Forme plurali di famiglie e relazioni d’amore nella riflessione teologica
Intervento di Letizia Tomassone*, pastora valdese e autrice di saggi su teologia e genere, all’incontro “PIETRE D’ANGOLO” (Firenze, 5 aprile 2025), trascrizione a cura dei volontari de La tenda di Gionata rivista dell’autrice.
Mi chiamo Letizia, sono pastora della Chiesa valdese. Questo pomeriggio vorrei introdurre il tema che mi è stato affidato: le forme plurali di famiglie.
Vorrei cominciare con due cose: vi do due brevi definizioni — una viene da un dizionario, l’altra da un documento della Chiesa luterana in Italia. Queste saranno la base per riflettere su come le famiglie vengono raccontate e destrutturate nella Bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
Prima definizione: famiglia come vincolo volontario
La prima definizione che vi propongo viene dall’Oxford English Dictionary (1971). Dice così: famiglia è “un gruppo di discendenti di un comune antenato o un popolo derivante da una stirpe comune. Famiglia è “anche un gruppo di persone che vivono insieme come congiunti, o che sono legati da un vincolo volontario.”
È una definizione molto ampia, che è stata ripresa nel Dizionario delle teologie femministe (2010), proprio perché apre alla volontarietà del legame. Non dice che ci deve essere un legame biologico o giuridico, ma che c’è una scelta, una relazione voluta.
A volte, i legami si costruiscono su qualcosa di condiviso, su una radice comune ma nascosta e data per scontata. Mi viene in mente un testo di archeologia che avevo letto su antiche case in Perù: raccontava di come veniva nascosta una conchiglia preziosa sotto il patio – il cortile – della casa. Era un luogo aperto, dove tutti potevano entrare, ma quella conchiglia sepolta lì rappresentava la radice spirituale e unificante della casa, della famiglia. Tuttavia, con il tempo, forse per le invasioni, forse per l’urbanizzazione, quei patii aperti sono diventati spazi interni, privati, protetti. Quella radice, quel simbolo, è rimasto, ma si è chiuso. Ha iniziato a delimitare, invece di unire.
Ecco, io credo che il lavoro della vita spirituale, e anche della riflessione sulle famiglie, sia proprio questo: riportare il tesoro in uno spazio aperto, accessibile, dove ci siano scambi, incontri, movimento. Dove la casa, o il villaggio, siano attraversati da relazioni che arricchiscono tutte e tutti. Ridare senso al tesoro che unisce, alla radice nascosta, senza darla per scontata, ma rinnovandone il senso, aprendone il senso alle nuove condizioni in cui viviamo man mano.
Seconda definizione: le comunioni di vita
La seconda definizione viene da un documento della Chiesa evangelica luterana in Italia, pubblicato nel 2011.
Nel 2010, come sapete, il Sinodo delle Chiese valdesi e metodiste aveva deciso di accogliere ufficialmente la possibilità di benedire le coppie omoaffettive. L’anno dopo, la Chiesa luterana ha preso atto di questa prassi già presente nelle comunità e ha redatto un testo molto bello, in cui si dice:
“Nel campo del matrimonio, della famiglia e della sessualità osserviamo una molteplicità di comunioni di vita, scelte in maniera responsabile e con autodeterminazione dalle persone.”
Queste comunioni di vita — che siano eterosessuali o omosessuali — si fondano su quattro criteri: volontarietà, continuità, fiducia e assenza di violenza.
L’omosessualità, afferma il documento, fa parte della varietà delle espressioni della sessualità umana. Non è qualcosa che “si inventa”, ma qualcosa che si scopre. Da qui nasce la richiesta di riconoscimento, di equivalenza, e — quando ci sono quei criteri — anche di equiparazione rispetto alle altre forme di vita familiare.
Il senso della benedizione
Il documento prosegue dicendo: “La benedizione è sempre dono di Dio. È attraverso la benedizione che le persone riconoscono l’amorevole e incondizionato andare loro incontro di Dio.”
