Il dono della tenerezza
Riflessioni di Luigi Testa*
In un tempo dai ritmi accelerati, qualche giorno in più del tempo di Natale – che quest’anno termina domenica 12 gennaio – è un dono di tenerezza.
Possiamo ancora gustarlo, ancora fermarci, ancora tornare. Forse con più calma di quanto non abbiamo potuto fare tra le nostre concitate feste. Forse con meno folla di quanta ne avremmo trovata nei giorni che son trascorsi.
Per il ruolo che aveva l’ospitalità in quel mondo, ed anche per i parenti che Giuseppe deve avere avuto a Betlemme, sua città di origine (Lc 2,4), è facile credere che la sistemazione di fortuna in cui Maria diede alla luce il figlio «perché non c’era posto per loro nell’alloggio» (Lc 2,7) sia stata solo temporanea.
Dopo qualche giorno, i tre probabilmente trovano ospitalità presso qualche famiglia generosa. Il che non ne diminuì certamente i disagi, se si pensa alle abitazioni e alle condizioni di vita che ci potevano essere in quel contesto a Betlemme.
Siamo abituati a fissare lo sguardo su la notte di Betlemme, quella del parto, quella dell’annuncio degli angeli e della visita ai pastori. Ma, per grazia, ci è data quest’anno la possibilità di addentrarci e sostare un po’ di più nella intimità e nella familiarità dei giorni successivi.
Quelli in cui lo stupore di Maria divenne calma contemplazione. Quelli in cui la meraviglia di Giuseppe divenne sguardo di responsabilità e sogni di futuro. Quelli in cui forse qualche pastore ancora tornò, incuriosito dal racconto dei compagni, per portare latte, formaggio, lana.
Quelli in cui i pochi abitanti di Betlemme – vincendo il caos degli stranieri che arrivavano per il censimento – andavano un po’ alla volta a conoscere questo bambino che era nato. Magari anche qualcuno di quelli che Giuseppe l’avevano già visto, chissà quanti anni prima, quando da piccolo tornava nella città dei suoi parenti. «Giuseppe, quanto sei cresciuto! – Questa è Maria, bellissima – E come è bello questo bambino. Ti somiglia!».
E poi c’è la famiglia che li ospita in casa, dopo i primi giorni nella stalla. Probabilmente quella famiglia non saprà mai quale mistero ha ospitato e custodito.
Anche noi, un giorno, vedremo con chiarezza quante volte Lui è passato, e noi non ce ne siamo accorti; in quante sere è venuto a visitarci, e noi non L’abbiamo riconosciuto; quante volte L’abbiamo ospitato, e non sapevamo che fosse Lui.
Forse, possiamo essere parte di quella famiglia, in questa estensione del tempo di Natale che ci è donato quest’anno – prima grazia giubilare? –, mentre sulle cose scende piano la calma e si smaltisce ormai la confusione che c’è, nei primi giorni, nelle case in cui nasce un bambino.
In fondo, Gesù è nato davvero nella nostra casa, come ci suggeriscono i presepi che possiamo anche scegliere di lasciare lì dove sono ancora per qualche giorno, senza fretta.
Come i bambini che tornano a quel presepe per guardarlo di nuovo quando gli altri sono nell’altra stanza, così noi possiamo essere il figlio più piccolo della famiglia che ospita Maria, Giuseppe e il bambino.
Quando arriverà la sera e gli altri cominceranno a dormire, noi, piano piano, in punta di piedi, per non svegliare nessuno, potremo avvicinarci a quella mamma che tiene tra le braccia Gesù.
Lei si sveglierà, ci guarderà, sorriderà, mentre noi guardiamo incantati il bambino, così piccolo, che fa le sue smorfie mentre dorme, dopo aver preso il latte dalla mamma.
E ad un certo punto, mentre noi stiamo fermi a guardarlo incuriositi ma senza sapere che fare, lei si muove come a mettersi seduta, appoggiata ad una parete.
Ci chiede con gli occhi di avvicinarci, e, mentre vediamo le sue braccia che piano si muovono verso di noi, capiamo che ci sta dicendo di prendere in braccio il neonato.
La prima sensazione è quella della paura, vorremmo dire di no, «e se non lo so tenere?», ma gli istanti sono rapidissimi, e non ce la facciamo a tirarci indietro.
Il bambino è tra le nostre braccia impacciate, mentre siamo tutti ingessati, tranne il cuore, che sentiamo battere più forte. Sentiamo il suo odore di neonato – odore di latte. Sentiamo il calore del suo respiro, cucciolo di uomo. Guardiamo i suoi pugnetti chiusi. La pelle della fronte che si corruccia in una smorfia nel sonno.
Se questo Natale, di sera, di nascosto, mentre tutti gli altri dormono, non abbiamo preso quel bambino in braccio – non ne abbiamo sentito l’odore, il calore, il peso – è questo ancora il tempo di farlo. Nel cuore di Dio non ci sono ritardi: è sempre Natale.
* Luigi Testa è autore di testi a carattere giuridico e scrive su alcuni quotidiani nazionali. “Via crucis di un ragazzo gay” (Castelvecchi, 2024) è il suo primo libro di natura spirituale, altre sue riflessioni sono pubblicate anche su Gionata.org