggiori nodi irrisolti. Penso che la ragione sia tanto semplice quanto, forse, difficile da accettare: gli spazi misti che si rivelano essere dominati dagli uomini sono spazi in cui gli uomini non mettono davvero in discussione il dominio maschile.
Questo crea da sé un campo di esclusione, ma spesso manchiamo il bersaglio sulle vere radici di questa dinamica segregante: è cosa comune addossare la responsabilità alle donne perché non si fanno vive o scelgono spazi separatisti.
Molto meno comune è analizzare come l’androcentrismo, il sessismo e persino la misoginia permeano i nostri spazi condivisi e le nostre stesse interazioni, e a che prezzo per chi non è un uomo.
Negli ambienti cattolici questo problema è immensamente ingigantito: se è vero, come afferma Julie Hanlon Rubio nel suo ultimo libro Si può essere cattolici e femministi?, che «nella vita cattolica il dominio maschile è così strutturalmente pervasivo da sembrare normale», anche solo denunciare il problema può voler dire schiantarsi contro un muro di negazione e disconoscimento.
Per quanto riguarda gli spazi cattolici queer, credo ci sia un ulteriore difficoltà: è davvero dura accettare di poter essere sia vittime che perpetratori. Ma i nostri fratelli gay e trans possono essere al contempo discriminati dall’eterosessismo e discriminare godendo di alcuni suoi dividendi a spese delle donne.
A questo proposito, vorrei che si pensasse e parlasse meno in termini di identità monolitiche e più in termini di posizionalità complesse, persino scivolose, nei rapporti di potere: è l’unico modo per assumersi le proprie responsabilità.
Credo che sia tempo che le persone cattoliche riconoscano il fatto che, anche nei loro spazi, la predominanza maschile è di norma il prodotto diretto di un indiscusso e irrisolto predominio maschile.
Le donne hanno tutto il diritto di rifiutarlo (che sia non facendosi vive, costruendo i propri spazi separatisti o levando critiche), ma alla fine sta agli uomini cambiare davvero le cose.
Quindi anche negli ambienti queer cattolici possono emergere le stesse dinamiche sessiste presenti nella società. In che modo questo accade e quali strategie possono aiutare a trasformare questi spazi in contesti davvero inclusivi per le donne?
Negli ambienti queer cattolici l’androcentrismo strutturale, persino sfacciato, della Chiesa gerarchica si riproduce perlopiù a livello micro.
Oggi il sessismo e la misoginia che ne derivano sono contestati nelle loro manifestazioni più visibili e ostili, ma trovo che raramente siano colti, per non dire interrogati e discussi, nei loro aspetti intrapersonali.
Non va dimenticato che i rapporti di potere sono alimentati dalle «strutture» ma vissuti attraverso i nostri stessi corpi-mente, e ciò significa che gran parte del lavoro politico che ci spetta fare è su di noi.
Quando si tratta di relazioni di genere ingiuste, i nostri fratelli cattolici devono aprirsi a una critica e una trasformazione anzitutto personale, individuale. Altrimenti non c’è modo di riformare davvero le dinamiche che danno forma alle nostre comunità incarnate.
Legato a ciò, un altro scoglio che noto negli spazi cattolici, sia queer che non, è la demonizzazione del conflitto, cosa che finisce per preservare lo status quo. Per citare Sara Ahmed, pensatrice femminista e queer, troppo spesso «chi denuncia un problema diventa il problema» anche nella Chiesa. Ma per cambiare, una relazione o una struttura ingiuste devono prima essere contestate col dissenso e l’attrito.
Vorrei che, soprattutto negli spazi cattolici, il conflitto aperto fosse finalmente riconosciuto e onorato come trasformativo anziché bollato come divisivo e deleterio, come spesso accade.
Abbiamo ancora molto da fare in entrambe le direzioni, ma penso che il modo migliore per costruire una Chiesa giusta sia guardare alle nostre responsabilità personali e imparare a non eludere i contrasti in nome di un’unità e un’armonia che rischiano di tradursi in una condiscendenza tacitante.
Negli ultimi anni i gruppi LGBTQ+ cattolici hanno organizzato importanti iniziative pubbliche, come il Giubileo LGBTQ+, che ha ottenuto visibilità e il riconoscimento della Chiesa. Al contrario, i gruppi femministi come Women’s Ordiantion Conference (WOC) e Catholics for Choice (CFC) hanno spesso subito una repressione nel portare avanti le loro azioni. Come interpreti questa diversa accoglienza?
Credo che per capire la loro diversa accoglienza sia necessario fare un importante distinguo tra queste due forme di attivismo cattolico: le azioni femministe come quelle di WOC e CFC mettono in discussione l’androcentrismo della Chiesa in modo esplicito e diretto, mentre nelle mobilitazioni queer questo elemento è volentieri trascurato.
Ed è facile pensare che le azioni femministe fossero in qualche modo fuori luogo e quelle queer consone per come si sono svolte, le prime con delle contestazioni aperte, le seconde con una partecipazione gioiosa e fiduciosa.
Ma è così che di solito si legittima la repressione della critica. Inoltre, di fronte a tutto ciò mi domando quante donne queer si siano sentite lacerate nella loro appartenenza, mentre ai nostri fratelli chiedo: è davvero praticabile celebrare l’inclusione di alcuni chiudendo un occhio sull’esclusione di altri?
Per quanto disturbante sia, questa domanda va dritta al cuore della possibilità stessa di una Chiesa cattolica accogliente per chiunque.
Testo originale: Where Are the Women? Gender Imbalances in LGBTQ+ Catholic Communities

