Figli della Torah. Essere gay e ebreo ortodosso in Israele
Articolo di Kristell Bernaud pubblicato sul sito Slate.fr (Francia) il 4 luglio 2012, liberamente tradotto da Francesca Macilletti
Come conciliare una vita omosessuale e la fede ebraica? Diverse associazioni hanno lanciato pubblicamente il dibattito in Israele. Il loro obiettivo è quello di ottenere la tolleranza del mondo rabbinico.
Nel 2011, Tel Aviv è stata eletta la città più tollerante verso i gay del mondo. L’Eden degli omosessuali: la città bianca ha fatto della bandiera arcobaleno uno dei suoi attributi.
A una sessantina di chilometri più a sud, Gerusalemme offre un’altra atmosfera. Sulla città santa incombe un’atmosfera austera. Gli omosessuali sono appena visibili.
«Il mio fidanzato non vuole che gli tenga la mano nei luoghi pubblici, dice David Jonas, presidente dell’associazione israeliana gay religiosi Havruta, lo infastidisce. » Come David, i gay che osano uscire dall’ombra sono sempre più numerosi. Quest’anno, durante il gay pride a Gerusalemme, ai margini del corteo hanno sfilato degli omosessuali religiosi. Lottano, innanzi tutto, per conservare la loro identità omosessuale senza tuttavia rinunciare alla loro identità religiosa. In questi ultimi anni, sono nate diverse associazioni gay religiose in Israele. Havruta è una di queste. Al giorno d’oggi, conta 500 membri. Ma circa 300 di loro conducono una doppia vita.
È possibile conciliare una vita omosessuale e religiosa? «Si», risponde Daniel. Cresciuto in una famiglia religiosa tradizionalista, Daniel ha tuttavia vissuto lunghi anni di sofferenza e di disperazione. «Quando ero giovane, credevo di non poter essere gay e religioso allo stesso tempo. Ma non volevo scegliere! Per me è stato molto difficile farlo. Ho cercato di respingere la mia omosessualità, ho avuto delle fidanzate, ma non ha mai funzionato. È stato soltanto all’età di 26 anni che ho capito che potevo essere gay e religioso. Ero abbastanza maturo per capire, per accettarmi così com’ero.»
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Un «abominio»
L’omosessualità è un tabù nell’Ebraismo. La Torah stipula che l’atto sessuale tra uomini è un «abominio» (Levitico: 18,22). Se le relazioni tra i personaggi biblici di David e Jonathan sono state a volte interpretate come ambigue, gli esegeti hanno spesso decretato che non si trattava di omosessualità ma di un’amicizia molto forte.
Se il testo biblico dice che l’omosessualità è un abominio, allora l’unica soluzione possibile è combatterla, ritiene il mondo rabbinico. I rabbini vedono i gay come delle anime perdute che si sono allontanate dal cammino della fede. Per di più, la vita religiosa ebraica gira attorno alla famiglia. Nell’ebraismo, il matrimonio e la procreazione sono dei comandamenti della Torah. Risultato: la maggior parte degli ebrei ortodossi gay si sposano, fanno dei figli e nascondono la loro identità sessuale per paura di essere messi al bando dalla loro comunità religiosa.
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L’orientamento sessuale non sarebbe proibito
Per rimediare a questa situazione, il rabbino Ron Yosef guida una crociata dal giorno in cui ha fatto il suo «coming out». Una «uscita allo scoperto» inattesa ed esplosiva. È accaduto nel 2009. A 35 anni, Ron Yosef ha pubblicamente esposto la sua omosessualità durante un’emissione televisiva. Era la prima volta per un rabbino ortodosso. Dice: «Era un modo di dire: guardate, sono un religioso ortodosso e gay. Era il solo modo di avere un dibattito responsabile sull’argomento, per far evolvere le menti.»
Il Rabbino Ron Yosef ha aperto una breccia nel dibattito sull’omosessualità nel mondo religioso. Il suo cavallo di battaglia: far sedere i rabbini attorno allo stesso tavolo e aprire un dialogo rabbinico su questo argomento. Non si tratta di modificare la legge ebraica, spiega il rabbino, ma di capire che «la legge religiosa non impedisce l’omosessualità. La halakha (l’insieme delle regole ebraiche) proibisce l’atto sessuale ma non l’orientamento sessuale. Il problema è che le istanze rabbiniche non separano le due cose. Io, invece, lo faccio. Qual è allora il problema se faccio qualcosa che non è proibito dalla Torah? Perché mi dovrebbero accusare di peccare?»
