Hijab butch blues. Essere musulmana, migrante e queer nel sogno americano

Dialogo di Katya Parente con Lamya H.
Oggi è nostra ospite Lamya H., autrice del memoir “Hijab butch blues” pubblicato recentemente dall’editrice le plurali.
Il libro, molto profondo e coinvolgente, narra la vita dell’autrice dall’infanzia alla maturità – una vita scandita da importanti tappe: la scoperta della propria queerness, la lettura approfondita del Corano, il trasferimento negli Stati Uniti per proseguire gli studi, l’attivismo e un nuovo approccio nel guardare la realtà.
La scrittura, sentita e coinvolgente, ha valso al volume e alla sua autrice lo Stonewall Book Awards, un premio assegnato al miglior libro LGBTQIA+ dall’American Library Association.
Dopo questa breve presentazione, lasciamo la parola a Lamya.
Innanzitutto, perché hai sentito la necessità di scrivere questo memoir?
Sinceramente, non avevo intuito di aver scritto un memoir prima di averne messo una parte nero su bianco. In passato avevo scritto saggi che sono stati pubblicati su testate online; saggi che nascevano da un profondo senso di rabbia e ingiustizia. Ai miei amici raccontavo spesso storie su cose che mi erano successe, cose che mi facevano arrabbiare: “incidenti” razzisti, colleghi di lavoro che dicevano frasi omofobe, cose così.
Un giorno, un amico che rispettavo parecchio, mi disse che raccontare storie non era abbastanza, la rabbia è inutile e che non porta a nulla a meno di scriverla. Questa cosa mi travolse – quest’idea che scrivere fosse un atto politico.
Ho iniziato così – all’inizio saggi, e poi mi sono ritrovata a scriverne uno che, di fatto, è un capitolo del mio libro: quello su Hajar, che ho scritto perché avevo bisogno di elaborare com’era stato far incontrare la mia compagna e la (mia) famiglia facendo finta di essere solo amiche.
E il memoir è nato proprio da qui: la necessità di elaborare le cose che mi succedevano, ancora prima di pensare alla scrittura come un atto politico.
Il titolo del tuo libro è un chiaro omaggio a Leslie Feinberg. Perché lo hai scelto?
“Stone Butch Blues” è stato uno dei primi libri che ho letto quando, intorno ai vent’anni, ho preso coscienza della mia queerness. È uno stupendo mix di personale e politico, che usa la storia del narratore per fare considerazioni incisive, tra le altre cose, sulla queerness, il genere, la razza, la classe, la fatica, la brutalità della polizia.
Ricordo che leggendolo pensavo che questo è ciò che volevo fare scrivendo, questo è il modo in cui volevo scrivere anch’io. Quando è arrivato il momento di trovare un titolo per il mio libro, ho voluto omaggiare questo testo fondamentale della letteratura queer e tutti gli scrittori queer e trans che hanno scritto prima di me e che hanno spianato la strada affinché un libro come il mio vedesse la luce.
È esatto dire che religione e spiritualità hanno giocato un ruolo fondamentale nella consapevolezza della tua queerness? In che modo?
Assolutamente sì. Non so cosa significhi essere una persona queer senza essere religiosa, proprio come non so cosa voglia dire essere una persona religiosa senza essere queer. Queste identità, per me, sono sempre andate di pari passo. Sono arrivata ai miei convincimenti politici grazie alla religione, grazie a idee di giustizia, resistenza e dell’importanza della gentilezza.
Quando mi sono resa conto del mio essere queer, e ho trovato le parole per queste sensazioni che erano dentro di me da sempre e ho incontrato la comunità LGBTQ+, mi sono trovata a ritornare di nuovo a questi principi – principi che avevo abbracciato proprio grazie alla religione.
Com’è essere musulmana, migrante, queer e una donna non bianca in un Paese che, come l’America, sulla carta è (o era) la “terra delle opportunità” per eccellenza? Poter andare all’estero per studiare e rimanervi a vivere creando il proprio futuro è una grande opportunità. Ti senti fortunata?
Penso molto a quest’idea di essere “fortunata”. Per alcuni aspetti sono molto, molto, molto fortunata: cosa sarebbe stata la mia vita se non fossi andata in un college negli Stati Uniti, se non avessi avuto una borsa di studio, se non avessi avuto una carta di credito e così via.
Credo che molte esperienze che ho fatto non sarebbero state possibili senza vivere lontano dai miei genitori, senza la possibilità di incontrare il tipo di persone e di idee in cui mi sono imbattuta al college, senza andare in un Paese dove non conoscevo nessuno e potevo cominciare da capo. Ma penso che il sentirmi fortunata e la colpa e la gratitudine che sono seguite, fondamentale, definiscono la mia relazione con l’America.
Non dovrebbe essere questione di fortuna: tutti dovrebbero avere queste opportunità indipendentemente dal Paese in cui si vive, dalla ricchezza, dai privilegi.
Secondo te, in che modo le differenti forme di cultura e lo scambio di informazioni può cambiare la società in cui viviamo?
Una delle cose che la queerness, in particolare, mi ha insegnato è l’importanza delle differenze: di abbracciarle e di ascoltare le persone che vogliono vivere in modi diversi dalla norma.
Penso che il rovescio della medaglia sia l’importanza di ascoltare davvero chi è marginalizzato, empatizzare con loro e sostenerli.
In questi giorni sto pensando molto a chi si batte per i diritti dei disabili che immagina un mondo dove ognuno – a prescindere dalle proprie (dis)abilità – possa crescere, e di come questo semplice principio ci porta a mettere in discussione i modi in cui partecipiamo all’abilismo. Sto anche pensando molto alla Palestina – come si può non farlo, viste le storie orribili che arrivano sia da Gaza che dalla Cisgiordania.
Penso molto a quanto sia importante cercare dei resoconti indipendenti e resistere alla normalizzazione del genocidio, e che questo ascolto profondo e questa resistenza sono il modo in cui cambiamo la società in cui viviamo.
Ringraziamo Lamya per aver condiviso le sue idee con noi, e rimandiamo chi vuole approfondire la conoscenza sua e del suo mondo interiore alla lettura di “Hijab butch blues” (le plurali, 2023).