Monsignor Gianfranco Bottoni: “I profeti oggi”
Riflessioni di monsignor Gianfranco Bottoni*
Di seguito proponiamo il testo della relazione che il responsabile per l’ecumenismo della Diocesi di Milano ha tenuto il 25 aprile 2012 a St. Jacques, il paese in cui si era ritirato don Michele Do e dove ancora si svolgono gli Incontri di Fine Settimana che lui aveva iniziato.
Ringrazio dell’invito e soprattutto ringrazio di poter essere qui con voi a condividere questo incontro. Ho avuto poche occasioni per conoscere Michele Do, ma ho di lui una grande stima. Ho letto i suoi scritti e ricordo una grande chiacchierata fatta con lui. So di parlare a molti suoi amici e preferirei quindi ascoltarli e imparare. Clara ha già anticipato che il titolo di oggi “I profeti oggi: chi sono e su che cosa vorremmo essere illuminati” mi è stato dato con la libertà di poterlo modificare. E, in effetti, non avrei intenzione di svolgerlo più di tanto, per il semplice motivo che ho un certo imbarazzo con il termine “profeti”.
A proposito di profeti
Come osservava Michele Do, i profeti nella chiesa sono quelle voci che in vita vengono messe a tacere perché scomode e dopo morte vengono riabilitate ed utilizzate in modo strumentale. Noi oggi ci lamentiamo spesso che mancano profeti viventi, ma forse la vera profezia non può che essere riconosciuta a posteriori, post mortem. Inoltre, è giusto poterla riconoscere a partire dalle intuizioni che alcune persone, in quanto voci fuori dal coro, hanno avuto, quando quelle intuizioni abbiano trovato un sostanziale riscontro, una profonda fecondità. E questa verifica non può che essere a posteriori. Nel frattempo, finché sono in vita, sarebbe importante non emarginare le voci fuori dal coro che potrebbero poi risultare profetiche.
Inoltre penso che nessuno sia mai stato profeta a tempo pieno, se non i profeti di professione, che nella Bibbia però sono i falsi profeti. Dovremmo infine osservare che c’è molta diversità tra la figura dei grandi profeti biblici e quelli delle prime comunità cristiane. Come pure tra i profeti che sono all’origine degli scritti del Nuovo Testamento (anche il carisma degli agiografi è carisma profetico) e i profeti lungo la storia della chiesa. Ma non mi soffermo su queste diversità.
C’è un fatto che forse accomuna queste diverse figure: la percezione, da parte dei destinatari del messaggio, che il contenuto di esso viene dall’alto e che, nello stesso tempo, è profondamente umanizzante. Si potrebbe dire che in queste figure c’è una duplice fedeltà: da una parte, la fedeltà a Dio e alla sua parola, una parola latrice di radicale critica, e, dall’altra, la fedeltà alla terra e all’umanità, nella solidarietà con la stessa umanità peccatrice. I profeti hanno sempre questa duplice capacità di tenere insieme istanze tra loro diverse: le esigenze radicali della parola di Dio e la solidarietà con l’umanità, di cui sono compartecipi ed espressione eccezionale e significativa.
Noi siamo riuniti in questo luogo perché abbiamo la comune convinzione che nella testimonianza di Michele Do c’è stata profezia.
C’è stata nella sua evangelica libertà e nel suo sofferto amore per la chiesa; c’è stata nella perseveranza della sua ricerca mai soddisfatta e nella sua ricca umanità sempre accogliente. Mariangela Maraviglia, nella sua relazione storica dell’anno scorso, metteva bene in luce che, tra la repressione del modernismo e il concilio Vaticano II, Michele Do ha elaborato istanze di rinnovamento e sperimentato proposte di vita evangelica; e dopo il concilio ha anche cercato un’immagine creativa del cristianesimo al di là dello stesso Mazzolari.
Accanto a lui, a sorella Maria di Campello, a Mazzolari siamo convinti di poter porre altre figure che percepiamo come profetiche per il nostro tempo. Sono persone dotate sempre, come già accennavo, di discernimento critico e di grande ricchezza umana. E potremmo dire che chi ha avuto la gioia, la fortuna, la grazia di poter incontrare queste testimonianze, ha fatto l’esperienza che è descritta in Giovanni al capitolo terzo a proposito del vento dello Spirito: “ne senti la voce ma non sai né da dove viene né dove va, così è di chiunque nato dallo Spirito”. A Saint Jacques non siete pochi ad avere sperimentato questo rinascere dall’alto. E’ in questo senso che preferirei ascoltare anziché prendere la parola. Sui profeti mi fermo qui.
La tesi e la sua motivazione
Dopo questa premessa legata al titolo, con il mio intervento propongo subito una sorta di tesi, di nucleo fondamentale di quanto intendo dire. Lo riprenderò per un breve ampliamento e infine prenderò in considerazione i seguenti cinque punti:
1. Crisi della cristianità: è possibile una riforma evangelica dell’istituzione religiosa?
2. l’evangelo del Regno di Dio come radicale ospitalità di tutti e solidarietà con ogni creatura.
3. La figura di una fede adulta: cittadini credenti, senza corporazioni religiose nella società.
4. L’homo religiosus e la fede che non elude gli interrogativi più inquietanti dei non credenti.
5. La forma eucaristica della chiesa in liberi stili di vita e in responsabili itinerari sinodali.
Iniziamo col nucleo che voi avete scritto sul foglio, nucleo che è presentato a mo’ di tesi in termini sintetici e perciò insufficienti. Parte dalla considerazione del grande amore di Michele Do per la chiesa e io devo dire che non so avere il suo stesso amore.
Il testo di questa tesi dice: «L’amore per la chiesa, vissuto ed espresso con singolare intensità da Michele Do, ci chiede di sottrarci – e di aiutare fratelli e sorelle a sottrarsi – alla tentazione di abbandonare la fede ecclesiale e di dar seguito al già diffuso fenomeno del cosiddetto scisma sommerso».
In particolare oggi ci chiede di riuscire a versare il vino nuovo dell’evangelo non più negli otri vecchi della religione e conseguentemente dei passivi allineamenti all’istituzione ecclesiastica o in quelli della polemica contestazione contro di essa (le due tendenze di fatto più frequenti), bensì di versarlo in otri nuovi, quelli di una fede matura esplicitamente cercata in forme finora inedite e finalizzate all’unità fraterna non di istituzioni ma di cristiani adulti, i quali – nella comunione eucaristica dell’unico corpo di Cristo e nella libertà dello Spirito, ma anche nella indispensabile marginalità rispetto alle istituzioni della religione e nella profonda convinzione di non essere migliori di nessuno – sappiano stringere ed estendere reti di relazioni di accogliente reciprocità e di itinerari sinodali finalizzati ad offrire alle donne e agli uomini di oggi spazi di libertà responsabile e di ospitalità ecumenica nei confronti di ogni persona e di ogni autentica espressione di umanità esistente in questo nostro mondo, secondo la singolare testimonianza di Gesù e il senso più profondo del suo evangelo del regno di Dio.
