Ecumenismo e queerness: credere oltre le divisioni
Riflessioni di Paolo Spina*
Ogni anno, dal 18 al 25 gennaio, si celebra la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Oggi appare un’intenzione quasi scontata, da mettere a fianco – se non in coda – ad altre, così necessarie da essere ovvie: la pace, il progresso dei popoli, la salvaguardia del creato.
Non sempre fu così; il sogno di una sola fede per tutti i credenti in Cristo, senza confessioni tra loro frammentate, nasce probabilmente molto addietro, con gli scismi in seguito ai primi concili (come ogni famiglia, anche noi cristiani siamo da sempre cinture nere di litigiosità).
Un desiderio più concreto nasce però soltanto poco più di un secolo fa e, come spesso accade, arriva dalle periferie: è in terra di missione che lo scandalo della divisione tra i cristiani emerge in maniera più netta, contrapponendo chiese che, pur predicando tutte il messaggio evangelico dell’amore fraterno, vivono i rapporti tra loro con reciproca distanza e diffidenza.
Ci aspetteremmo che l’emergere di questa esigenza porti a una pronta risoluzione del problema, unendo l’umana ragionevolezza alla comune fede in Cristo. E, invece, no.
Il passato, segnato da secoli di pretesa supremazia di una confessione sull’altra, a colpi di scomuniche e dichiarazioni teologiche su quale chiesa avesse trasmesso il messaggio di Gesù nel modo più aderente al Vangelo, ebbe un peso così determinante da frenare più e più volte tentativi ora timidi, ora coraggiosi.
Questioni complesse, da addetti ai lavori, ben sopra le teste della maggior parte dei credenti in Cristo – validità dei sacramenti, natura delle persone divine della Trinità, ruolo di Maria nella storia della salvezza, problemi di natura morale, e tanti altri ancora – hanno tolto lo spazio all’essenziale: quanto è credibile l’amore predicato da chi non riesce ad accordarsi nemmeno sulla data della Pasqua?
La domanda è volutamente iperbolica ma, al tempo stesso, rende l’idea di quanto la causa dell’ecumenismo – ormai ampiamente sdoganato nella Chiesa cattolica, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II e i suoi pronunciamenti ufficiali, come Gaudium et spes, Lumen gentium e Unitatis redintegratio – sia in realtà costata fatica e dolore a tante e tanti che, con intuizione profetica, ci credettero ben al di là della miopia di teologi e pastori loro contemporanei.
Così è evidente perché questo tema parli molto anche alla comunità queer che, su crinali diversi, vive però la stessa prospettiva, con desideri comuni: piena comunione e accettazione da parte della gerarchia, non solo in termini pastorali, ma anche magisteriali; partecipazione completa alla vita sacramentale della Chiesa; maggior coerenza tra un invito proclamato per “tutti, tutti, tutti” e il riscontro con una realtà piena di “ma”, di “se”, di “regole del gioco” tutt’altro che fraterne.
Piccoli e grandi segni punteggiano il colorato giardino delle diverse Chiese cristiane, sia a livello pastorale – ospitalità reciproca nei luoghi di culto, come per i fedeli ortodossi in Italia, spesso officianti in chiese cattoliche – che dogmatico.
Per questo mi piace ricordare che lo scorso novembre, in occasione del trentesimo anniversario della Dichiarazione cristologica comune tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira (una comunità numericamente molto piccola, sorta dal mancato riconoscimento del concilio di Efeso del 431), Papa Francesco ha inserito nel Martirologio Romano, cioè l’elenco dei santi cattolici, uno dei santi più venerati dalla tradizione assira, Isacco di Ninive.
Nato nell’attuale Qatar, fu eletto vescovo di Ninive (nei pressi dell’attuale Mosul, in Iraq) ma, dopo alcuni mesi, ritornò alla vita monastica, dedicandosi alla preghiera e alla compilazione di scritti ascetici e spirituali che furono presto tradotti e diffusi ovunque, fino a oggi, anche in chiese cristiane differenti da quella assira.
Ecco come un atto che può sembrare molto formale riveste un valore assai maggiore: la santità non si lascia fermare da divisioni o steccati ecclesiali che nulla hanno a che fare con il Vangelo.
Ciò che Isacco di Ninive e tante altre e altri hanno lasciato non solo per mezzo degli scritti, ma anche con la testimonianza della vita, parla con voce più alta e limpida rispetto ai pronunciamenti che separano e ostacolano la piena comunione tra sorelle e fratelli.
“Una delle principali tentazioni da affrontare è quella di confondere unità con uniformità. Gesù non chiede a suo Padre che tutti siano uguali, identici; perché l’unità non nasce né nascerà dal neutralizzare o mettere a tacere le differenze. L’unità è una diversità riconciliata” (da un’omelia di Papa Francesco a Temuco, in Cile, 17/01/2018).
*Paolo Spina è un medico, appassionato di Sacra Scrittura e teologia femminista e queer, che collabora con il Progetto Cristiani LGBT+ e con La tenda di Gionata scrivendo su temi di attualità e cristianesimo.