Il diritto di creare una famiglia omosessuale
Articolo del 2 ottobre 2012 di Valentina Ciaramella pubblicato su Zeroviolenzadonne
“Le persone dello stesso sesso conviventi in stabile relazione di fatto sono titolari del diritto alla “vita familiare”: così recita la sentenza nr. 4184 del 15 marzo 2012 emessa dalla 1 sezione civile della Corte di Cassazione.
Immagino un giorno ideale, uno di quei giorni in cui nulla ci sarà più da dire o da meravigliarsi nel vedere una coppia dello stesso sesso, o, magari, nella migliore delle aspettative, una coppia gay con figli al seguito.
Quello stesso giorno l’unica vera distinzione sarà l’essenza di ciascun essere umano. Ma per ora non è così. Ed è in questa realtà di mezzi diritti e di tanta paura che si è inserita la sentenza della Cassazione appena menzionata.
In tema di diritti civili, ed in particolare di diritti propri delle relazioni omosessuali, in Italia non possiamo certo dirci all’avanguardia. La suindicata sentenza della Corte di Cassazione ha espressamente sancito che un matrimonio contratto da una coppia gay all’estero non possa considerarsi produttivo di effetti all’interno del nostro ordinamento a causa dell’inesistenza di una legislazione che consenta le nozze alle coppie omosessuali. Al contempo però ha parimenti riconosciuto che detto matrimonio non può ritenersi “inesistente”.
In sostanza, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che, seppur intrascrivibile, in Italia, un matrimonio omosessuale contratto all’estero può produrre effetti giuridici, dovendosi ritenere i partners titolari del diritto alla vita familiare. Ciò è stato fatto discendere direttamente dall’art. 2 della Costituzione sul presupposto che sia inviolabile il diritto di vivere una libera condizione di coppia.
Se, da una parte, ritengo che vi sia ancora una grande carenza dal lato pratico applicativo, dall’altra, credo anche che i piccoli cambiamenti debbano sempre essere accolti con favore.
Vi sono, in sostanza, una serie di carenze e di diritti affievoliti, se non addirittura negati, che accomunano tanto le coppie omosessuali, quanto le coppie di fatto eterosessuali.
In Italia, infatti, tutte le unioni di fatto, ancor più se omosessuali, non sono né riconosciute né regolamentate e, l’unica possibilità di ottenere un minimo riconoscimento è, ad oggi, la possibilità di iscrizione, per le famiglie di fatto, nelle anagrafi della popolazione residente come convivenza anagrafica. In sostanza, vi è una legge che consente che presso gli uffici dell’anagrafe vengano istituiti dei registri che raccolgano in ordine numerico progressivo le iscrizioni delle convivenze. In pratica però tutti sappiamo che solo in poche città ciò è di fatto possibile.
Questa dichiarazione resa presso l’anagrafe si fonda su una caratterizzazione di convivenza regolata da alcuni principi base tra cui: comunità di vita tra due persone nel medesimo luogo, la stabilità temporale, l’assenza del vincolo formale del matrimonio, equilibrio affettivo e patrimoniale tale da presupporre una comunanza di vita.
Per risolvere le problematiche di ordine strettamente patrimoniale, invece, è possibile stipulare dei veri e propri contratti, cd “contratti di convivenza”, che garantiscono in caso di “separazione” una agevole soluzione delle principali questioni economiche. Si tratta, precisamente, di intese di contenuto patrimoniale al fine di regolare i rapporti dei conviventi (diritto di abitazione, obbligo di corresponsione di una somma mensile etc.), sottoponendo a regole prefissate la soluzione degli eventuali futuri problemi economici.
Possono stipulare il contratto le coppie di non coniugati che abbiano intenzione di intraprendere un rapporto stabile e duraturo di convivenza. Le cose cambiano radicalmente se vi sono figli nati durante la relazione e riconosciuti da entrambi i partner.
