Il mio incontro con la fede e le vite delle persone transgender
Testimonianza di Alessandra Maria Starace, volontaria del Progetto Gionata
Ci sono esperienze che, come si dice, ti restano dentro e, dopo , “lavorano”. Recentemente io ne ho fatta una, di queste esperienze. A Torvaianica (Roma), nella parrocchia di Don Andrea Conocchia, dove mi sono fermata per una tappa di tre giorni mentre rientravo dalle mie vacanze natalizie.
Quest’anno le vacanze le ho trascorse a Napoli, la mia città, con famiglia, parenti e amici. Siamo stati ovunque e io ho rivissuto da turista lo sfolgorio del tesoro di San Gennaro e gli odori inconfondibili della carta dei libri di Port’Alba, senza però trascurare le attrazioni più moderne: una su tutte, la Città della Scienza con il suo Planetario ultratecnologico, dove abbiamo assistito a uno spettacolo in cui sonde spaziali sempre più ricercate esplorano mondi lontani, misteriosi e sconosciuti. Affascinante.
Qualche giorno dopo, rientrata nella mia routine quotidiana, non ho però potuto fare a meno di constatare che il mondo sconosciuto mi vive accanto, e che troppo spesso io neanche me ne accorgo.
Il mondo sconosciuto di cui parlo è quello delle ragazze che Don Andrea Conocchia segue con continuità da quando è iniziata la pandemia.
Sono persone trans che vivono accanto a noi ma lontano da noi, ai margini di una società che tira dritto apparentemente indifferente al fatto che la Fede si ancora profondamente nell’anima di chi si prostituisce per mangiare e avere sulla testa il tetto sgangherato di una baracca sotto cui andare a dormire. Per sopravvivere di stenti.
Il cielo sul mare di Torvaianica, la sera, è un ventaglio di colori che virano dal giallo al violetto fino al rosso fuoco che si spegne nel blu delle prime stelle che si accendono; sembra il palcoscenico di un teatro che ospita un dramma d’altri tempi.
Su questo palcoscenico io ho conosciuto Florencia, Marcela, Marcela G, Minerva, Jessica, Cochi, Consuelo. Sono uniche ognuna a modo suo, ma tutte accomunate dallo stesso straordinario dono di non trascurare il rapporto costruito con Dio nonostante le porte della Chiesa sbattute in faccia prima, durante e dopo la loro transizione. Nonostante l’emarginazione, la derisione e le violenze reiterate.
Eppure loro, a Dio, le porte in faccia non gliel’hanno sbattute; ci sono cresciute insieme e con lui sono
rimaste.
«Vengo da Salta, al confine con la Bolivia» racconta Florencia, «Sono cresciuta in una famiglia cattolica molto osservante, ma solo ora mi rendo conto che quel modo di seguire la fede era meccanico, attaccato ai rituali e basta».
Qualcuna di loro ha doni inaspettati e ce ne si rende conto non appena parla: «Partecipavo al gruppo parrocchiale e cantavo nel coro della Chiesa,» svela con una voce di cristallo Minerva che viene dal Perù «ma nascondevo le mie tendenze, perché sapevo che nessuno le avrebbe accettate».
Marcela ha una conversazione brillante, la ascolteresti per ore, mentre ti spiega quanto ha perso per non dover rinunciare a sé stessa: «Ero figlia unica. A casa non mi mancava nulla: ricordo il Natale e i bei regali che ricevevo. Mi piaceva studiare, pensa che a quarant’anni di distanza, al telefono, mi sento ancora con la mia maestra della scuola elementare» racconta sorridendo.
«Quando, a undici anni, ho detto quello che sentivo di essere al sacerdote della parrocchia della chiesa di Montevideo in Uruguay, sono stata immediatamente rifiutata, come se non fossi più la persona che ero un attimo prima».
Jessica non ha un’infanzia facile alle spalle, la povertà ha condizionato tante delle sue scelte: «Vengo dalla provincia di Bogotà, la capitale della Colombia» mi racconta con tanta commozione nella voce. «Siamo sempre stati cattolici in famiglia, ma le risorse erano poche e, dopo la scuola, raccoglievo qualche rifiuto, come vecchi piatti, lo pulivo per rivenderlo a chi si poteva permettere di comprarlo. Lo facevo per portare a casa qualcosa da mangiare.
Poi, quando mi sono fatta più grande, qualcuno mi ha svelato che c’era un modo più sicuro per mantenere la mamma e le sorelle, qualcosa che rendeva di più. La mia famiglia mi ha sempre accettato e io ero e sono legata a loro, anche se questo mi fa soffrire».
Cochi, che viene dal Perù, la incontro insieme a suo marito Antonio. Si sono conosciuti negli anni ’90, quando Antonio veniva a vedere le partite del Napoli all’Olimpico e lei lavorava come parrucchiera a Roma.