Questa è la tesi, con una proposta per l’oggi del cristianesimo. Perché? Di fronte ad una crisi epocale della cristianità e di fronte al fenomeno di società pluraliste appare con sempre maggiore evidenza che la questione seria del cristianesimo, nella sua vicenda storica, sta nella riduzione dell’evangelo di Gesù a religione e quindi a morale.
L’assunzione della forma e della funzione di religione e di agenzia etica per la società ha comportato nella storia il conseguente esito di una sorta di “religione civile” con il connubio dialettico ma inestricabile tra trono e altare, potere politico e potere ecclesiastico, tra istituzioni mondane e istituzioni religiose.
Ora tutto ciò rende problematica o forse impossibile, come vedremo, la “ri-forma” intesa come nuova forma di un cristianesimo che sia secondo l’evangelo. Pertanto la critica alla religione è necessaria. Ma va messa a fuoco non come antitesi tra fede e religione, bensì come dialettica tra evangelo e religione istituzionale. Tale dialettica nasce dall’esigenza di non vanificare la novità dell’evangelo e la specifica originalità del messaggio cristiano, incentrato su Gesù Cristo.
Gesù infatti non ha fondato e istituito una nuova religione, sostitutiva di quella ebraica e alternativa a qualsiasi altra. Invece, restando dentro la religione del popolo dell’alleanza mai revocata, Gesù con il suo evangelo ne ha valicato gli argini liberando la persona umana dai limiti di ogni religione. Si è posto ai margini rispetto alle istituzioni religiose, creando così intorno alla sua persona lo spazio di un’ospitalità che permettesse ad ogni suo interlocutore di essere veramente se stesso e di poter accogliere liberamente la chiamata di Dio alla vita. È dunque il suo evangelo che ci richiede di mantenere la distinzione tra la persona del discepolo e l’istituzione ecclesiale.
Da persona che si occupa di ecumenismo spesso segnalo che la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, da più di cent’anni, non è stata programmata per l’unità delle chiese, ma per l’unità dei cristiani. E questo consapevolmente e volutamente. Non ci sarà forse mai una piena unità visibile delle chiese, perché le istituzioni non si lasciano unificare. L’unità per cui Gesù ha pregato è l’unità dei discepoli, ovvero dei cristiani, che è un’altra cosa. Certamente bisogna ricordarsi che i cristiani non vanno né separati dalla propria chiesa né confusi con la sua istituzione, la quale, pur con tutti i suoi problemi, è necessaria e benedetta. Ma è la figura del cristiano adulto che oggi urge e interessa mettere in luce.
I cristiani sono adulti nella misura in cui vivono realmente la comunione eucaristica dell’unico corpo di Cristo e la libertà dello Spirito. E lo sono se sanno porsi in una posizione di indispensabile marginalità rispetto alle istituzioni della religione e di relazioni aperte ad offrire spazi di libertà responsabile e di ospitalità veramente ecumenica nei confronti di ogni persona e di ogni autentica espressione di umanità esistente in questo nostro mondo. Infatti creare spazi di ospitalità è stata la testimonianza di Gesù, il senso più profondo del suo evangelo del Regno.
Che cosa mi muove a fare questo discorso? Ciò che prima dicevo “a proposito di profeti”. Infatti riconoscere un carisma profetico è certamente cogliere le intuizioni che, ad esempio, noi abbiamo trovato in Michele Do, Maria di Campello, Mazzolari… Ma, perché la loro sia veramente profezia, queste intuizioni non possono essere lasciate nell’isolamento. Deve esserci un riscontro, un riconoscimento. Si tratta di raccogliere un’eredità. La loro è stata una testimonianza di grande ospitalità, di grande accoglienza. Questa casa, tutti lo sapete, che cosa ha significato e che cosa significa tuttora.
Allora dobbiamo convincerci che il cristianesimo, che ci viene sempre presentato come una sorta di dottrina dogmatica e morale, è in realtà uno stile di vita, uno stile di accoglienza, uno stile di ospitalità, uno stile di libertà. Ed è profetico chi, in secoli in cui il discorso era soltanto quello del regime della verità dogmatica e morale (e tuttora siamo in presenza di rilanci e restaurazioni in questa senso), ha saputo privilegiare esperienze comunitarie di piccoli gruppi. Non a caso, nella marginalità.
Purtroppo nella chiesa che cosa continua a dominare? Non certo il fatto di mettersi ai margini. Per la vita dei fedeli che non sono usciti e non escono dalla chiesa oggi esiste solo una duplice possibilità: o di essere ossequienti all’interno della chiesa e della sua logica istituzionale o di essere dei contestatori di questa.
Le singole figure profetiche, cui abbiamo fatto cenno, hanno un loro rilievo anche perché ci indicano che è possibile dar vita a una terza via, che si caratterizzi dal punto di vista dell’accoglienza e dell’ospitalità. Tentare di delineare questa terza via è il nostro compito di oggi. La terza via sarà rappresentata dalla figura del cristiano adulto. Questo è dunque l’obiettivo che propongo. Lo faccio a partire dalla responsabilità che nella fede abbiamo anche nei confronti di altri fratelli e sorelle.
Mi pare giusto che si debba essere preoccupati del fenomeno del cosiddetto scisma sommerso, che è dilagante, enorme. Tale fenomeno deve essere capito: ha radici lontane e più cause. C’è comunque un fatto innegabile: molti, quando sentono ripetere il solito discorso moralistico sui “principi e valori non negoziabili”, spesso enunciati in un’ottica antimoderna e polemica, dicono che non ci stanno, oppure hanno reazioni donchisciottesche … Infatti l’esito della contestazione è quello di una lotta contro i mulini a vento. Pertanto, c’è chi protesta con la illusione di cambiare le cose e c’è chi tacitamente e in modo sommerso se ne va …
Non è possibile una figura ecclesiale alternativa a questi due esiti? Questa è la domanda, qui sta la sfida, forse un kairòs da scoprire. Veniamo ora alla riflessione sui cinque punti in cui si articola questo mio intervento. Crisi della cristianità: è possibile una riforma evangelica dell’istituzione religiosa? E’ possibile una riforma evangelica dell’istituzione religiosa?
Siamo tutti coscienti che il cristianesimo stia attraversando un tempo di crisi. Metz ne parlava già alla fine degli anni ’70 dicendo: «La crisi attuale del cristianesimo non è in primo luogo una crisi dei contenuti della fede e delle sue premesse, ma è prima di tutto una crisi dei soggetti e delle istituzioni». Per i soggetti vi leggo il problema della tenuta e della qualità della fede personale dei credenti. Per le istituzioni vi leggo la questione della loro credibilità e di una possibile o meno riforma che le renda meno distanti dall’evangelo.