E ancora: “Dio benedice le persone nella loro storia. Con il suo amore, offre loro uno sguardo grato sulla vita.”
Questo non vale solo per le coppie, ma anche per le persone singole. Tutti possiamo sentirci creature amate e accettate, indipendentemente da quello che dice la società o da eventuali giudizi esterni.
La benedizione, dice ancora il testo, non si nega a nessuno che la chieda. È un tesoro che la Chiesa custodisce, non per tenerselo stretto, ma per offrirlo. Quando una Chiesa benedice, accoglie davvero chi benedice.
E questo vale anche per noi pastori e pastore: non possiamo rifiutare la benedizione a chi la desidera, se ne riconosciamo la sincerità e il desiderio di vivere una comunione autentica.
Legami e nuove configurazioni
Vorrei ora darvi qualche spunto di riflessione, a partire da due autrici che ci hanno offerto visioni molto interessanti di famiglia.
La prima è Michela Murgia, che molti e molte di voi conoscono. Nei suoi scritti parla di famiglie d’anima, di figli d’anima, di famiglie queer — non fondate sul sangue, ma sulla capacità di scegliersi, di prendersi cura, come avete anche detto voi in tante condivisioni.
Lei parla di scelta, di elezione, di quella meravigliosa libertà di amare che nasce dal cuore, non dal destino genetico. In una frase forte, dice che “il sangue è la cosa più fascista che esista”.
Mi ha fatto pensare anche alla nostra legislazione, così dura sul tema della cittadinanza: in Italia vige lo ius sanguinis, il diritto di cittadinanza fondato sul sangue. Se nasci qui ma i tuoi genitori non sono italiani, non sei cittadino.
Ecco, tenete a mente questo tema perché nel Nuovo Testamento, chi sceglie una relazione di alleanza, di cura, di amore reciproco, viene chiamato concittadino. La cittadinanza, allora, diventa un simbolo di dignità e voce: significa avere spazio, parola, visibilità.
E questo non sempre accade nelle famiglie patriarcali, o anche in quelle famiglie più “silenziose”, dove né le parole né i gesti circolano. È stato bellissimo invece, oggi, ascoltare alcuni genitori regalarci immagini completamente diverse, piene di ascolto e libertà.
Generare parentele
L’altra voce che voglio portare è quella di Donna Haraway, che ci invita a non generare semplicemente bambini, ma a generare parentele.
Viviamo in un mondo in cui l’ambiente è minacciato, e generare parentele significa riconoscere che siamo legati anche con gli animali, con le piante, con il paesaggio. Non solo con le persone.
Papa Francesco, nella Laudato si’, parla dei paesaggi come luoghi dell’anima, da difendere: sono parte della nostra identità, della nostra crescita. A volte dobbiamo difenderli dentro e fuori di noi.
Generare parentele, scrive Haraway, significa prendersi la responsabilità di tutto ciò che comporta il vivere e il morire condiviso. Significa anche, paradossalmente, saper nutrire e saper lasciar andare, saper uccidere nel senso della trasformazione, del ciclo della vita.
Non è una pratica tenera e delicata. C’è affetto, sì, ma anche fatica. Cura delle generazioni, rinnovamento continuo. E forse, per tornare alla metafora della conchiglia sepolta nel patio della casa, significa anche saperla tirare fuori, quella conchiglia. Rinnovarla. E costruire nuovi centri, spazi condivisi dove anche altri possano abitare con noi.
Benedizione nella fragilità
A questo punto, vorrei condividere due riflessioni dal mondo protestante, che è il mio. La prima viene dal gruppo Varco di Milano — un gruppo evangelico che ha lavorato moltissimo, prima e dopo il Sinodo valdese e metodista che ha approvato la benedizione delle coppie omoaffettive.
In un loro scritto, parlano della benedizione nel tempo difficile. E dicono: la benedizione non è solo per la gioia. La scopriamo, anzi, più spesso nei momenti tragici, nei conflitti. È una vicinanza di Dio che non risolve, ma accompagna. Che non ci toglie dal buio, ma ci sta accanto mentre lo attraversiamo.
