Essere credenti e omosessuali invisibili nella chiesa? Che fatica!
Intervento* di Piergiorgio Paterlini tratto dal Bollettino Refo, Anno 4, numero 14, Sett.-Ott. 2001, p.9
Non ho alcuna formazione pastorale e l’unica cosa che posso dire per quanto riguarda la chiesa, da ex cattolico, è che la mia infanzia e la mia adolescenza sono state profondamente segnate da quella cultura oppressiva. Perché ho accettato l’invito a essere qui, dunque, oggi? Essenzialmente per proseguire una esperienza di ascolto e di confronto iniziata oltre dieci anni fa e cresciuta al di là di ogni aspettativa.
Nel 1989 ho cominciato, infatti, da giornalista e scrittore, attraverso un avvicinamento distaccato e laico, a raccogliere, in giro per l’Italia, storie di adolescenti omosessuali (ragazzi rigorosamente tra i quindici e i venti anni). Per due anni sono andato in giro per l’Italia, dalla Sicilia alla Valle D’Aosta, per poter raccontare il vissuto di questi ragazzi invisibili: invisibili come omosessuali e come adolescenti omosessuali.
Per poter realizzare questo, dovevo mettermi in una condizione di grande ascolto e accoglienza. Mai avrei immaginato che il libro uscito da questa inchiesta, “Ragazzi che amano ragazzi”, sarebbe rimasto vivo tanto tempo, fino a oggi: attraverso incontri pubblici che non si sono mai interrotti e le lettere che da dieci anni quasi quotidianamente ricevo: ragazzi omosessuali del nord e del sud, cattolici e protestanti, credenti e non credenti, ricchi e poveri… tutti, tutti che mi scrivono: “Il tuo libro mi ha cambiato la vita, finalmente altre storie in cui rispecchiarmi, finalmente la sensazione di non essere il solo al mondo”.
Io – anche se con fatica, ovviamente – rispondo e ho sempre risposto a tutti: per la gratitudine che queste lettere mi fanno provare, e perché credo che chi decide di scrivere un libro come il mio non possa non mettere in conto, fin dall’inizio, il dovere, la responsabilità verso i propri interlocutori.
Senza considerare che potrei dire – e dico a questi ragazzi – che anche loro hanno arricchito, cambiato la mia vita. Lo scambio non è mai a senso unico, chi dà, nello stesso momento riceve, forse più di quanto regali.
Questa straordinaria, e penso unica in Italia, esperienza che mi è stata donata, mi ha fatto capire, toccare con mano quanto sia ancora diffusa la solitudine oggi, nonostante i cambiamenti avvenuti nella società. E mi ha fatto capire cosa secondo me servirebbe davvero per un cambiamento radicale e profondo. E’ ciò che io chiamo: democrazia, redistribuzione del coraggio e del rischio.
Da venti, trent’anni sentiamo sempre e solo dire che sono gli omosessuali a “uscire fuori”, venire allo scoperto, “dichiararsi” (quasi un’autodenuncia di colpevolezza). Ora noi sappiamo che esistono persone omofobe e razziste ma anche molte persone che omofobe e razziste non sono.
Quando saranno loro a “venir fuori” – i prossimi trent’anni potrebbero bastare – a dire per primi (entrando in una classe, in una chiesa…): “So che fra voi possono esserci persone omosessuali; sappiate che per me è normale”.
Che rivoluzione! Quanta inutile ingiusta sofferenza risparmiata! Per un ragazzo (ma vale anche per gli adulti) che trova il coraggio di mettere a rischio – sempre e solo lui – rapporti familiari, amicali, sociali “dichiarando” la propria omosessualità, ce ne sono dieci, cento che – con diritto – questo coraggio non ce l’hanno.
E persino nel caso del ragazzo che il coraggio l’ha trovato, persino se l’ha trovato giovanissimo, diciamo a 16 anni, anche in questo caso alle spalle ci saranno già stati per lui due, tre, quattro anni di sofferenze e tormento: “A chi lo dico, e se lo dico cosa succede…” eccetera.
Bene, questo coraggio – del resto molto inferiore – è tempo secondo me lo trovino gli eterosessuali. C’è poi il tema – cruciale – della visibilità (che soprattutto, ma non solo, nell’adolescenza si identifica tout-court con quello dell’identità).