Personalmente più che di crisi di cristianesimo preferisco parlare di crisi della cristianità. L’attuale crisi non ha comunque precedenti nella storia e sembra avviata a una probabile caduta a picco della religione cristiana, almeno nel nostro mondo europeo/occidentale. Pensiamo, d’altra parte, alle nuove generazioni. La cosiddetta fluidità che investe cultura e società nell’epoca del post moderno e della globalizzazione è certamente una delle principali cause di questa crisi, ma è pure sotto gli occhi di tutti la continua perdita di credibilità da parte delle chiese e in particolare di quella cattolica, anche per i gravissimi scandali che l’attraversano e per le sue progressive chiusure nei confronti dell’atteggiamento conciliare.
Preoccupati, molti si domandano che cosa fare. C’è chi invoca riforme radicali e coraggiose. La mia domanda è questa: è realistico attenderle dalle istituzioni ecclesiastiche? Quando mai riforme di tale portata si sarebbero verificate nella storia del cristianesimo? Se dai propositi della riforma protestante, che evidentemente è il fenomeno più serio e più qualificato dal punto di vista di un tentativo di riforma, abbiamo appreso l’adagio “Ecclesia semper reformanda” (sempre da riformare), non possiamo negare che la storia ci obbliga ad aggiungere “sed nunquam reformata” (mai però riformata).
La chiesa reformanda in linea di principio, a posteriori risulta di fatto irreformabilis, almeno finora, non solo nel cattolicesimo e nell’ortodossia, ma mi permetto di dire nello stesso protestantesimo. Evidentemente, per capire in che senso lo dico, preciso che con la categoria riforma non mi riferisco ai molti e ricorrenti tentativi di rinnovare in senso evangelico la vita spirituale e pastorale delle chiese o di aggiornare l’organizzazione delle istituzioni e il linguaggio dell’annuncio, com’è avvenuto, ad esempio, con la riforma protestante o con i concili di Trento e del Vaticano II.
Questi tentativi non sono certamente mancati e con benefici risultati. Speriamo che ce ne siano sempre: hanno una loro fondamentale positività. Ma, per quanto validi e fecondi, non sono stati mai nell’ottica di dare al cristianesimo una nuova forma. Ri-forma, nel suo significato proprio e nel suo senso più radicale, è termine che indicherebbe nuova forma, un mutamento di essa. Quei tentativi infatti erano stati interni e funzionali alla forma di religione che il cristianesimo aveva assunto fin dai primi secoli. Prescindevano dalla consapevolezza critica che Gesù non aveva predicato né inteso fondare una nuova religione. Invece sta qui la questione decisiva.
Anche il movimento protestante non ha certamente intaccato questo equivoco di fondo, quello cioè di attribuire a Gesù l’intenzione che dal suo messaggio scaturisse una religione sostitutiva di quella ebraica e alternativa a qualunque altra. I secoli della cristianità invece ci hanno consegnato la religione del cristianesimo, con la teologia della sostituzione nei confronti del popolo dell’alleanza e con la negazione della salvezza fuori dalla chiesa.
Del problema prendiamo coscienza oggi posti di fronte al fenomeno del pluralismo religioso e dell’incontro con le altre religioni. Nel dialogo interreligioso il cristianesimo si pone come una religione che interpella, interroga, incontra le altre religioni. Ci siamo di fatto messi nell’ottica di considerare Gesù fondatore della nostra religione. Invece Gesù non ha fondato nessuna religione. Ecco il problema.
L’equivoco si è consolidato a seguito della svolta costantiniana. Consolidato, non nato allora. Era nato anche prima, ma certamente si è consolidato nel IV secolo, quando il movimento cristiano viene riconosciuto come religio. Prima infatti non era considerato religione. Dopo invece viene man mano assumendone la forma. Quindi vi trasferisce categorie e istituzioni religiose del giudaismo, a cui si sostituisce come verus Israel. Con Teodosio il cristianesimo diviene religione ufficiale e unica dell’impero.
Le conseguenze dottrinali di questi sviluppi civili e culturali, che hanno prodotto la religione della christianitas, giungono fino a noi. Noi abbiamo ancora l’impianto di quel sistema e di quella dottrina e non potremmo probabilmente avere qualcosa di molto diverso. Il problema allora consiste nel capire che però l’evangelo è comunque un’altra cosa. Riguardo a queste conseguenze la distanza dall’evangelo non è solo quella imputabile alle nostre fragilità di peccatori o alle nostre incoerenze personali. Anche in presenza di santi e testimoni autentici le chiese della religione cristiana restano con strutture distanti dalle origini evangeliche.
La distanza che dobbiamo prendere in considerazione è quella tra l’evangelo del Regno testimoniato e predicato da Gesù nella sua radicale ospitalità, da una parte, e, dall’altra, la religione cristiana che ci ritroviamo ereditata dalla storia della societas christiana. Questa distanza è storicamente inevitabile. Ma dire che questa distanza è inevitabile non legittima il fatto di poterla ignorare. Non ci autorizza ad eliminare la coscienza della necessaria distinzione tra evangelo e religione. E tanto meno elimina la coscienza che evangelo e religione debbano restare in rapporto dialettico. C’è dunque da evidenziare un equivoco dal quale dobbiamo uscire.
Proprio perché è inevitabile la distanza tra l’evangelo del regno e la religione cristiana, ha senso parlare di ecclesia semper reformanda. La riforma infatti consiste nel tentativo di colmare, almeno in parte, questa inevitabile distanza. O comunque di ridurla. Proprio perché la distanza c’è e non può non esserci, la chiesa deve essere sempre riformata. In quella distanza infatti abbondano motivi e materie per una vera riforma. Ora, se la chiesa con le sue istituzioni, per quasi due millenni, è rimasta nunquam reformata, mai riformata, ciò significa che è esposta in modo ricorrente all’idolatria. L’idolatria è il peccato per eccellenza di ogni esperienza religiosa, personale e collettiva, visibile in particolare nelle istituzioni.
Ma ci chiediamo: una vera riforma in senso evangelico, che non è avvenuta nei secoli passati, segnati per di più da profonde e drammatiche divisioni, potrebbe avvenire in un prossimo futuro? E come? Per esempio, è noto che nel XX secolo lo Spirito santo ha suscitato la grande novità del movimento ecumenico. Esso mira all’unità. Alla questione se il movimento ecumenico possa costituire una chance decisiva per dare una nuova forma al cristianesimo, ho tentato di rispondere in un articolo pubblicato su “Servitium”. In campo ecumenico la risposta non è per nulla scontata.
