I gay cristiani tra fede e relazione
Riflessioni di Stefano Ventura
“Questo è un momento storico di trasformazione sociale in cui stiamo passando dalla rivendicazione alla costruzione del futuro di una società di cui i gay si sentono parte, ma è una faticosa transizione in cui il movimento gay si dibatte.
Un dibattersi simile alle doglie del parto, per utilizzare una immagine paolina, a cui i gruppi di gay credenti non stanno prendendo parte in modo costruttivo, tranne alcune lodevoli eccezioni. Cosa intendo dire? Semplicemente che per un credente dovrebbe essere moneta comune pensare un diritto come inseparabile da un dovere, perché ogni bene si fonda sul diritto e sul dovere ed ogni bene implica una sana relazione tra le persone”. Riflettiamoci insieme.
Storicamente, il movimento di liberazione gay, lesbico, bisex e trans (GLBT) è stato plurale, relazionale, inclusivo: l’acronimo Gay Lesbica Bisessuale Transessuale indica proprio questa volontà di includere tutti gli esclusi in base ad un orientamento sessuale.
E la relazione tra persone adulte, libere e consenzienti è da sempre il motore che spinge avanti la battaglia per ottenere i nostri diritti fondamentali: possibilità di condividere la vita con la persona che amiamo, accudirla e proteggerla nei momenti di difficoltà, costruire con lei, allevare figli. Sentire che il futuro è anche nostro e ne facciamo parte – e lo doniamo a tutti.
Descrivendo dall’alto l’evoluzione storica del movimento, potremmo parlare una sorta di processo di coming out collettivo: dal closet, il cesso, in cui l’altro è oggetto di semplice desiderio, in cui ignoro addirittura gran parte del suo aspetto fisico dall’intimità che gli chiedo e gli do, all’altro percepito come me, con un volto; fino all’uscire in piazza out of the closet.
Così si sono succedute progressive fasi di riconoscimento del movimento: rivendicazione di sé e dei propri desideri, rivendicazione dei diritti individuali, della dignità, di non essere discriminati…e ora diritto di partecipare al bene comune, essere coppia essere famiglia, allevare figli.
Mi sembra un’utile chiave di lettura storica il tema della relazione e dell’essere insieme all’altro; questo passaggio partendo dal desiderio sta arrivando necessariamente al dovere reciproco che da forma a questo desiderio.
Ed in questo momento il processo di questa trasformazione, dalla rivendicazione alla costruzione del futuro di una società di cui ci sentiamo parte, è la faticosa transizione in cui il movimento si dibatte. Un dibattersi simile alle doglie del parto, per utilizzare una immagine paolina, in cui i gruppi di gay credenti NON stanno prendendo parte in modo costruttivo, tranne alcune lodevoli eccezioni.
Cosa intendo dire? Semplicemente che per un credente dovrebbe essere moneta comune pensare un diritto come inseparabile da un dovere, perché ogni bene si fonda sul diritto e sul dovere ed ogni bene implica una sana relazione tra le persone. E tuttavia si è lasciato che passasse l’idea che rivendicare un PACS, un DICO o un CUS sia una faccenda di diritti individuali, privatistici …
Ma quando il bene è SOLO privato? Di nuovo, la saggezza, la tradizione e l’intelligenza della relazione che animano il cristianesimo (come anche molte altre religioni) non si manifesta all’esterno dei gruppi in cui esso viene esercitato, non si propone come elemento generale, comune ad ogni uomo.
E’ molto forte la tentazione del ripiegamento su di sé, di intendere “l’essere nel mondo ma non del mondo” come vivere la propria fede intimisticamente e in piccoli gruppi di “eletti”, ma sarebbe un mancato appuntamento, un “peccato d’omissione” ed in un senso più ampio, l’occasione perduta di comunicare al mondo e a chi sarebbe pronto a riceverLa, la Parola che libera e che parla ad ogni uomo.
Se volessi così racchiudere in uno slogan il contributo dei gruppi gay credenti, potrei dire che “è necessario superare l’individualismo del diritto”, far comprendere che è la comunità ed il suo bene che fonda il diritto: questa sarebbe una potente risposta politica verso chi ancora predica contro di noi la favola triste e trita dei “diritti egoistici”, delle pretese e delle rivendicazioni individualistiche.
Il Bene è sostantivo plurale
Vorrei concludere osando uno sguardo più ampio, sempre nel tentativo di indicare a quelli che chiamo fratelli la ricchezza che dovremmo donare a tutti.
Da più parti sento voci di sirene che predicano il “relativismo” come una pericolosa peste morale; l’atteggiamento relativistico sarebbe capace di mettere sullo stesso piano tutti i valori, negandoli così de facto.