Anche questo è un discorso, un appello rivolto agli eterosessuali. Quando lavoravo al settimanale “Cuore” ho ricevuto una lettera, che non dimenticherò mai, di un ragazzo di diciassette anni il quale, dichiarando la propria omosessualità, diceva: ho risolto i problemi con me stesso, ma mi tormenta la certezza che il mio compagno di banco, il mio migliore amico, leggerà con me questa lettera (non firmata) e mai gli passerà per la testa che a scriverla abbia potuto essere io.
Questa è l’invisibilità, l’invisibilità peggiore, quella di chi ti è più vicino, di chi ti conosce e apprezza, di chi magari ha appena partecipato con te a un’assemblea sui diritti degli omosessuali e poi non gli scatta il riflesso condizionato che quelle persone di cui ha appena parlato sono persone reali, in carne e ossa, e non possono sempre essere l’amico di un altro, il compagno di banco di un altro, essere in un’altra classe, in un’altra chiesa, nell’autobus che non prendi mai tu…
E’ giusto fare battaglie di civiltà contro chi insulta per strada i gay, ma – credetemi, anche se sembra un paradosso – meglio essere chiamati per strada finocchio di questa invisibilità “distratta” proprio da parte di chi ha superato l’omofobia.
L’insulto dà, conferma – se non altro – un’identità. Dice: mi fai schifo ma so che esisti, mi fai schifo perché esisti e sei così. Meglio di chi non riesce a immaginare che una persona possa essere “così”, e che esista davvero. Meglio fare schifo che non essere nulla e nessuno. Ed è chiaro che, soprattutto nell’adolescenza, il riconoscimento all’esistenza, il diritto di esistere è cruciale, soprattutto da parte del gruppo dei pari.
L’ultima considerazione riguarda la chiesa, soprattutto quella cattolica, e la distinzione così sottile, così ridicola, così traumatizzante, così ipocrita (il massimo dell’ipocrisia) tra comportamento e identità.
Questo scoglio si supera solo sul piano scientifico e logico, anche parlando del nostro tema di oggi, l’accoglienza. Più di chiunque altro un prete o un pastore devono accogliere, e per accogliere bisogna letteralmente spazzare via il “contro natura”.
L’ultimo numero di “Studi cattolici” – rivista della destra cattolica – scrive che nel mondo animale non esistono perversioni, mentre sono possibili nell’uomo che sarebbe l’unico essere vivente a poter agire contro la propria natura. Perfetto, un vero scoop! Della serie come tirarsi la zappa sui piedi: poiché l’omosessualità negli animali è documentata da decenni da libri e filmati, significa che è “naturale”, stando ai criteri di “Studi cattolici”.
In realtà il problema è più complesso, ma non irrisolvibile, soprattutto non eludibile. Diciamo così: dall’anatomia non può discendere alcun criterio deterministico sul piano etico e psicologico; ma se proprio pensiamo che un pene e una vagina determinino in modo unico e indiscutibile la possibilità dell’”atto sessuale normale” (atto sessuale, non parliamo ancora di relazione), non si vede perché una bocca non sia interpretabile anatomicamente come adattissima ad accogliere un pene.
C’era solo un ostacolo a questa legittimazione: l’idea che l’unico “senso” del famoso “atto sessuale” fosse la procreazione, ma questa concezione è superata anche dalla chiesa ufficiale che oggi afferma il piacere come valore in sé (a determinate condizioni). Se le cose stanno così, tutto è risolto. Anatomia compresa.
Credo occorra avere il coraggio e la libertà di parlare in questo modo. Questo è il terreno che ci viene proposto? Lo accettiamo (pur col disgusto per questo becero, svilente materialismo che viene proprio da una chiesa che si autodefinisce “umanista” e “spiritualista”).
Detto questo, devo anche confessare che io sono un fanatico della libertà di coscienza e, in questo senso, di una certa “etica protestante”, quindi se una rivista cattolica ufficiale afferma ciò che abbiamo letto, non mi sognerei mai di andare proprio lì a chiedere accoglienza. Senza considerare che, più in generale, comincerei a interrogarmi anche sulla stessa parola accoglienza.
Da un lato ne comprendo tutta la bellezza e l’importanza, dall’altro mi pare suoni troppo vicina alla parola tolleranza che è ormai unanimemente rifiutata. Fare chiarezza è uno dei passi fondamentali verso la liberazione personale e collettiva. E nominare le cose con il giusto nome è la cosa più importante per fare chiarezza.
* Intervento pronunciato al III convegno nazionale “Quale pastorale per le persone omosessuali?” della REFO (Rete Evangelica Fede e Omosessualità) nell’ottobre 2000