La risposta alla domanda generale sulla riforma, resta assai problematica. Penso che non si dia possibilità per le istituzioni religiose di farsi trasparenza all’evangelo. Le istituzioni religiose servono alla memoria e alla diffusione dell’evangelo, ma l’evangelo va oltre i confini della religione e delle sue istituzioni. Pertanto, la testimonianza dell’evangelo nella vita ecclesiale può essere solo frutto dell’azione carismatica dello Spirito attraverso la vita santa delle persone e nelle loro esperienze di piccoli gruppi, di comunità secondo l’evangelo, di ospitalità fraterna.
L’evangelo del Regno come radicale ospitalità di tutti e solidarietà con ogni creatura.
Dall’evangelo dovrebbe, se lo prendiamo sul serio, derivare un cristianesimo della pro-esistenza, cioè dell’essere e vivere “per”. Come cristiani pensiamo di non poter accedere all’adagio “mors tua, vita mea”, ma la pro-esistenza è addirittura un capovolgimento a 180 gradi rispetto a questo adagio. Il cristiano, nella sequela del Signore, dovrebbe dire “mors mea, vita tua”. La prospettiva della testimonianza, della marturìa usque ad mortem, è quella di volere che l’altro viva.
Dall’evangelo dunque deriverebbe un cristianesimo della pro-esistenza. Anche se ciò non coincide necessariamente con un martirio di sangue, certamente non prescinde mai dalla domanda: Gesù che cosa ha fatto della sua esistenza? Al discepolo che si pone questa domanda si prospetta un cristianesimo della kenosis, dello svuotamento. È il cristianesimo di chi, alla sequela del Signore Gesù, si spossessa di sé e delle proprie prerogative per creare al tu dell’altro e alle altrui identità spazi di libertà che permettano ai soggetti individuali o collettivi di diventare sempre più se stessi e come tali di essere accolti.
Sarebbe interessante rileggere i racconti evangelici per cogliere ciò che soggiace alla testimonianza di Gesù. Si può proprio scoprire che Gesù dona la sua vita perché l’altro viva. È da cercare e scorgere in questa direzione il senso di ciò che egli fa. E non solo nell’ultima sua ora, ma già nei rapporti e negli incontri con le persone lungo tutto il suo ministero.
Ora questa radicalità dell’evangelo non può essere realisticamente pretesa all’interno della realtà storica della vita ecclesiale. Non può essere pretesa né dal popolo credente nei confronti dell’istituzione religiosa, né dall’istituzione religiosa nei confronti del popolo. Siamo realistici! Non potrà mai diventare un obiettivo istituzionale in qualsiasi chiesa cristiana. Ogni chiesa infatti cerca di crearsi il proprio spazio, di resistere alle bufere della storia, di riprodursi e garantirsi un futuro. Non certo di sparire.
Mi ricordo che nell’anno ‘70, a Taizé, in un incontro a quattr’occhi con Roger Schutz, fui colpito profondamente da queste parole che mi disse Schutz: “Io prego tutti i giorni perché Taizé muoia. Taizé deve essere come il seme che muore nel terreno per portare il frutto dell’unità dei cristiani. L’obiettivo è l’ unità, non l’esistenza della comunità”. Queste erano parole dette in una autentica prospettiva di pro-esistenza: pensarsi come qualcosa che deve morire per portare frutto: altrove, altrimenti, a terzi, non a se stessi.
Le nostre chiese stanno pensandosi e comportandosi come realtà che devono morire per un bene che è al di fuori di loro? Certamente no, ma è giusto però essere realistici. Ce lo suggerisce la stessa storia della Comunità di Taizè, la quale, al di là di quanto mi diceva fr. Roger, ha continuato a crescere e oggi non è certo una realtà che sta morendo. Certamente il motivo è dato dal fatto che l’unità dei cristiani è meta non ancora raggiunta. Ma forse lo stesso Schutz non parlerebbe oggi come nel’70 di Taizé e del suo servizio ai giovani. Occorre essere realisti. Esserlo significa distinguere tra ideali e possibilità storiche, ma anche creare e non ignorare la dialettica che ci deve essere tra ideale evangelico e realtà religiosa.
L’istituzione ha la funzione di conservare nel tempo la forma di religione, non certo di promuoverne il superamento con una sorta di ars moriendi. La chiamata alla sequela del Signore, secondo l’evangelo, si rivolge al cuore delle persone e al loro associarsi in forme di fraternità o di vita comune. Non si rivolge alle strutture istituzionali di un sistema religioso, che non possono risultare trasparenti all’evangelo della pro-esistenza. Questo però non significa che le istituzioni non debbano potersi modificare in meglio.
Le differenze istituzionali nella chiesa, ad esempio, tra Pio X, Giovanni XXIII, Benedetto XVI, oppure tra Martini, Ruini, Scola certamente esistono. Pertanto non si tratta di deresponsabilizzarsi sulla necessità di modificare in meglio ciò che è modificabile nelle istituzioni ecclesiali.
Si tratta invece di avere la lucida consapevolezza che non si ottiene la trasparenza all’evangelo nel riuscire a modificare in meglio o in meno peggio le istituzioni. La trasparenza dell’evangelo non va cercata nei palazzi vaticani o nelle curie. I tentativi di riforma delle istituzioni giovano ad aggiustare la rotta e ad evitare le derive, ma restano al di qua della riforma intesa come nuova forma coerente con lo stile di vita secondo l’evangelo. È necessaria la consapevolezza che, se l’evangelo si vive altrove e altrimenti rispetto alla logica o ai luoghi delle istituzioni religiose, si tratta di individuarne il come e dove.
Credo che il come e il dove debbano essere ricercati e intravisti nella marginalità. Non in una marginalità contro l’istituzione, ma a sufficiente distanza da essa. Certamente in comunione con essa, usufruendo pertanto dei doni che lo Spirito effonde grazie al servizio dell’istituzione. Infatti i sacramenti, l’eucarestia noi li abbiamo grazie allo Spirito che opera nell’istituzione. Ora la contrapposizione tra Spirito e istituzione fa parte di discorsi contestativi che non stanno né in cielo né in terra. L’istituzione riceve dallo Spirito la forza di un servizio che ci garantisce la possibilità di accedere all’evangelo in modo genuino. Dipende da noi far vivere l’evangelo, ma l’istituzione ci garantisce l’eucarestia e i percorsi per poter attingere all’evangelo.
Segno e condizione di un’autenticità evangelica vissuta ai margini – nella marginalità e non contro l’istituzione – è una coerente e profonda convinzione che non è facile avere nel proprio cuore, quella cioè di non considerarsi migliori di nessun altro, neppure dei più empi criminali della storia. Dovrei sempre chiedermi: se la mia biografia fosse stata come quella di un criminale, posso essere così sicuro che nei suoi panni non avrei fatto peggio o come lui? La mia vita è certamente tutta diversa da quella di un criminale, ma questo non mi permette di potermi considerarmi migliore di lui. Neppure posso considerarmi migliore degli uomini delle istituzioni religiose ed ecclesiastiche, che magari critico per la loro contro-testimonianza cristiana.