Ron Yosef può vantarsi di aver lanciato un nuovo dibattito. «Nella storia del popolo ebraico, mai fino ad ora, un religioso ha mai detto ai rabbini che soltanto il sesso è proibito e non l’orientamento sessuale. Se arriveranno a riconoscerlo, dovranno allora accettare i gay.»
Tre anni fa, Ron Yosef ha redatto una lettera inviata ai rabbini e leader del mondo ortodosso. Insiste sul suo attaccamento ai precetti del giudaismo ortodosso, ma afferma che gli omosessuali non devono essere rinnegati dalla loro comunità, né essere obbligati a sposarsi. Al giorno d’oggi, più di 160 rabbini sostengono questo approccio, anche se tre anni fa, lo consideravano come un «illuminato». Ma Ron Yosef è consapevole del fatto che il riconoscimento dell’omosessualità nel mondo religioso è un lavoro da titani.
«C’è un’apertura al giorno d’oggi, ma è magra. I rabbini più influenti del mondo ortodosso non vogliono parlare dell’argomento. Tuttavia, devono prendere coscienza del fatto che, secondo i testi e le loro interpretazioni, io ho ragione e loro hanno torto. Ma è un processo che richiede del tempo. Capisco che siano in una posizione scomoda e lo rispetto. Ma dovremmo discutere, dibattere, trovare una soluzione.»
Un anno prima del suo coming out, Rod Yosef ha fondato la prima associazione religiosa omosessuale HOD (acronimo per le parole ebraiche «omosessuale» e «religioso»). In quattro anni, più di 6000 persone si sono indirizzati all’associazione, una cifra che non smette di aumentare. I membri hanno tra i 16 e i 60 anni, sposati, religiosi oppure ortodossi…
HOD fornisce loro ascolto, consigli e sostegno psicologico. Molti di loro sono in stato di disperazione. Quasi un terzo parla di suicidio. Secondo i rabbini, tre delle persone che sono entrate in contatto con l’associazione, si sono suicidate. «I gay religiosi si battono contro loro stessi. Grazie alle associazioni, si sentono circondati da persone che li aiutano.»
Dopo aver dichiarato pubblicamente la sua omosessualità, Ron Yosef è stato oggetto di minacce. Ma assicura di non aver paura. Continua ad officiare in una delle sinagoghe della città balneare di Netanya. «All’inizio, il mio coming out ha messo la mia comunità religiosa in una posizione difficile e scomoda. Ma ho beneficiato del loro rispetto, dovuto al fatto che officio lì da più di 12 anni.»
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La Torah come scusa
L’associazione Kamoha («voi») si indirizza unicamente agli omosessuali ortodossi. Conta centinaia di membri sulla mail list. Una volta al mese, l’associazione organizza degli incontri a Gerusalemme e Tel Aviv, al riparo da sguardi indiscreti. In media, 30 partecipanti, giovani per la maggior parte, si svelano durante questi rari spazi di libertà. Amit, il direttore di Kamoha, spiega: «Il nostro obiettivo non è quello di modificare la halakha. Siamo religiosi. Vogliamo far parte della comunità religiosa. Rispettiamo tutte le halakhot (leggi ebraiche). Non vogliamo essere diversi.»
L’associazione opera per far «cambiare le mentalità». Amit precisa:
«Credo che i religiosi utilizzino la Torah come scusa della loro omofobia. Vogliamo impedire alle persone di ripudiare i gay e minacciarli di morte. Ci battiamo contro questa mentalità, cerchiamo di influenzare il mondo religioso affinché diventi più tollerante.»
