Farsi servo dalla testa ai piedi (Gv 13)
Riflessioni bibliche di Randall Bailey, Warren Carter e Christine Smith tratte dal progetto Out in Scripture (Stati Uniti), del gennaio 2007, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
In Esodo 12:1-4 (5-10), 11-14 Dio si rivolge, dicendo “per voi”, a coloro che sono oppressi. Il racconto della prima Pasqua ebraica ha come centro l’impegno di Dio a fare ciò che il popolo da solo non può ottenere: Dio libera il suo popolo dalla schiavitù in Egitto.
Le molte piaghe non hanno allentato la presa degli Egizi su di loro, così Dio colpisce i primogeniti d’Egitto, facendo mostra del suo potere di liberare il popolo. Dio risparmia i primogeniti degli Israeliti passando oltre le case le cui porte sono segnate con il sangue sacrificale di un agnello.
Questo atto violento e mortifero indica la serietà con cui Dio affronta le strutture oppressive che infliggono danni al popolo invece di favorire la vita.
– Avete delle domande sulla Pasqua ebraica? Quali potrebbero essere state le significative conseguenze della celebrazione della prima Pasqua? Come possiamo essere sicuri che il nostro atteggiamento di fronte alle lotte di liberazione non si riduca a dei rituali esclusivamente religiosi che prendano il posto della lotta?
Come i salmi 30 (31) e 117 (118) che abbiamo visto nella Domenica delle Palme, il Salmo 115 (116), 1-2, 12-19 rende grazie a Dio per la liberazione dalle disgrazie passate. Anche oggi il salmo non cita la natura delle disgrazie. I versetti 3-11 descrivono una situazione in cui la morte sembra essere stata imminente e suggeriscono che il salmista abbia vissuto una malattia che ha minacciato la sua vita (versetti 3,8).
In questa situazione il salmista ha invocato l’intervento salvifico di Dio e lo ha sperimentato in una vita rinnovata (1-2,6). Dopo la liberazione il salmista dichiara a Dio che i voti che ha pronunciato (presumibilmente durante la malattia) verranno sciolti come espressione di gratitudine. Il salmo ci invita di considerare quali atti di culto e di servizio metteremo in atto in segno di gratitudine per gli atti di vita di Dio.
– Come esprimete la vostra gratitudine per gli atti di vita di Dio? A quali espressioni di amore e a quali atti di liberazione Dio potrebbe chiamare voi e la vostra comunità?
Anche se la lettura da 1 Corinzi 11:23-26 contempla solo tre versetti, l’intera sezione 11:17-34 affronta la celebrazione della Cena del Signore. Le istruzioni sul suo significato in 11:23-26 sono fornite nel contesto dell’attenzione che Paolo dedica all’organizzazione e alla prassi della comunità riunita.
L’apostolo Paolo non è contento, perché la comunità celebra la Cena del Signore in un contesto alimentare, di fazioni e di relazioni sociali che riflette e rafforza le divisioni della società. Durante il pasto alcuni hanno da mangiare e da bere in abbondanza mentre altri non ne hanno abbastanza. Paolo definisce questo comportamento “mostrare disprezzo” per la chiesa, umiliare il povero e invalidare la celebrazione della Cena del Signore (11:20-22).
Al contrario di tali rapporti sociali, le istruzioni sulla Cena del Signore evidenziano il fatto che la vita e la morte di Gesù sono “per voi” (11:23-26). Come il pane, il suo corpo è spezzato “per voi” (24). La morte e le sofferenze per mano delle élite giudaiche e romane lasciano il segno non solo su Gesù ma anche su di noi.
Il passo elabora questo impatto nei termini di un nuovo patto e di un impegno di fedeltà con Dio, del ricordo o della partecipazione del ministero di vita di Gesù e della sua morte e dell’anticipazione del ritorno di Gesù per instaurare in maniera piena gli obiettivi amorevoli e giusti di Dio. La sua morte è solidale con tutti coloro che soffrono ingiustamente ed esige uno stile di vita inclusivo e comunitario dei discepoli che sia anch’esso “per voi”.
– Se la vostra congregazione celebra la Cena del Signore, la Santa Comunione o l’Eucarestia, in che modo questa esperienza riflette le relazioni di potere all’interno della vostra comunità di fede? In che modo si vive Cristo nella celebrazione? Quando l’avete vissuta in modo particolarmente liberatorio e quando, invece, oppressivo?