Avere questa coscienza è di grande importanza per porsi nell’atteggiamento che mantiene la marginalità, la distanza dalla centralità istituzionale, ma che, nello stesso tempo, con essa non rompe la comunione. Dalla serietà di questa convinzione, assai esigente e per nulla ovvia, si misura l’autenticità profetica. Senza di essa l’evangelo verrebbe contraddetto e smentito. La figura di una fede adulta: cittadini credenti, senza corporazioni religiose, nella società (3).
Abbiamo concluso che è necessario collocarsi in un atteggiamento di marginalità per vivere la dimensione di una figura, ancora un po’ inedita, di cristiani adulti. Può avvenire tutto questo in tempi di crisi, anche a prescindere da una esplicita promozione da parte delle chiese, le quali spesso guardano in cagnesco ogni discorso di fede matura e di cristianesimo adulto?
Io sono convinto che non solo sia possibile ma che lo si debba cercare con la massima determinazione e che proprio qui stia la novità a cui siamo chiamati, il kairòs dell’oggi del cristianesimo e del nostro raccogliere il messaggio profetico di figure come quella di Michele Do. Infatti proprio perché le istituzioni religiose ed ecclesiastiche restano molto autoreferenziali, tutte incentrate su se stesse, di fatto non riformabili, la sequela del Signore esige che il cristiano non si rassegni a tale impasse. Non solo. C’è poi l’urgenza di sostenere la fede ferita e provata di coloro che subiscono e che subiranno sempre più le conseguenze di questa crisi della cristianità. E’ perciò necessario che i cristiani si lascino condurre dallo Spirito a camminare su vie nuove.
Questa è la condizione del cristiano adulto che vive l’avventura, anche ecumenica, di una fede matura per il nostro tempo. La maturità della fede cristiana è certamente da ricercare nella vita dello Spirito e in quella della fede di Gesù Quest’ultima è stata persino negata per secoli, com’è noto, dalla dogmatica della religione cristiana, secondo la quale Gesù non poteva avere la fede. Tuttora alcuni guardano in cagnesco chi parla della fede di Gesù. Affermando che Gesù aveva la visione beatifica deducono che non poteva avere la fede …
Questo è ciò che affermava la religione in coerenza con il suo sistema teologico scolastico. Forse l’evangelo, però, ci dice un’altra cosa.
La vicenda terrena di Gesù suggerisce, per delineare la figura del cristiano adulto, di ricorrere ad una metafora, che come tutte le metafore presentano alcuni limiti. Accosto infatti l’esperienza del cristiano adulto all’esperienza della persona che, al termine della formazione vissuta nella propria famiglia di origine, esce di casa. E’ l’inizio di una fase nuova della vita. Tanti sono i modi di uscire di casa, ma io voglio pensare a Gesù.
Nei racconti evangelici non ci viene detto nulla di quando Gesù esce di casa, ma è scritto che era cresciuto in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini nella casa di Nazareth. Quando da essa esce in età adulta per adempiere la sua missione, non riesco ad immaginarmi – e non risulta da nessuna parte – che abbia rinnegato quanto ha ricevuto da Maria e Giuseppe, nella fase precedente di vita domestica e famigliare. Ma neppure che vi sia rimasto dipendente.
Il suo essere umanamente adulto coincise con l’essere nella pienezza della vita dello Spirito di Dio, come manifesta la teofania al Giordano. Così, mi pare, dovrebbe essere per il cristiano nei confronti della realtà ecclesiale in cui è cresciuto nella vita di fede. Essere adulti significa non rimanere nella umma4 della propria chiesa a fare i chierichetti, come un adulto non rimane in famiglia a fare il perenne bamboccio o adolescente. Sembra ovvio, ma questa ovvietà è proprio quella che spaventa l’istituzione ecclesiastica che non parla mai del cristiano come adulto, non coltiva più di tanto la sua crescita nelle responsabilità e nella capacità critica. Anzi guarda con sospetto tale crescita.
Uscire di casa non significa necessariamente andarsene sbattendo la porta. Se voglio uscire di casa da adulto come probabilmente fu per Gesù, anch’io non sbatterò la porta. Uscire di casa per il credente maturo, significa innanzitutto essere inviato nel mondo, in mezzo all’umanità. Occorre prendere un po’ più sul serio ciò che sta scritto in Giovanni nel capitolo terzo: “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio suo”, non ha detto ha tanto amato la religione, non ha detto ha tanto amato la chiesa, ma ha detto “ha tanto amato il mondo da mandare …”.
Il cristiano adulto non ha nei suoi orizzonti la chiesa, neppure la chiesa da riformare, ma il mondo. Egli ha davanti ai propri occhi l’umanità, l’umanità in mezzo alla quale vivere l’evangelo. Il mandato ecclesiale ricevuto il giorno del suo battesimo è la consegna dell’evangelo, da vivere e annunciare all’interno della vita del mondo. La chiesa vive se c’è l’evangelo da testimoniare e se c’è l’eucaristia che la rigenera come corpo di Cristo offerto per la salvezza di tutti. Dunque il cristiano adulto non trascura, né aggredisce la propria chiesa madre, anzi la valorizza. Ne valorizza la fede da essa ricevuta. Ma questa fede la vive in mezzo al mondo, fuori casa e all’aria aperta. In una dimensione non più ecclesiocentrica, ma capace di una nuova e feconda fase dell’esistenza.
Proviamo a pensare a tutte le nostre tematiche ecclesiali, magari anche in prospettiva progressista: la chiesa e la società, la chiesa e il mondo, la chiesa e il lavoro, la chiesa e la pace, la chiesa e la politica, la chiesa e la modernità, la chiesa e la cultura, la chiesa e i giovani, la chiesa e la bioetica, ecc. La chiesa e …: tutto è visto a partire dalla chiesa. Ecco l’ecclesiocentrismo: sempre e solo la chiesa! Ora la denuncia di questa deriva non intende andare contro la chiesa. Non si tratta di opporsi alla chiesa, ma di conservare invece il vero patrimonio ricevuto da essa: l’evangelo per il mondo in cui viviamo.
L’orizzonte deve poter essere quello di una navigazione a mare aperto e non di una navigazione nel porticciolo. Non è neppure quella di una nave con due eliche, in cui una va da una parte e una dall’altra: allora la nave continua a girare su se stessa. Anche la chiesa può essere come una nave che gira sempre su se stessa, finché la pensiamo con l’elica dello Spirito e l’elica dell’istituzione, che girano in senso opposto. È proprio la contrapposizione tra Spirito e istituzione ciò che dobbiamo evitare.
