Essere al Pride per mostrare il volto “radicalmente inclusivo” di Cristo
Riflessioni di Brandan Robertson* pubblicate sul sito Outreach.faith (Stati Uniti) il 13 giugno 2023. Liberamente tradotte dai volontari del Progetto Gionata
Gesù ha insegnato che i suoi discepoli si sarebbero riconosciuti dai frutti che portano (Matteo 7,16). Più tardi, l’apostolo Paolo ha elencato i “frutti dello Spirito” come amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé (Galati 5,22-23). Sono queste le virtù che i seguaci di Gesù Cristo dovrebbero incarnare nel vivere secondo lo Spirito Santo.
Eppure, se si chiede a una persona LGBTQ+ di descrivere le discussioni che ha avuto con una persona cristiana, difficilmente si sentirà nominare uno di questi frutti. Anzi, spesso si sentirà il contrario.
In generale, i cristiani sono conosciuti più per il loro odio, la loro rabbia, il disprezzo, la demonizzazione, il pregiudizio, la condanna e la discriminazione verso le persone queer, che per i frutti dello Spirito. E questo è un chiaro segno che quelle convinzioni e quegli atteggiamenti anti-LGBTQ+ non vengono da Dio.
Sono passati otto anni da quando ho fatto coming out, e da allora ho sperimentato sulla mia pelle i “cattivi frutti” del bigottismo cristiano quasi ogni settimana. Oggi, come pastore e teologo cristiano apertamente omosessuale, mi ritrovo la casella di posta e i social pieni di messaggi da parte di persone che si professano cristiane, e che scrivono cose come:
«Brucerai all’inferno per aver distorto la Bibbia. Essere gay è un’abominazione»
«Spero che Dio ti distrugga come ha fatto con Sodoma e Gomorra»
«Divertiti all’inferno, falso maestro»
«Verrò a trovarti in chiesa e ti darò una lezione, fro*o»
Queste frasi non sono esempi inventati: sono messaggi reali che ho ricevuto da cristiani veri. E ne ricevo di nuovi ogni giorno.
Per fortuna, oggi ho la grazia di essere circondato da una comunità inclusiva e affermativa. Faccio parte di una chiesa aperta, ho accesso a percorsi terapeutici e ho trascorso l’ultimo decennio a formarmi teologicamente per riconciliare la mia fede con il mio orientamento. Quei messaggi non mi toccano più come un tempo.
Ma provate a immaginare l’effetto che queste parole possono avere su una persona queer che non ha alcun supporto o risorsa per affrontare il proprio cammino. Pensate a un adolescente LGBTQ+ che si imbatte in commenti del genere, che gli fanno credere che ci sia qualcosa di sbagliato in lui, nel profondo.
Immaginate cosa vuol dire per una persona LGBTQ+ seduta in chiesa, ascoltare parole simili pronunciate dal proprio pastore, da chi dovrebbe rappresentare la voce della fiducia e dell’amore. Il dolore spirituale e psicologico che questo tipo di linguaggio tossico provoca è profondo, e le sue ferite sono difficili da rimarginare.
Negli ultimi anni, l’opposizione dei cristiani conservatori alle persone LGBTQ+ si è fatta sempre più feroce. Basta cercare su Twitter “gay Christian” per imbattersi in migliaia di post di cristiani che invocano la pena di morte per le persone queer, che ci chiamano pedofili, che ci augurano l’inferno solo per il fatto di esistere.
In mezzo a tanto odio, intolleranza e ostilità, è facile capire perché il Pride sia una celebrazione così sacra e necessaria per le persone queer, e in particolare per le persone queer cristiane.
Quel tipo di retorica ha partorito teologie estreme e proposte di legge pericolose. Alcuni vogliono spingere le persone LGBTQ+ fuori dalle chiese e, in generale, fuori dalla società.
Ecco perché, di fronte a tutto questo, il Pride è un atto di resistenza. È un potente “no” a chi vuole costringerci a reprimere la nostra verità, a soffocare ciò che Dio ha creato in noi. Il Pride è un’affermazione coraggiosa: siamo fieri di essere come Dio ci ha fatti, e non nasconderemo mai più la luce che è in noi.
Fare coming out significa scegliere l’onestà e l’autenticità. Significa accettare con gioia la nostra identità così com’è stata voluta da Dio, e smettere di vivere nel buio e nella vergogna. Ma proprio quando le persone queer sono più vere e più sincere, tanti cristiani pretendono che torniamo a fingere, per essere “accettabili” agli occhi della chiesa o di Dio.
Il Pride è la nostra risposta: non ci piegheremo davanti alla paura e non ci lasceremo schiacciare da una fede usata come arma per distruggere. Il Pride è un’esplosione di gioia sacra, è la celebrazione della creatività divina riflessa nella meravigliosa varietà dell’umanità LGBTQ+.
Il Pride è una ribellione contro una falsa versione del cristianesimo, che ha trasformato il Vangelo in una buona notizia per pochi, invece che in un messaggio di liberazione e di gioia per tutti.
In tempi in cui l’odio contro le persone LGBTQ+ cresce persino dentro le chiese, il Pride torna alle sue radici: non solo una festa di strada, ma una ribellione contro l’omofobia, la transfobia e la violenza, spesso alimentate proprio da chi dice di essere discepolo di Gesù.
Il Pride è una dichiarazione che “Dio è amore, e l’amore perfetto scaccia ogni paura” (1 Giovanni 4,18). E quando le persone queer cristiane e i loro sostenitori prendono parte alle celebrazioni del Pride, stanno dando testimonianza al Vangelo radicalmente inclusivo di Gesù Cristo, e scelgono di crescere nell’amore abbracciante di Dio, anche quando vengono colpiti ogni giorno da frutti avvelenati.
Cosa c’è di più santo, di più simile a Cristo, di questo?
*Brandan Robertson è un pastore e teologo cristiano apertamente omosessuale. Laureato in teologia presso la Iliff School of Theology, è pastore nella Chiesa Metodista Unita e autore di diversi libri sull’inclusione, la spiritualità e la giustizia sociale, tra cui True Inclusion e Dry Bones and Holy Wars. È una delle voci più note a livello internazionale sul cristianesimo queer e sull’interpretazione progressista del Vangelo.
Testo originale: “Amid hatred from some Christians, LGBTQ pride is a commitment to the ‘radically inclusive’ Gospel of Christ”