“Il Genere di Dio”. La Chiesa e la teologia alla prova del gender
Riflessioni di Giusi del gruppo Kairos di Firenze
Scrivere e parlare di “gender” rischia la banalizzazione dell’argomento. Un rischio che negli ultimi anni è divenuto realtà perché tale soggetto è stato a lungo inflazionato e soprattutto sovra ideologizzato per difendere ben determinate visioni del mondo. In particolare della Chiesa Cattolica. Solo dopo l’approvazione della legge sulle “unioni civili” i toni si sono, almeno in parte, smorzati.
L’intervento della teologa Selene Zorzi (Il genere di Dio. La Chiesa e la teologia alla prova del gender, la meridiana, 2017), a Livorno, domenica 15 aprile 2018, in un incontro organizzato con coraggio in una parrocchia dall’Agedo della città (insieme all’Arcigay e a Kairos), è stato volto a dare una chiarificazione scientifica e, allo stesso tempo, divulgativa del tema in questione.
La stessa Zorzi, citando Damiano Migliorini, ha affermato come “l’espressione ‘ideologia del gender’ sia stata inventata e usata, nel modo e nei toni in cui è intesa oggi con l’intento di etichettare, distorcendolo, quanto prodotto nel campo degli studi di genere e poterlo in tal modo delegittimare“*.
Nel corso del suo intervento Selene ha fornito diverse accezioni del termine “gender” (traducibile con “genere” in italiano), ma soprattutto sottolineato la differenza con il termine “sesso”, questo indicherebbe le caratteristiche biologiche che una persona ha dalla nascita, mentre “genere” denoterebbe le caratteristiche sociali attribuite in quanto maschio e femmina. Il genere sarebbe quindi “una realtà complementare al corpo biologico che si ‘sovrappone’ a esso mediante le norme sociali e la conformazione psichica del soggetto“**.
Soprattutto gli “stereotipi” culturali generano e costituiscono il genere (all’uomo sarebbero concessi numerosi ruoli sociali alla donna preclusi). Stereotipi introiettati come modelli comportamentali fin dalla nascita, e perciò difficilmente superabili. Essi si rifanno a un ben preciso costrutto eteronormativo, patriarcale e maschilista storicamente formatosi, che sul piano linguistico vede l’assolutizzazione del maschile che diventa di conseguenza un universale neutro, come sottolineato dall’altra teologa Serena Noceti in un differente incontro alcune settimane fa. Tale assolutizzazione vede la marginalizzazione, nonché denigrazione, di tutto ciò che non rientra nel modello di riferimento, innanzitutto la donna, come minoranza maggioritaria, e poi ogni diversità, come ad esempio l’omosessualità.
La Zorzi ha ribadito con forza come parlare di gender non significhi omologare tutti gli esseri umani, ma, nel rispetto di ogni differenza sessuale e di orientamento, abbattere quegli stereotipi, di cui sopra, che impediscono la libera espressione umana.
Come questo possa avvenire non è di facile soluzione. È chiaro che negli ultimi anni sono stati fatti passi in avanti. Molto timidi anche in ambito ecclesiale, che si deve confrontare con una realtà non statica.
Il primo passo è riconoscere pari opportunità realizzative (umane, comportamentali e professionali) alle categorie disagiate dal modello predominante. Probabilmente solo dopo sarà possibile riformare anche il linguaggio, relativizzando l’uso del maschile. A mio giudizio si tratta di un compito che deve investire sia uomini che donne, perché non di rado sono anche queste ultime a reiterare il paradigma “maschilista”.
* Damiano Migliorini, “Gender, Filosofie, Teologie. La complessità contro ogni ideologia”; Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2017; pag.22.
** Ivi, pag.33.