Fede queer: la rivoluzione silenziosa che nasce tra i banchi delle chiese
Articolo di Matt Alderton pubblicato su USA Today (Stati Uniti) il 13 giugno 2025. Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata.
Shelley Washington aveva appena sedici anni quando capì due verità fondamentali su di sé: da un lato, sentiva di essere chiamata a diventare pastora; dall’altro, sapeva di essere lesbica.
«Sono cresciuta nella Chiesa Battista Missionaria, dove le donne non venivano mai incoraggiate a prendere la parola o a guidare», racconta oggi. «Eppure sentivo che Dio mi stava chiamando proprio lì. Ma allo stesso tempo qualcosa mi tratteneva: era il mio orientamento sessuale. In quella chiesa, l’omosessualità veniva demonizzata. Usavano le Scritture per condannare chi ero, e questo mi lacerava. Sentivo che ero stata scelta per accompagnare le persone nella fede, ma sapevo anche di essere “diversa”. Mi chiedevo: possono essere vere entrambe le cose? È stato davvero, davvero difficile».
Per anni Shelley ha lottato per tenere insieme la sua fede e la sua identità. Anche quando, più avanti, una chiesa decise di concederle la licenza come pastora, non mancarono sessismo e omofobia.
Così nel 2021 ha deciso di lasciare del tutto la Chiesa Battista per unirsi alla United Church of Christ (Chiesa Unita di Cristo), una confessione protestante storicamente inclusiva. È stata ordinata pastora nel 2024 e oggi è pastora assistente nel campus della St. Peter United, una delle chiese più antiche di Houston.
«La St. Peter United è una chiesa davvero aperta e accogliente», racconta. «Sono stata la prima donna queer afroamericana ordinata lì. Una chiesa fondata nel 1848 da immigrati tedeschi: entrare a far parte di questa storia è stato qualcosa di meraviglioso».
Anche il reverendo David Figliuzzi ha trovato la sua strada nella United Church of Christ, sebbene il suo percorso sia partito da un luogo molto diverso. «Sono cresciuto nella tradizione cristiana pentecostale fondamentalista, che non è certo aperta verso le persone LGBTQ+. Da ragazzo, il messaggio che ricevevo era chiaro: ero sbagliato», ricorda Figliuzzi, oggi apertamente gay. «Così, a un certo punto, ho abbandonato ogni contatto con le chiese. Pensavo non ci fosse spazio per me, per la mia autenticità».
Dopo un’assenza durata dieci anni, ha deciso di visitare una chiesa della United Church of Christ, dove una delle pastore era una donna lesbica. «Mi sedetti in fondo, nell’ultima fila, e iniziai a piangere. Per la prima volta, mi sentivo davvero a casa», racconta. Nel 2019, dopo venticinque anni di carriera nel mondo aziendale, ha lasciato tutto per dedicarsi al ministero. Oggi è pastore della Rocky Hill Congregational Church, a Rocky Hill, nel Connecticut. «Essere in un contesto di fede dove le persone mi hanno sostenuto, incoraggiato, valorizzato… mi ha aperto nuovi orizzonti. Mi ha aiutato a capire chi ero davvero e cosa poteva essere la mia vita».
I passi avanti cominciano tra le panche
Secondo uno studio del Williams Institute della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università della California a Los Angeles, quasi la metà delle persone LGBTQ+ adulte negli Stati Uniti – circa 5,3 milioni – si dichiara religiosa.
La United Church of Christ (Chiesa Unita di Cristo) ha cominciato a ordinare ministri apertamente gay già negli anni Settanta. Ma oggi non è più sola. La Chiesa Presbiteriana, ad esempio, ha approvato l’ordinazione di persone LGBTQ+ nel 2011, ha celebrato il primo matrimonio tra persone dello stesso sesso nel 2014 e, nella primavera del 2025, ha modificato la propria costituzione per proteggere esplicitamente l’identità di genere e l’orientamento sessuale da ogni forma di discriminazione.
Nel maggio 2024, anche la Chiesa Metodista Unita ha votato per permettere sia l’ordinazione del clero LGBTQ+ sia la celebrazione dei matrimoni egualitari.
«Certo, c’è ancora molta strada da fare. Ma vediamo sempre più confessioni muoversi, anche se lentamente, verso l’inclusione», osserva Aiden Nathaniel Diaz, direttore della comunicazione presso Q Christian Fellowship, un’organizzazione che lavora per creare spazi di “appartenenza radicale” per le persone LGBTQ+ cristiane in tutto il paese.
Perfino la Chiesa cattolica ha compiuto un piccolo ma significativo passo: nel gennaio 2025 ha approvato nuove linee guida che consentono a uomini gay dichiarati di entrare in seminario, a patto che vivano nel celibato.
«La Chiesa cattolica è cambiata», afferma Francis DeBernardo, direttore di New Ways Ministry, un gruppo cattolico che promuove l’inclusione delle persone LGBTQ+. «E il principale artefice di questo cambiamento è stato Papa Francesco. È stato lui a creare un nuovo tono, un nuovo approccio: un’apertura reale verso le persone LGBTQ+, fondata sull’idea che la Chiesa sia davvero per tutti».
Non basta l’inclusione. Ora si chiede affermazione
Se da un lato i cambiamenti ufficiali nelle confessioni religiose sono importanti, dall’altro – lo sottolineano in molti – i veri passi avanti partono spesso dalle singole comunità locali.