Il cristiano adulto sa che la fede ricevuta dalla sua chiesa è come il talento da non conservare sotto terra, ma da trafficare nella piena e responsabile esistenza nel mondo e per il mondo. La sua maturità si esprimerà proprio nella capacità di comunione con la realtà ecclesiale da cui proviene e, nello stesso tempo, nella capacità di respirare a pieni polmoni la novità e libertà dello Spirito. Qui sta la maturità, qui sta l’essere adulto del discepolo di Gesù. La contestazione è dell’adolescente, non dell’adulto. L’accettazione acritica è del bambino e del soldatino, non dell’adulto.
Nella sequela del suo Signore il cristiano adulto è il discepolo, che si lascerà guidare dallo Spirito a servire il Regno di Dio, appassionandosi ai problemi del mondo e giocandosi in prima persona nell’affrontarli, lavorando fuori dalle clausure e non prigioniero di esse. Dai vangeli emerge che nel rapporto tra Gesù che annuncia il Regno e i suoi famigliari si crea comunque una qualche tensione. Ma tra le due parti che entrano in tensione, quale è quella che dell’altra pensa e afferma: “è fuori di sé”? Gesù non lo dice nei confronti della casa da cui proviene; è invece la sua realtà famigliare a dirlo di lui: vanno a prenderlo per portarlo a casa perché è fuori di sé (Cf Mc 3, 31-35).
Potrebbe avvenire qualcosa di analogo in un’eventuale tensione tra il confessionalismo di corto respiro delle chiese (confessionalismo ecclesiocentrico nel quale stanno regredendo un po’ tutte), da una parte, e, dall’altra, la dimensione ecumenica vissuta in riferimento all’unica chiesa di Gesù Cristo. La metafora dell’adulto che esce di casa vale soprattutto per il cristiano che, in continuità con la fede della sua chiesa, senza rompere i rapporti con essa, vive il senso della comunione della chiesa “una e santa”.
È il senso di una comunione che non è meno reale di quanto lo sono le singole chiese confessionali. Realmente esiste la chiesa di Gesù Cristo che è e resta una. Anche se essa è invisibile ai nostri occhi e anche se noi dobbiamo fare i conti nella storia con le tante chiese, la una et sancta esiste. Essa è indivisibile, perché indivisibile è il corpo di Cristo.
Se Gesù fosse rimasto a casa i famigliari non avrebbero reagito ritenendolo fuori di sé per il suo ministero. Ciò vale anche per noi se rimaniamo tranquilli, accovacciati nella cuccia a fare i cagnolini all’interno dell’istituzione religiosa. In questo caso certamente non nascono problemi. Il cristiano, finché non sceglie di essere adulto, non viene guardato con diffidenza.
Ma egli è chiamato a mettersi alla sequela non di Gesù bambino o adolescente nella casa di Nazareth, bensì di un rabbi itinerante. Itinerante perché uscito di casa. Itinerante fino a non avere dove posare il capo. Itinerante nel mondo, per le vie dove vive l’umanità. Itinerante nei luoghi della marginalità. E la realtà ecclesiale da cui proviene può, come i parenti di Gesù, non capirlo. Lo vorrebbe sempre dentro i muri del proprio ecclesiocentrismo. Ma il suo Signore lo chiama altrove. E lo Spirito è come il vento che soffia e lo sospinge a mare aperto.
Come Gesù non si turba per le incomprensioni da parte dei suoi di casa, così il cristiano adulto dovrà vivere la testimonianza dell’evangelo senza particolare turbamento per le incomprensioni della sua chiesa. Gesù non torna a casa per impegnarsi a convincere i suoi della bontà del suo ministero tra la gente e in particolare tra gli ultimi e i peccatori. Sarebbe tempo perso.
Ormai il tempo si è fatto breve. La parola del Signore anche oggi chiama a non seppellire i morti di casa, quelli della famiglia ecclesiastica. Chi è adatto per il Regno è destinato non alla chiesa, ma al mondo.
Gesù, che ha posto mano all’aratro nel terreno dell’umanità, non solo non torna indietro alle soglie di casa dei suoi, ma quando vanno a prenderlo per recuperarlo alla religione di casa, avvisato della loro presenza, risponde: “Chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli?” E allora indica la vera parentela della famiglia di Dio: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica, coloro che vivono l’evangelo, al di là della religione. Egli ha riconosciuto costoro nei poveri della terra, nei piccoli per i quali benedice il Padre che rivela loro ciò che rimane nascosto ai sapienti.
Nell’avventura della fede adulta, anche ecumenica, alla sequela del Signore, può capitare di vivere con la propria istituzione ecclesiastica una situazione analoga a quella che Gesù visse con l’istituzione famigliare e che dovette affrontare in termini radicali con l’istituzione religiosa dei suoi tempi, quella del Tempio di Gerusalemme. Non investe tempo ed energie nell’inutile tentativo di modificare l’istituzione religiosa di Gerusalemme. L’investimento perché sia fruttuoso è per altro. Infatti, “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24).
Vivere in prima persona e a proprio rischio tutto questo comporta quella coscienza così profondamente adulta che si deve poter esprimere nelle opzioni storiche, che la vita civile e sociale chiede a colui che vive non a riparo dal mondo, ma in mezzo alla problematica del mondo. Agirà allora come cittadino libero. Senza intruppamenti confessionali e senza esibizioni di identità. Senza rifugi in corporazioni religiose di pressione sociale per la visibilità cristiana nella vita culturale e civile. Senza etichette di organizzazioni cristiane o cattoliche.
Basta con i cristiani corpo separato, non per ragioni di culto a Dio, ma per obiettivi terreni! Ma quando finiranno tutte le forme para-civili, para-sociali, para-politiche? E le associazioni di categoria o di un laicato militante, le leghe e cooperative bianche, le settimane sociali dei cattolici, i centri culturali, le balene bianche, ecc.? A tutte queste realtà non si può negare storicamente una funzione positiva. Persino necessaria in certi contesti eccezionali dell’ultimo secolo e mezzo di storia, in particolare di storia italiana. Non si possono, dunque, misconoscere i contributi di grande intelligenza e importanza storica da essi prodotti.
Tuttavia si deve essere consapevoli che queste forme sono eredità di un plurisecolare ecclesiocentrismo connesso con la societas cristiana. Nella misura in cui la christianitas veniva frammentata o veniva meno, l’istituzione ecclesiale cercava, attraverso di esse, di procurarsi il braccio secolare per restaurare quello che era possibile recuperare in visibilità, potere, influenza nella società. Tutte le forme confessionali di questo braccio secolare sono appunto espressioni di un’inconscia nostalgia di christianitas. È di essa che si cerca di recuperare il recuperabile. Pertanto queste forme, esposte a una visione sostanzialmente integralista della presenza dei cristiani nel mondo, non dovrebbero più sussistere. Tanto meno sono auspicabili per il futuro.