Giovanni 13:1-17, 31b-35 è tratto da Giovanni 13-17, che viene solitamente denominato il “discorso d’addio”. Gesù sa che la sua “ora” di ritornare a Dio attraverso la sua morte, resurrezione e ascensione è imminente (13:1-3). Nei capitoli 13-17 Gesù istruisce i suoi discepoli sul vivere con fede nel mondo di Roma in sua assenza, rassicurandoli e guidandoli come comunità di discepoli (13:31-35).
La sua assenza non vuol dire abbandono. Come comunità di seguaci di Gesù, essi sono incaricati di diffondere un modo di vivere che ha sempre presenti gli obiettivi di Dio, antitetici agli ideali aristocratici e imperiali del dominio e del vantaggio personale. I seguaci devono manifestare l’amore di Dio che trasforma il mondo, continuando in questo modo la missione di Gesù (13:16).
Due dimensioni di questa scena meritano uno speciale commento. Lavando loro i piedi, Gesù assume il ruolo dello schiavo. Lo schiavo occupava una posizione ambigua nella società romana. Gli schiavi e le schiave potevano essere nati in schiavitù o essere originari di territori stranieri conquistati da Roma. Spesso gli schiavi erano privi di diritti, sfruttati sessualmente, molto in basso nella scala sociale.
La schiavitù contemplava dei valori etnici, di status e di genere. Ma gli schiavi potevano anche godere di considerevoli onore e potere, spesso derivati da un padrone potente. Pur avendo scarsi diritti ed essendo proprietà dei potenti, uno schiavo era cruciale per l’economia e il buon funzionamento sociale dell’Impero Romano. Lo schiavo era al tempo stesso soggetto alla dominazione romana e agente di quella dominazione.
In questo passo Gesù assume l’identità dello schiavo, senza criticarla, ma sottoponendola agli scopi di Dio. Il compito principale dello schiavo era cercare il bene altrui.
Gesù si cala nel ruolo di chi è senza diritti e ridotto al silenzio per dimostrare ai discepoli che la lotta per la liberazione riguarda tutti i gruppi, inclusi quelli che non hanno nessun ruolo e nessun potere. Il suo atto manifesta l’amore liberatorio di Dio che cerca il bene altrui. Facendosi lavare i piedi da Gesù i discepoli partecipano sia all’amore radicale di Gesù (versetto 8) sia al suo ruolo nel manifestarlo agli altri (12-17).
Manifestare l’amore di Dio per tutta la creazione, incluso il prossimo, come anche per il mondo che lo rifiuta (16), costituisce la vera identità della comunità dei discepoli.
Chiaramente, come sanno anche lesbiche, gay, bisessuali e transgender, tra gli altri, la chiesa non ha sempre compreso pienamente l’identità e la missione di Gesù: vivere l’amore di Dio per gli altri. Eppure le parole di Gesù continuano a spronarci a questo stile di vita in comunità solidali che esistono “per gli altri”.
– Cosa pensate della raffigurazione evangelica di Gesù che accetta gli orrori della società oppressiva, come la schiavitù? Vedete la raffigurazione di Gesù come uno schiavo che lava i piedi come un’accettazione o come una critica della schiavitù? In che modo queste tematiche vi riguardano personalmente?
La narrazione di Giovanni include anche alcuni elementi sorprendentemente omoerotici. Gesù “depone le vesti” (versetto 4) e, cinto di un asciugatoio, tocca i piedi dei discepoli mentre li lava e li asciuga (5). Pietro rifiuta di farsi lavare i piedi da Gesù m gli chiede di lavarlo tutto (6-10). Poco dopo Gesù intinge un boccone per Giuda (25-26). La scena mostra delle forme di interazione tra le più intime e tattili all’interno del gruppo di Gesù nel vincolo reciproco dei discepoli.
– Vi sentite a vostro agio o a disagio con la lettura sensuale di questo passo? Che ricchezza e che disagio porta agli LGBT credenti e a tutta la comunità di fede?
La nostra preghiera
Aiutaci o Dio
a essere pronti
per la liberazione che hai in serbo per noi.
Aiutaci non solo ad avere coraggio di impegnarci per essa
ma aiutaci anche a non creare dei rituali
che manchino del potere di trasformazione
di quello che hai fatto e stai facendo nel mondo.
Amen
Testo originale: Lent Year C