«Vengo da una famiglia cattolica, talmente osservante che quando si sono accorti del fatto che ero una persona trans, mi hanno cacciata di casa. Avevo 13 anni» racconta, sbuffa e ridacchia mentre lo dice. Cochi è corpulenta e rassicurante nei modi, mi ricorda una zia di Vico Equense da cui andavo in estate quando ero bambina; poi Cochi comincia a snocciolarmi ricette di cucina sia in italiano che in peruviano e mi convinco sempre di più che la somiglianza è impressionante.
Cochi la strada non l’ha conosciuta, ma non per questo dimentica che il mondo oltre i margini esiste: «La domenica cucino per tutte le ragazze che vengono a mangiare da noi».Poi comincia a parlare di ravioli, gnocchi e pannocchie, e se io non fossi intollerante alla maggior parte degli ingredienti che nomina, mi autoinviterei a cena.
Marcela Guerra è una combattente e si vede; la conosco e mi piace questa sua sicurezza nel parlare, ma più ancora mi accorgo della raffinatezza del suo pensiero: «Quando andavo a scuola, da piccola, giocavo con le bambole. La supplente della mia maestra mi diceva che non potevo farlo, che quelli erano giochi da femmina. Da lì è iniziata la mia ribellione: ho cominciato a non giocare più con niente, se non potevo essere me stessa era inutile che recitassi per far contenti gli altri» e mentre lo dice mi ricordo di tutte le volte che io ho finto per accontentare mamma, papà e maestre.
Starei ore ad ascoltare queste ragazze, il loro modo di condurre una vita consapevole ma rassegnata al verso in cui gira il mondo.
Florencia è davvero bella, sia nell’aspetto che nei modi: ti porge le cose che ha da dire con garbata
sicurezza: «Cercavo l’amore di una persona. Ora non lo cerco più; ora è solo un commercio, uno scambio». Il disincanto con cui lo dice produce in me due fiotti: uno di rabbia, l’altro di ammirazione. «Gli uomini che vengono da me cercano non solo rapporti sessuali, ma anche certezze che io non posso dare, conferme sulla loro identità, sul fatto che spesso si nascondono e non vivono la vita che vorrebbero. Come posso io risolvere i loro problemi? Io ne ho tanti di problemi, ma almeno so chi sono e non vivo di bugie».
Mi viene da pensare che la carriera da psicologa sarebbe stata proprio adatta a questa ragazza e, infatti, lei sembra leggermi dentro quando mi risponde senza che io le chieda: «Sono intuitiva, so chi ho davanti, capisco le persone, ma certo non posso cambiarle». E visto che mi trovo di fronte a una persona così diretta lascio andare la fatidica domanda; tanto con Florencia i guanti bianchi è inutile usarli: «E con Dio come la metti, ora?» Lei non si scompone; è stata in seminario e di sicuro ha molte più risposte di me sulla questione.
«Dio? In Argentina ho conosciuto il lavoro di una congregazione di suore ultramoderne redentiste. La loro povertà e la forza della loro missione mi hanno mostrato sulla Terra ciò che Cristo insegnava; è stato bello, mi sono innamorata della fede, di quella vera. Poi ho avuto un’evoluzione: prima la fede era solo un fatto mio personale, la sentivo dentro. Ora la riconosco fuori, in persone come don Andrea, che si prodiga per chi ha bisogno. Lì io ci vedo Dio. Il mio mestiere non mi impedisce di vedere il modo in cui Dio si mostra».
Minerva ha una tosse «che me màta» ma non trascura di farmi presente: «Sul comodino ho la Bibbia, in italiano e in spagnolo, la Fede non mi ha mai abbandonata. La fede dà forza e perseveranza, anche quando ti prostituisci fin da giovane per rivendicare il diritto di essere te stessa. E infatti Don Andrea è stata la risposta di Dio, durante la pandemia e anche ora, alla mia fede in Cristo e anche nell’umanità».
Marcela ha un viso aperto e mi comincia a far lezione sulla storia del suo Paese e io le chiedo subito un altro appuntamento (ancora da venire) per saperne di più: «Quand’ero piccola In Uruguay c’era la dittatura; mio padre era un uomo dei tempi, duro, e il rapporto con me era difficile. Poi la dittatura è finita e la delinquenza ha preso piede, in un caso e nell’altro stavi male. Io pregavo perché Dio ci sollevasse dalla fame e dalla violenza. Sono andata via e in Italia sono arrivata venticinque anni fa». Anche a lei chiedo com’è il suo rapporto con Dio: «La vera chiesa l’ho incontrata con don Andrea, che si prende cura della gente quando la gente gli chiede aiuto; lo fa a proprie spese.
Questo modo di vivere la fede è diverso dall’ipocrita facciata di cui parlava mia nonna quando diceva che le persone che vanno a messa e si battono il petto “Mangiano santi e poi cagano diavoli”». E io scoppio a ridere, perché un’espressione più indovinata non l’ho mai sentita; me la rivenderò ovunque.
«Non sono stata sempre cattolica, sono passata per varie religioni tra cui la Candomblè, una fede africana basata sul perdono. Ma dopo la pandemia, e con tutto quello che accompagna la prostituzione, il mio punto di riferimento è questa chiesa misericordiosa di cui Don Andrea è il fulcro, almeno da queste parti».