Il rischio è reale, a mio avviso, e ben più pericolosamente per noi, per le nostre vite e le nostre storie: negando che esistano punti fermi, scelte decisive, si può giungere a negare la differenza fondamentale fra vittima e carnefice, tra arbitrio e diritto. E’ una questione seria, che ci riguarda direttamente come gay, lesbiche, bisessuali e transessuali ogni volta che rivendichiamo un nostro diritto – dimenticando spesso che costruiamo così anche un bene.
“Se due uomini possono sposarsi perché non un uomo e un cane?” Simili idiozie sono solo i frutti più insipidi di una filosofia che vuole richiamare tutti all’ordine, ad un ordine tradizionale, bastato sulla legge di natura.
Si tenta di richiamare alla Norma, anche con argomenti capziosi e sofistici come quelli di Joseph Ratzinger per il quale, se una società che si richiama a valori tradizionali è più ordinata, meno caotica, allora anche se non possiamo dimostrare che i valori tradizionali sono veri, conviene[5] almeno sul piano pratico accettarli.
E’ così si può essere atei devoti se questo renderà la vostra vita meno incerta sul piano contingente; genuflettersi ad un altare anche se non avete idea del significato di quello che fate, se questo serve a mantenere la sicurezza nella nostra vita.
Dietro l’equiparazione di ogni valore, ossia di ogni aspirazione al bene, dietro i richiami sempre più seducenti all’ordine che in un a situazione di caos sempre più consapevole vengono gridati da più parti, sta l’idea di unicità del bene. Se il bene esiste è uno, vero, bello. E’ uno dei motivi più antichi della tradizione filosofica occidentale. Possiamo identificare, da credenti, il bene con Dio e scrivere la parola in maiuscolo: il Bene.
Di fronte a questa concezione del bene come uno, possiamo avere due atteggiamenti contrapposti: accettare ed ubbidire alle leggi, considerate necessarie, come questo Bene prescrive per via di Ragione o per via di Rivelazione; o possiamo negarlo, per via di Ragione o per via di Libertà, affermando, non senza fondamento, che una concezione simile porta inevitabilmente a negare proprio la libertà e il pluralismo – porta alla dittatura, al pensiero unico, all’autoritarismo.
Ora però si da il caso che l’identificazione del Bene con Dio si traduca per noi cristiani in una affermazione di pluralità relazionale: se mi è dato di capire correttamente il dogma cristiano della Trinità, dovrei dire che il bene è plurale e unitario contemporaneamente. E’ molteplice e uno. E’ relazionale e comunitario. Come dire che, immediatamente, o forse potremmo dire per grazia, noi cristiani dovremo essere decisamente liberi dal pericolo del pensiero unico, saldi nel valore della pluralità, sicuri che tutto si regge perché la relazione viene prima, radicalmente prima, dei suoi termini.
Bene, come comunità, è un sostantivo singolare di significato plurale. Non c’è bene senza relazione perché solo nella relazione si riconosce il bene, che è sempre anche libero e creativo: genera pluralità e garantisce libertà. E’ amore.
E per di più, se volessimo continuare ad interpretare i dogmi che fanno parte del nostro comune credo, il Bene si è incarnato, è sceso nel tempo e si è fatto storia. Come dire che il bene si rivela nella relazione concreta e nel tempo. Non è una legge fissa al di là degli individui, perché il cuore dell’uomo non è come un libro di geometria, in cui valgano teoremi indiscutibili come il teorema di Pitagora.
Queste considerazioni aprono ad ogni credente cristiano la via ad una sana laicità, ad una fattiva promozione del pluralismo, alla valorizzazione della creatività come dono – e fondano il contributo particolare che ciascuno di noi gay credenti può dare alla costruzione della comunità omosessuale, libera, creativa, plurale e unita.
Non resta quindi che esercitare I nostri talenti, iniziando a parlare…
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[5] Cfr. Contro Ratzinger, Isbn Edizioni, 2006 – “Secondo l’autore il tentativo di Ratzinger sarebbe di spodestare la modernità dalle sue pretese di razionalità per porre la Chiesa come autentica erede della filosofia greca e quindi della cultura occidentale. A tal fine Ratzinger, utilizzando i concetti e le metodologie del pensiero debole, evidenzierebbe i limiti del concetto moderno di razionalità, limitandone così le pretese. A conclusione di ciò Ratzinger si avventurerebbe in un passaggio rozzo e semplicistico, elencando le tragedie del mondo, che spiegherebbe come semplici effetti della modernità, ossia della pretesa di fare a meno di Dio.” (Fonte Wikipedia)