In presenza di figli minori, infatti, in caso di cessazione della convivenza, il coniuge che rimane con il figlio minore, nato durante la convivenza e riconosciuto da entrambi, rimane nella casa, anche se la casa è di proprietà esclusiva dell’altro convivente. Questo avviene per la tutela della prole. Quindi la mancata celebrazione del matrimonio non incide sui diritti spettanti ai figli nati dai genitori non coniugati i quali, per espressa disposizione di legge, sono equiparati ai figli nati da coppie coniugate.
Un altro aspetto molto sentito riguarda i diritti ereditari. Su questo punto è opportuno precisare che non vi è alcuna norma che attribuisca diritti ereditari in favore del convivente superstite, pertanto, i conviventi, in assenza di una legge specifica che tuteli il convivente per il tempo in cui il partner abbia cessato di vivere, devono necessariamente ricorrere alla redazione di un testamento che possa garantire il rispetto delle volontà a prescindere dalle pretese di parenti o terze persone.
Per legge, infatti, in assenza di un testamento, al convivente non spetta nulla. Il testamento è un atto sempre revocabile e se ne posso redigere infiniti durante la vita nel caso in cui si cambi idea o partner.
Ragionando alla luce di quanto sin qui detto, i rapporti di convivenza, che siano qualificabili come “unioni civili” o coppie di fatto” tutt’ora non ricevono una completa e degna tutela normativa, nonostante siano stati compiuti notevoli passi avanti che hanno portato ad una considerazione maggiore di una coppia che nella propria autonomia decide di convivere senza chiedere che lo Stato apponga un qualsivoglia sigillo su tale unione.
Il problema vero, a parere mio, resta quello di garantire, effettivamente, ai singoli cittadini di poter effettuare una scelta libera ed autonoma al riparo da condizionamenti giuridici, sociali, discriminatori e politici.
L’Italia è miseramente indietro rispetto a moltissimi altri paesi nel riconoscimento delle parità dei diritti, nei principi sacrosanti di uguaglianza, nell’abolizione delle discriminazioni di qualsiasi genere, e tutto questo è innegabilmente frutto della nostra storia politica.
Non oso immaginare, infatti, cosa mai potrebbe accadere se si chiedesse oggi al nostro legislatore di affrontare una volta per tutte, ed in maniera risolutiva, il tema della omogenitorialità o del doppio pregiudizio che subiscono le donne lesbiche, perché donne e perché lesbiche. Ma tant’è, questa è la storia dell’Italia, che è irrimediabilmente figlia del fascismo.
Credo che l’unica parola vera a cui bisogna dare un senso è “libertà”, e che tutti noi dobbiamo sentirci liberi di essere e di volere. Credo ancora che nella libertà si racchiuda l’essenza di un mondo civile.
È sulla società che bisogna intervenire. Solo quando nessuno vedrà più le differenze, quelle differenze non ci saranno più. Il nostro ordinamento in realtà non dice da nessuna parte che parità e diritti sono garantiti a coppie formate da un uomo ed una donna, ed infatti, tecnicamente, noi oggi avremmo già in mano uno strumento idoneo a garantire quella parità. Invece ci accaniamo a trovare limiti, e divieti arcaici, secondo i quali lo standard di famiglia è uno, ed uno solo.
Crescere nel riconoscimento e nel rispetto delle diversità formerà persone migliori, più aperte al dialogo, più disposte ad accettare che il proprio standard non è né l’unico possibile, né tantomeno l’unico giusto. Alla base di tutti i problemi credo vi sia, da sempre, un “pregiudizio maschilista” proprio della nostra società.
Una coppia di uomini gay o una coppia lesbica, infatti, rompono il modello. In sostanza, laddove in un contesto familiare non si possa riconoscere un uomo che gestisce e, soprattutto, mantiene la famiglia, laddove non si riconosce un uomo economicamente “padrone” della società, e accanto, una donna che gli consenta di essere quel padrone, lì vengono minate alla base le certezza di una società da sempre patriarcale.