Invece di ricorrere a tali forme, il cristiano adulto lavorerà per la giustizia, la terra, la pace. Lo farà secondo la coscienza cristiana, ma nelle sedi laiche della società, sulla base di un’etica che dovrà cercare di poter razionalmente condividere con altri. Dinanzi ai quesiti della storia, il credente non avrà sempre e comunque la pretesa di produrre e di esibire risposte etichettate come cristiane o dedotte dalla parola di Dio. Non si sottrarrà alla fatica della ricerca del bene comune e del dialogo con esponenti di altre visioni. Non si chiuderà attestandosi sulla base di principi non negoziabili, come invece continua ad avvenire nei ricorrenti integralismi e fondamentalismi che non mancano all’interno dell’istituzione religiosa.
La testimonianza del discepolo sarà quella di un modo di vivere, di uno stile di accoglienza che potrà avere la fecondità del lievito evangelico nella pasta della società. Ogni scelta legittima, se legata a criteri razionali e razionalmente argomentati, potrà essere assunta sotto la responsabilità personale di un discernimento spirituale ed etico in rapporto alla parola di Dio e all’analisi delle concrete situazioni della storia. Ma senza deduzioni fondamentaliste dalle Scritture e senza pretese che la risposta religiosa copra integralmente ogni problema della storia umana.
Esemplare, in questo senso, resta sempre la laicità dell’opzione di Bonoheffer5 a proposito della sua partecipazione all’attentato a Hitler. Se ne assume la responsabilità, a proprio rischio e pericolo, davanti a Dio e all’umanità. Egli non motiva la sua scelta come dedotta dalla parola di Dio o come l’unica giusta per la coscienza cristiana. Con la coscienza cristiana erano compatibili, ma mai deducibili, anche altre opzioni. Così su tante questioni della nostra storia terrena.
Ora questa libertà di potersi orientare responsabilmente nella storia anche con opzioni diverse è irrinunciabile per i discepoli dell’evangelo. Poche infatti sono le cose fondamentali e veramente essenziali, su cui sarebbe fuorviante per la coscienza cristiana dibattere liberamente. Infatti vale sempre l’adagio: In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas.
L’homo religiosus e la fede che non elude gli interrogativi più inquietanti dei non credenti
La dialettica tra l’evangelo di Gesù e la religione istituzionale, da una parte, e, dall’altra, il fatto che Gesù abbia mantenuto questa dialettica dentro e non contro la realtà della sua religione suggeriscono di ripensare l’universale esperienza religiosa. Quella che dobbiamo attribuire al cosiddetto homo religiosus che esiste in ogni essere umano. È infatti una dimensione costitutiva della creatura umana.
L’esperienza religiosa universale va collocata nell’economia della creazione, a cui arriva a condurci ultimamente il cammino di rivelazione dell’economia salvifica. In ogni creatura umana c’è il bisogno di essere liberati dalla morte incombente e dalla sua paura che condiziona la vita e inquina le relazioni. Dalla morte nessuna religione ci salva: Gesù afferma che solo Dio può salvare.
Ma il grido che invoca aiuto contro il rischio della morte accompagna ogni creatura dal giorno della sua nascita. È il pianto senza del quale nessun neonato apre gli occhi alla luce e i polmoni al respiro. C’è dunque una religiosità dell’adam che va scoperta in qualsiasi linguaggio religioso e non religioso, nei linguaggi in cui successivamente quel grido primordiale si viene articolando.
Per la fede cristiana il grido sulla croce del figlio dell’uomo e nuovo adam li riassume tutti. Gesù li raccoglie e li esprime per condurli attraverso la sua morte alla vita per sempre. Nato anch’egli come tutti nel grido, con il grido muore e così si apre al respiro della nuova vita. Il suo grido sulla croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34) esprime la fede che si lascia attraversare dagli interrogativi più radicali dell’esperienza umana.
La fede adulta dei discepoli del Signore dovrà saper ospitare tutti gli interrogativi che quel grido contiene. Dovrà lasciarsi interpellare dalle questioni inquietanti per la fede, dagli interrogativi che i non credenti formulano con drammatica radicalità. Invece i pii e ortodossi discorsi religiosi delle chiese restano inguaribilmente apologetici. Eludono le questioni più cruciali e radicali, confinandole nello spazio, tacciato come empio o eterodosso, di chi appunto non crede.
Solo i cosiddetti non credenti dovrebbero, ad esempio, chiedersi se quella che i credenti chiamano parola di Dio non è comunque parola di uomini? E poi domandarsi: al big bang iniziale della storia dell’universo c’era un Dio con il telecomando in mano o, intrinseca alla materia, c’era un’energia divinamente intelligente e potente nelle sue infinite potenzialità? Nella successiva evoluzione della storia dell’universo è Dio che ha creato l’uomo o è l’uomo che ha andato creando e affinando l’idea di Dio e del suo volto? E dopo la morte che cosa è realistico e che cosa è illusorio pensare di trovare?
Sono solo alcuni esempi dei molti interrogativi radicali, posti da chi non aderisce alle convinzioni della nostra fede e che un credente maturo non dovrebbe eludere o attribuire alla stoltezza di chi non crede. La fede adulta si lascia interpellare e persino mettere in crisi. Il vero volto di Dio, del Dio di Gesù Cristo è così diverso da come lo immaginiamo sulla base dei nostri puntelli religiosi e delle proiezioni dei nostri bisogni, che la loro messa in discussione, anche se apparentemente pericolosa, non può che giovare alla crescita della fede.
È proprio in questa crisi della fede che si determina il kairòs perché i credenti adulti possano accogliere e vivere l’esigenza evangelica di diventare come bambini per entrare nella prospettiva del regno di Dio. L’evangelo non chiede di restare bambini, ma, chiede a chi è adulto di farsi come i bambini. Chiede di farsi piccoli, nel senso di credere fidandosi con fiducia totale e gratuita della sua parola e affidandosi a Dio. Come il bambino che si fida della mamma che gli insegna a parlare e a camminare e ad essa si affida.
In ogni caso è importante per il discepolo del Signore scoprire che il punto culminante, a cui conduce il cammino di sequela nella novità dell’evangelo, non si identifica con il massimo di differenziazione della propria specifica identità cristiana rispetto a quella degli altri esseri umani, ma, al contrario, con la pienezza di condivisione della comune umanità.
Sta forse qui il senso stesso dell’ambivalenza del titolo di “figlio dell’uomo” che Gesù nei vangeli risulta essersi attribuito. Egli Figlio di Dio fatto carne, secondo la nostra fede, è figlio dell’uomo: sia in quanto uomo in mezzo a tutti gli altri esseri umani, sia in quanto figura celeste che verrà alla fine dei tempi, con il volto dell’uomo nuovo, a giudicare la qualità umana della nostra esistenza terrena. Il suo evangelo ci insegna che sarà l’umanità del samaritano, non la religione del sacerdote e del levita, a dimostrare di avere avuto nelle proprie viscere la stessa compassione di Gesù Cristo.