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Una «terapia» per i gay
Kamoha propone, a quelli che lo desiderano, delle «terapie di conversione», una sorta di laboratorio con degli psicologi professionisti, anche loro religiosi, per riportare i gay sul cammino dell’eterosessualità. Ma non tutti gli omosessuali «sono adatti alla terapia, osserva Amit. Si tratta di qualcosa di molto personale.»Il direttore dell’associazione che ha egli stesso sperimentato questo processo, confessa di non averne ricavato alcun beneficio. Ma assicura che, grazie a questa terapia, alcuni hanno abbandonato la propria natura omosessuale per «mettere la testa a posto» e sposarsi.
L’associazione ha appena lanciato un altro progetto. In collaborazione con un rabbino, offre agli uomini gay la possibilità di sposarsi con una donna lesbica. Siccome il matrimonio e l’avere dei figli è un comandamento della Torah, permette a questi uomini e a queste donne di confessione ebraica di vivere in conformità con la loro religione. Si tratta di un progetto che solleva numerose obiezioni non solo nel mondo religioso, ma anche nella comunità omosessuale.
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Il dilemma della famiglia
Vivere la propria omosessualità resta qualcosa di molto personale. Cresciuto in una famiglia tradizionalista, J. ha scoperto molto giovane di essere gay. Al termine della sua adolescenza, si allontana dalla religione, considerandosi ateo e si abbandona pienamente alla sua vita omosessuale. Ma il suo desiderio di fondare una famiglia e di avere dei bambini lo ossessiona. All’età di 25 anni, tormentato da questo problema esistenziale, capisce che deve compiere una scelta dolorosa tra la sua vita familiare e la sua omosessualità. Decide di ritornare alla religione e inizia a pregare.
«Ho capito che era nella religione che trovavo la mia salvezza. Cercavo un supporto, un sostegno che mi portasse a fondare una famiglia. Siccome la religione va di pari passo con la famiglia, mi sono indirizzato a Dio per dimenticare la mia attrazione verso gli uomini. Ho sofferto molto, ma è la fede che mi ha aiutato a uscire dalla mia omosessualità.»
All’età di 31 anni si sposa. Da questa unione nasceranno 5 bambini. J. assicura di aver condotto una vita «retta» per 20 anni. «La pratica dell’eterosessualità ha represso la mia omosessualità, anche se è sempre stata presente nel mio profondo. Ma si tratta di un sacrificio che valeva la pena compiere.»
Ma il suo matrimonio è finito male e J. ha divorziato un anno fa.
«Non avrei mai voluto divorziare in quanto sapevo che questo avrebbe rimesso in questione il mio orientamento sessuale.»
Ad oggi, J. frequenta nuovamente gli uomini. Non vuole più fare dei sacrifici, né mentire a sé stesso, anche se mantiene l’anonimato quando si tratta di parlare della sua omosessualità. Recandosi a diverse associazioni anonime, racconta la sua esperienza personale ad altri gay. «Racconto loro che non rimpiango nulla, che ho compiuto un sacrificio come un altro, come tutti devono fare durante la loro esistenza.» J. ammette che è difficile, nella realtà, essere gay e religiosi. Ammette, inoltre, che molti rinnegano la pratica religiosa a causa della loro omosessualità. Se la sua fede è rimasta intatta, J. confessa di non rispettare molto i comandamenti della Torah.
«Questo mi mette molto a disagio, in quanto frequento molto meno i religiosi. La maggior parte si nasconde nella vita matrimoniale. Anche se sono gay, l’amore di Dio è troppo forte perché io abbandoni la religione. Aspiro a poter conciliare la mia vita religiosa e quella sentimentale, a trovare un compagno religioso con il quale possa vivere pienamente la nostra fede.»
Una vita schizofrenica in un paese tuttavia aperto per quanto riguarda i diritti delle coppie omosessuali: diritto all’adozione o ancora al congedo parentale. La società laica israeliana è molto tollerante sull’argomento. Tel Aviv è un modello d’integrazione per le coppie gay. Daniel desidera continuare a vivere a Gerusalemme. Fuori la finestra della sua camera, sventola la bandiera arcobaleno.
«È qui che ho bisogno di esprimere la mia identità gay. È vero che sarebbe molto più semplice vivere a Tel Aviv, ma amo Gerusalemme e desidero battermi affinché diventi una città più tollerante.»
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Testo originale: Religieux, orthodoxe et gay en Israël