Identità transgender e depressione, il coraggio di raccontarlo
Riflessioni di Brett Stadtlander pubblicate sul sito Believe Out Loud (Stati Uniti), liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
Ho assistito alle recenti morti per suicidio di donne e uomini transgender, ma perlopiù me ne sono rimasto in silenzio. Vorrei poter dire che ho avuto ottime ragioni per farlo, ma in realtà avevo troppa paura per dire qualcosa. Vedete, per anni sono entrato e uscito dal nascondiglio, ma non parlo del nascondiglio queer: da quello sono fuori da un bel po’ di tempo e penso, grazie a Dio, di poter dire che quella porta è ben serrata.
Ma la porta del mio nascondiglio di depressione e ansia continua di tanto in tanto ad aprirsi, più di quanto non vorrei.
Voglio dire, vivo con depressione e ansia, ma non sempre ho voglia di parlare in modo chiaro di questa realtà, perciò, in un periodo come questo, non riesco a dire molto, perché ho paura che, se lo facessi, la gente capirebbe che non sono diverso da Leelah Alcorn e dalle molte persone come lei.
Me ne sono stato zitto perché ho paura che ammettere che so cosa vuol dire l’ansia, che so cosa vuol dire passare un’intera giornata a letto, mi renderà così ansioso che mi ammalerò, oppure piangerò senza nessuna ragione, oppure ancora scriverò una lettera d’addio.
Me ne sono stato zitto perché ho paura di quello che la gente può pensare quando saprà (come se non lo sapesse già) che la mia transizione (la mia vita) non è stata rose e fiori. Ho paura che dire qualcosina sulla mia salute mentale possa in qualche modo macchiare la mia identità transgender.
Dato che la mia vita dopo la transizione non è stata certo gloriosa, ho paura che la gente cominci a dirsi che, forse, la transizione non è stata una buona idea.
Infatti la mia transizione è stata qualcosa di meglio di una buona idea: è stata l’idea perfetta del Creatore, eppure, anche dopo il viaggio che mi ha portato ad essere l’uomo che sono, depressione e ansia rimangono. Il ruolo che svolgono è certamente cambiato dal tempo della mia transizione: non sono più così gravi. Non vivo più quelle ansie sociali che erano quasi debilitanti, e la mia depressione non è più, nemmeno lontanamente, così terribile; non riesco nemmeno a ricordare quand’è stata l’ultima volta in cui ho avvertito il mio corpo così pesante da non riuscire a fare alcunché.
Depressione e ansia non decidono più della mia vita, eppure sono lì, appena al di sotto della superficie, e sono parte di me tanto quanto l’identità transgender. È impossibile per me dire quanto della mia salute mentale dipenda dal mio essere un uomo transgender in un mondo che non mi vuole, e quanto abbia semplicemente a che fare con le sostanze chimiche che circolano nel mio cervello.
Ma ad essere sincero, non credo conti molto sapere il perché.
Ciò che conta è che è parte di me, allo stesso modo dei capelli sul mio capo o delle cicatrici sul mio petto. Ciò che conta è sapere che le nostre chiese sono piene di gente che ha paura di ammettere che ogni tanto piange senza sapere il perché.
Ciò che conta è che abbiamo dei pastori che devono curare tre congregazioni nei giorni in cui non riescono nemmeno ad alzarsi dal letto, e non si sentono di parlarne con nessuno. È una parte di loro, e questo significa che, come il Corpo di Cristo, essa è una parte di noi, è parte della nostra identità, che si trovi nel nostro cervello o meno.
Dobbiamo cominciare a prendere sul serio tutto questo, a prendere sul serio la nostra esistenza come unico Corpo. Dobbiamo buttarci a capofitto in una discussione sincera, anche se può sembrarci di stare camminando dritti dritti verso un abisso spaventoso, perché solo allora il coraggio regnerà supremo sull’oscurità che molti di noi cercano di nascondere.
Le discussioni sincere mi hanno salvato la vita più di una volta, in più di un senso.
Sono certo che sia stata la stessa cosa per altri membri del nostro Corpo, per questo poniamo il nostro sé nudo nelle mani della nostra comunità, e le chiediamo di maneggiarci con cura. Poniamo i nostro palmi aperti con parole incoraggianti e confortanti e promettiamo di donare noi stessi così come siamo e di ricevere le vite degli altri con grande cura e compassione.
Perché noi, la Chiesa, saremo un luogo protetto solo quando ammetteremo che Leelah (in quanto persona transgender, e in quanto persona che probabilmente lottava con la depressione) non è un’eccezione radicale alla regola delle nostre comunità, ma è una di noi, proprio come molti e molte di noi, amata da Dio come tutti e tutte noi, degna di tutto l’amore e la forza che noi possiamo dare al nostro prossimo.
Testo originale: Opening Doors: The Closet of Depression