La forma eucaristica della chiesa in liberi stili di vita e responsabili itinerari sinodali
Adulto, per il cristiano, non è sinonimo di individualista, se vive il senso ecclesiale nel mistero di comunione della chiesa di Gesù Cristo. La sua prospettiva non può che essere quella della fraternità vissuta nell’esperienza comunitaria e in quella sinodale.
La chiesa ha al suo centro l’eucaristia. Da questa scaturisce la sinodalità ovvero il “camminare insieme” di fratelli e sorelle che hanno condiviso la mensa del Signore e che, per coerenza con essa, cercano in modo sinodale come farsi testimoni dell’evangelo del Regno di fronte alle concrete situazioni della vita e della storia.
Stretta è la connessione tra eucaristia e sinodo. Sinodo infatti non si riferiva anticamente solo a una forma di governo della comunità ecclesiale, governo che oggi è solo consultivo nel diritto canonico della chiesa cattolica romana. Si riferiva al senso stesso dell’assemblea liturgica e del suo prolungarsi per cercare soluzioni e risposte condivise ai problemi della vita e della storia che la comunità cristiana doveva affrontare.
Anche oggi ci si deve sempre domandare: come prolungare, nell’esistenza feriale e all’interno della storia del mondo, ciò che la sinassi domenicale crea in noi, rigenerandoci dall’alto? Quali stili di vita personale e comunitaria possono essere coerenti con l’ospitalità del Signore, testimoniata dall’evangelo e ripresentata nell’eucaristia e nei sacramenti?
Come realmente “camminare insieme” alla ricerca dei modi con cui gli uomini e le donne di oggi possano incontrare l’evangelo, che per le istituzioni religiose è non solo difficile, ma forse impossibile incarnare? Ma che, grazie a Dio, l’evangelo sia sempre possibile, a livello sia personale sia comunitario, ce lo confermano le testimonianze dei nostri recenti profeti.
Ora non tocca a noi inverare come profezia quello che essi hanno anticipato con le loro singolari e luminose testimonianze? La loro risulterà profezia nella misura in cui trova un fecondo riscontro in chi viene dopo di loro. Da quella semina noi dobbiamo far nascere una rete di coscienze libere e adulte. Ai margini delle istituzioni religiose, ma nel cuore dell’evangelo.
Urge infatti ripresentare alle donne e agli uomini di oggi l’ospitalità di Gesù, quella secondo l’evangelo, messaggio che attualmente continua ad essere loro offuscato, per non dire sottratto. Urge allora che cristiani adulti sappiano “camminare insieme”, in modo sinodale e responsabile – e pertanto non sommerso – per cercare un linguaggio e stili di vita trasparenti all’ospitalità evangelica. Senza complessi né di superiorità né di inferiorità nei confronti di chicchessia.
A me pare che per questa via noi siamo chiamati ad essere responsabilmente fedeli all’evangelo nel vivere il senso di una chiesa eucaristica. Ora, al riparo da logiche identitarie di visibilità e da istituzionali progetti di riconquista culturale e di influenza sociale, possiamo imparare insieme ad ascoltare, sull’esempio del Signore, il cuore umano e di scoprirvi con stupore ciò che lo Spirito continua straordinariamente a far vivere.
In particolare, in tempi di crisi come gli attuali, la ricerca sinodale nell’ottica di un cristianesimo adulto dovrà farsi carico del disagio di molti di fronte alla problematicità della fede e degli scandali civili ed ecclesiali. In questo senso le due iniziative (di cui avete materiale in cartelletta) de Il vangelo che abbiamo ricevuto e del Laboratorio di Sinodalità Laicale non sono forme di comunicazione dentro o contro la realtà ecclesiale. Esse invece intendono rivolgersi a chi ne è fuori o vi uscirebbe.
È infatti il tentativo di fare arrivare una parola evangelica a quanti sono scandalizzati di non sentirla dalla propria chiesa, la quale appare sempre essere in altre faccende affaccendata. Ed è importante che la parola dell’evangelo giunga non come iniziativa di una singola persona, ma abbia l’autorevolezza che le deriva da un cammino e da una verifica condotti da un “laboratorio” locale o da una assise nazionale in cui si siano confrontati, in reciproco ascolto, persone o gruppi tra loro sufficientemente diversi.
In conclusione Concludo queste riflessioni affermando la convinzione che, a perseguire questo obiettivo di cristiani adulti, sarà di fatto una minoranza. Una minoranza marginale ma qualificata, costituita da piccole comunità o da modesti cammini sinodali. Sarebbe importante che si potesse configurare un minimo di rete di collegamento tra queste esperienze marginali, comunitarie o sinodali, per un fraterno scambio e un reciproco sostegno a vivere una fede matura e a non soccombere a logiche non evangeliche. Infatti istituzioni religiose e politiche continueranno a tentare di omologare o eliminare differenze scomode.
Continueranno ad allettare con proposte serie e convincenti, ma funzionali a logiche non esattamente evangeliche. Cercheranno di camuffare la crisi con mezzi mondani, teatralità dell’immagine, efficacia di crociate, promozione di superstizioni popolari, reciproci favori.
Alla “religione civile” e a forme ad essa connesse è assai difficile, forse impossibile, che istituzioni sia politiche sia religiose sappiano rinunciare. Per questo è necessario che, in nome dell’evangelo, l’alternativa non sia né lo “scisma sommerso”, né l’inconcludente contestazione, ma il discepolato secondo l’evangelo, quello appunto di un “cristianesimo adulto”.
In questa ottica muta radicalmente la prospettiva con cui guardare gli attuali tempi di crisi. Sono solo provvidenziali, motivo di speranza, una grande opportunità, un vero e proprio kairòs di Dio per la crescita dell’evangelo nel mondo. Non tanto come strategia pastorale per una nuova evangelizzazione, quanto come stupita scoperta della novità che lo Spirito ha già suscitato nel mondo e nel cuore degli esseri umani. Martini diceva: “Lo Spirito c’ è, anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’ è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro.
C’è e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva anche là dove mai avremmo immaginato” (Tre racconti dello Spirito). Non è a questo che ci apre la mente e il cuore la parola di Dio attraverso la voce del profeta: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).
* Gianfranco Bottoni è presbitero della Chiesa ambrosiana, ha dato vita al Gruppo interconfessionale Teshuvà e al Centro ecumenico europeo per la pace. Collaboratore degli arcivescovi cardinali Martini e Tettamanzi per le relazioni ecumeniche e interreligiose, ha diretto come responsabile l’ufficio Ecumenismo e dialogo dell’Arcidiocesi di Milano. È stato tra i fondatori e promotori e presidente del Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano e del Forum delle Religioni a Milano.