«Tutto comincia con una chiesa che si pone la domanda: “Che cosa significa davvero prendersi cura delle persone LGBTQ+ della nostra comunità?”», spiega Diaz. «Sono questi piccoli gesti quotidiani, chiesa per chiesa, che rendono possibile sentirsi accolti, sentirsi a casa, potersi mostrare per ciò che si è».
Anche DeBernardo lo conferma: «Molti credono che il cambiamento nella Chiesa parta dall’alto, ma in realtà avviene dal basso. Man mano che le persone diventano più accoglienti e comprensive, questo atteggiamento risale verso l’alto, fino a influenzare le decisioni dottrinali».
Per anni le persone LGBTQ+ hanno chiesto soltanto di essere riconosciute e accettate. Oggi chiedono qualcosa di più profondo e concreto.
«Molte chiese parlano di accoglienza con frasi come “Tutti sono i benvenuti” o “Vieni come sei”», sottolinea Diaz. «Ma poi non ti permettono di fare volontariato, insegnare al catechismo, sposarti o ricoprire ruoli di leadership. Spesso ci sono regole esplicite che lo vietano. Ecco perché vogliamo una vera inclusione: significa poter fare tutto ciò che è permesso a una persona eterosessuale e cisgender».
Per il reverendo Dr. Israel Alvaran, direttore di United Methodist Connections presso Reconciling Ministries Network, la parola “inclusione” non basta più. «Tutte le chiese dicono “Tutti sono benvenuti”, ed è anche vero. Ma essere inclusi non significa essere affermati. Noi vogliamo l’affermazione, vogliamo essere valorizzati nella nostra pienezza».
Un esempio concreto di questa affermazione sono le Metropolitan Community Churches (Chiese Comunitarie Metropolitane), fondate nel 1968 da e per persone LGBTQ+. «Nella nostra chiesa non ci limitiamo ad accoglierti. Ti celebriamo», afferma il pastore James Hartman, responsabile media della MCC di Baton Rouge, in Louisiana. «La nostra è una zona senza giudizio. Crediamo profondamente nell’uguaglianza».
E questo si traduce in prassi concrete: ministri e volontari LGBTQ+, benedizioni per matrimoni tra persone dello stesso sesso, battesimi per i loro figli, ma anche una liturgia e una teologia pensate a partire dalle esperienze vissute. Come accade con la vescova episcopale Mariann Budde, che nel gennaio 2025, dal pulpito della National Cathedral di Washington, ha implorato l’allora presidente Donald Trump di avere misericordia per i bambini LGBTQ+.
«La vera inclusione significa anche offrire strumenti per comprendere la realtà LGBTQ+», aggiunge Diaz. «Organizzate momenti di formazione, eventi, riflessioni? Predicate davvero amore per le persone LGBTQ+? Aiutate la vostra comunità a leggere la Bibbia con occhi nuovi, capaci di accogliere anche chi è diverso?».
L’attivismo come segno dell’affermazione
Sempre più spesso, l’affermazione passa anche dall’attivismo. La scorsa primavera, ad esempio, il Collective of Queer Christian Leaders – una rete di organizzazioni religiose LGBTQ+ – ha diffuso una dichiarazione congiunta contro i tentativi dell’amministrazione Trump di “cancellare o criminalizzare” le persone queer. A sostegno di quella dichiarazione, è stato anche organizzato un presidio al Campidoglio.
«Non ci basta essere accolti. Se vuoi davvero essere accogliente, devi dimostrarlo con fatti concreti: difendendo leggi e politiche a favore delle persone LGBTQ+», sottolinea Alvaran. «Devi lottare con noi, accanto a noi».
Per DeBernardo, le chiese hanno sempre avuto un ruolo chiave nei movimenti per i diritti civili. «Ogni conquista dei diritti negli Stati Uniti è passata anche dalle comunità religiose».
La pastora Shelley Washington è ancora più netta: «Il nostro compito, come persone di fede, è alzarsi e farci sentire. Dobbiamo ribaltare i tavoli, come ha fatto Gesù».
Tornare a casa, riconquistare la fede
«Gran parte dell’oppressione verso le persone LGBTQ+ ha avuto origine nelle istituzioni religiose», ricorda DeBernardo. «Poi si è trasformata in leggi e politiche, ma alla base c’erano sempre sentimenti religiosi. È per questo che molti LGBTQ+ si sono allontanati dalle chiese: per proteggersi. Ma ora stanno tornando. E si stanno riprendendo il loro posto».
Ritrovare la propria casa di fede, infatti, significa anche ritrovare se stessi. «La fede può offrire senso, appartenenza, resilienza e sostegno. Ma solo in spazi che ti affermano pienamente», afferma Diaz. «Le persone LGBTQ+ non sono fatte solo del loro orientamento o della loro identità di genere. Quando troviamo uno spazio di fede che ci afferma, possiamo essere LGBTQ+, ma anche tutte le altre cose che siamo. Possiamo essere finalmente interi».
È stato così anche per il pastore battista James Rice III: «Sono figlio, nipote e pronipote di pastori. La mia vita è sempre stata in chiesa», racconta. Oggi coordina la comunicazione per l’Associazione dei Battisti Accoglienti e Affermenti, impegnata a promuovere l’inclusione LGBTQ+ nelle chiese battiste. «Dicevo sempre: non ho bisogno di una “chiesa gay”. Mi basta una chiesa dove io possa essere gay».
«La chiesa è importante, soprattutto per persone nere come me. È parte del nostro patrimonio culturale. Io volevo solo poterlo abbracciare… senza dover rinunciare a chi sono».
Testo originale: “How LGBTQ+ faith leaders are fighting for full inclusion in churches”