Trovo questa visione molto feconda. Perché tutti noi conosciamo relazioni ferite, silenzi, tradimenti, mancanze di fiducia. E spesso, queste sono le cose più difficili da raccontare. Ma sono anche le più vere.
È proprio nelle relazioni più intime che possiamo essere feriti. E anche nella Chiesa, dove apriamo il nostro cuore, possiamo essere lacerati. Ma proprio lì, possiamo anche sentire una presenza più grande, che ci sostiene. Che ci dice che non siamo soli, anche se siamo nella notte.
Cura comunitaria e fiducia reciproca
Voglio raccontarvi un’esperienza che mi ha toccato molto, nella comunità in cui sono adesso, una piccola chiesa valdese.
Ci è stato chiesto di accogliere una donna trans, da poco in relazione con un uomo della chiesa. Per poterla accogliere senza pregiudizi e sguardi storti ho parlato con alcune persone della comunità. Hanno subito detto: “certo, siamo felici di averla tra noi!”. E così è stato, tanto che questa persona ha poi detto: “qui mi sento in famiglia”.
È la prima volta che una persona trans entra in questa comunità, dove ci sono famiglie eterosessuali tradizionali. Qualcuno magari non si è nemmeno accorto della sua identità di genere. Ma intanto qualcosa è cambiato.
Ecco, quando parliamo di una comunità che si prende cura, intendiamo proprio questo: non è il pastore da solo ad accogliere, ma è l’intera comunità che partecipa. Serve chiarezza. Serve dire la verità su chi siamo. Io credo molto in questo: non nascondere le proprie identità.
Benedire significa offrire a Dio
Il Sinodo valdese ci ha ricordato anche una cosa importante: la benedizione non è nostra. Appartiene a Dio.
Noi, quando benediciamo, presentiamo a Dio il cammino di una coppia, rendiamo visibile la loro storia, la loro fede, la loro speranza. Il resto non ci compete. Il cammino spirituale è loro.
C’è un passaggio molto bello del documento sinodale valdese e metodista che dice:
“Benedire l’amore si iscrive nel moto circolare della relazione con Dio. Una coppia benedice Dio per il dono dell’amore, perché è stata benedetta a sua volta dall’incontro. La comunità riconosce e valorizza quel legame, fondato sull’affetto e sull’amore reciproco.”
Ma c’è anche un’altra faccia della benedizione: quella nella difficoltà. Spesso, Dio non appare come colui che ci consola, ma come colui che ci sconvolge. Che ci destabilizza. Come Giacobbe, che lotta con l’angelo e riceve la benedizione non quando tutto è perfetto, ma nel cuore della notte, quando si sente sopraffatto.
Ecco, Dio non benedice ciò che è perfetto, ma ciò che è imperfetto, fragile, incompiuto. Questa per me è una notizia straordinaria.
Relazioni precarie e affidabilità
E allora vi chiedo: cosa ne pensate di quella definizione che abbiamo letto dalla Chiesa luterana in Italia? Dove si dice che una coppia, per essere benedetta, deve essere responsabile, continuativa, affidabile, non violenta…
È una visione giusta, certo. Ma rischiamo di cadere nell’idealizzazione delle relazioni omoaffettive, più di quanto facciamo con quelle etero. Un matrimonio eterosessuale può finire senza grandi scandali. Ma se una coppia omosessuale non “funziona”, sembra che abbia fallito l’intera causa.
E allora forse dobbiamo dire che anche le relazioni precarie meritano ascolto e accoglienza. E aggiungerei: più della “fedeltà” assoluta, conta la affidabilità. Cioè: posso fidarmi di te? E io sono abbastanza affidabile che tu decida di affidarti a me?
Questa domanda riguarda tutte le relazioni: con le persone amate, con i bambini e le bambine, con gli animali. Tutte e tutti ci affidano qualcosa.
La Bibbia come spazio di pluralità
Vorrei chiudere con alcune indicazioni bibliche. C’è un libro importante per il mondo protestante italiano, pubblicato negli anni Novanta: I nuovi volti della famiglia. In quel testo, Giorgio Girardet individua tre dinamiche fondamentali nella Scrittura.
1. Uscire dal già noto: Dio chiama sempre fuori. Non ci lascia nella ripetizione. Chiama Abramo a lasciare la sua terra. Mosè a uscire per liberare il suo popolo. Elia, Geremia, Ezechiele, Osea… tutti chiamati fuori da ciò che era dato, per diventare qualcosa di nuovo.
2. Dio sceglie il minore, non il maggiore: Dio sovverte la gerarchia: sceglie Giacobbe e non Esaù, Davide l’ultimo tra i fratelli, Giuseppe tra i figli più piccoli. Anche tra le donne: Rachele contro Lea, Anna contro Peninna. La benedizione non è limitata, non è “solo per uno”. È per chi è fuori.
3. La circoncisione del cuore: La vera appartenenza non è nel corpo, ma nel cuore. Lo dicono i profeti. E il cristianesimo lo raccoglie nel battesimo: un segno che non lascia cicatrici, che include tutte e tutti. Vengono battezzati anche un eunuco etiope e un centurione romano. E così donne, schiavi, persone fuori da ogni confine e definizione.
Non c’è criterio di esclusione per accedere al battesimo, cioè alla grazia di Dio e alla sua libertà. Sono doni per tutte e tutti. La chiesa apostolica ci mise un po’ per comprendere davvero questa universalità di Dio.
Gesù e la nuova famiglia
Gesù stesso rompe la struttura familiare patriarcale. Quando la sua famiglia lo cerca, lui risponde: “Mia madre e i miei fratelli sono quelli che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica.”
Nel Vangelo di Marco (10,28-31), si parla di una nuova famiglia dove ci saranno cento volte sorelle, fratelli, madri… ma non padri. Perché il padre, simbolo di potere, di dominio, viene detronizzato.
Gesù chiama a una scelta personale, a una conversione della coscienza, non a restare prigionieri di strutture e vincoli familiari o a dinamiche sociali che producono gerarchie.
La prima comunità cristiana lo aveva capito bene: le donne guidavano la preghiera, celebravano la Cena, predicavano. C’era un’uguaglianza reale. Poi, certo, tutto è tornato sotto una forma patriarcale. Ma la radice è quella.
Nel capitolo 2,19 della Lettera agli Efesini si dice: “Voi non siete più stranieri, né ospiti. Ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio.” Un’appartenenza piena, attiva, politica. Non solo affettiva.
E poi, in Luca 14,26, Gesù afferma: “Chi viene con me e non mi ama più del padre, della madre, dei fratelli e delle sorelle, non può essere mio discepolo.” Parole dure. Ma che aprono a qualcosa di nuovo: una comunità fondata sull’amore, non sulla gerarchia.
*Letizia Tomassone è pastora della Chiesa Valdese e coordinatrice dei corsi di Studi femministi e di genere presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma e componente della Commissione per il Dialogo Interreligioso della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia. Attiva nella promozione del dialogo interreligioso, nei suoi studi ha approfondito il modo in cui la relazione tra interpretazione dei testi sacri, pratiche religiose e riflessione teologica determina la rappresentazione dei generi sessuali e influenza il linguaggio liturgico e della predicazione. Tra le sue pubblicazioni: Un vulcano nel vulcano. Mary Daly e gli spostamenti della teologia (a cura di, Cantalupa 2011); Per amore del mondo. La teologia della croce e la violenza ingiustificabile (et al., Torino 2013); Figlie di Agar. All’origine del monoteismo due madri (Cantalupa 2014); Crisi ambientale ed etica. Un nuovo clima di giustizia (Torino 2015); Le forme dell’amore. Un confronto teologico tra le principali confessioni cristiane (et altri, San Paolo Edizioni, 2023).
> Gli altri interventi tenuti all’incontro “PIETRE D’ANGOLO” (Firenze, 5 aprile 2025)