Jessica mi dice che «nel mio Paese va tutto bene se sei “normale”, ma per me non c’è stata altra via che la strada. Mia madre e le mie sorelle mi sono sempre state vicine e io ho fatto altrettanto con loro, mandando i soldi che guadagnavo perché potessero vivere senza rinunciare a niente» si commuove. Allora le chiedo di parlarmi di Dio: «Ho paura di non essere abbastanza per lui; del giudizio delle persone non m’importa, ma del suo sì».
Le chiedo se teme il giudizio di Dio per quello che fa e lei scuote le testa. «No. Dio è talmente sacro che mi spaventa la mia debolezza; la prostituzione è orrenda ma è il modo che io ho trovato per non morire. Eppure so che Dio mi ha dato un dono sacro: la mia vita, e io la sto usando male. Dio ce lo dice qual è la via giusta per noi, eppure noi sbagliamo sapendo di sbagliare. Questo mi fa paura: lo spreco che faccio del dono bellissimo che lui mi ha dato». E io non mi stupisco che Don Andrea si preoccupi di queste ragazze, visto che Cristo stesso ci ha insegnato che gli Ultimi sono i Primi.
Cochi, tra la spiegazione di una portata e l’altra, dice che, più che con Dio, i problemi sono sempre stati con i suoi seguaci: «I cattolici ferventi sono i più intransigenti con le persone trans, sai? Non è raro che i ministri di Dio ci dicano di uscire dalle chiese quando entriamo».
E a me rimbombano in testa le parole di Florencia sentite il giorno prima: «Uscita dalla messa, c’era un ragazzo che mi ha guardato in malo modo e mi ha detto che noi siamo i “traghettatori delle anime” e io ancora sto cercando di capire come potrei avere la capacità di far qualcosa sull’anima di un altro se quello non lo vuole». E io sto zitta per non gettare benzina sul fuoco, ma la penso esattamente nello stesso modo: come conduco la mia vita e le scelte che faccio sono responsabilità mia, non degli altri.
Anche l’aver deciso di conoscere e parlare con queste ragazze è stata una mia scelta. Una scelta per niente semplice, aggiungerei: non immedesimarsi nella loro vita è difficile, mantenere un punto di vista lucido e cercare di “dar voce” alla loro versione di fede è tutt’altro che una passeggiata.
La sera, a cena, sputo il rospo che mi è rimasto incastrato in gola: «Tu ti sei abituato un po’ alla volta, Don Andrea. In più tu hai la vocazione dalla tua!» gli ho detto mentre lui si consolava con una bella porzione di riso ai carciofi e io con un piatto di bietoline che manco mi andava di guardare, tanto avevo lo stomaco incartapecorito da emozioni contrastanti.
«Ho una giostra dentro, non riesco a non pensare al modo in cui le tue ragazze mi hanno accolta, abbracciata. Consuelo, la ragazza che ho potuto solo intravedere per pochi minuti, mi ha benedetta e io, che non ho fatto proprio niente per lei, mi sono sentita piccina così!»
Lui continua a mandar giù carciofi e annuisce e a me dà i nervi. Perché una cosa è sapere che le ragazze di Torvaianica ci sono; un’altra è conoscerle, parlarci, vederle ridere e piangere, parlare di ravioli, di uomini, di amore, di fede, e sentire le piaghe che si aprono nei racconti che fanno di sé; e tutto questo per scoprire che quelle piaghe sono la scotta salda che le tiene ancorate a Dio. Poi, dopo tutto questo, tornare alla normalità borghese della propria vita, come nulla fosse.
Don Andrea non ride della mia incapacità di staccarmi dallo strascico dei sentimenti. Lo sa, lui lo sa bene, che solo l’esperienza e la conoscenza dell’Altro spinge le persone a cambiare idea, rotta, a capire come stanno davvero le cose; capire cosa vuol davvero dire amare senza giudicare; perché in fondo è questo che la fede in Cristo ci chiama a fare. Don Andrea le persone “al centro” della propria vita le ha messe da un pezzo: che siano etero, gay, lesbiche, trans, che vivano di strada o di lussi, per lui non fa alcuna differenza.
Lui coglie il mio malessere ma non lo commenta, perché ben sa che, in fondo, questa rivoluzione interiore è quella “guarigione” dalla superficialità con cui senza rendercene conto soppesiamo l’Altro, guardandolo dall’alto al basso, senza accorgerci che, troppe volte, quelli orbi siamo noi nel momento in cui a tutti i costi vogliamo proteggerci.
Don Andrea è già proiettato su tutto ciò che dovrà fare quel giorno, e poi quello successivo per i suoi parrocchiani e per le ragazze. E, come direbbe Florencia, delle mie emozioni sono responsabile io, non lui.
Io semplicemente mi accorgo che sono d’accordo, che sono dalla loro parte, anche se vivere la fede in questo modo è molto più impegnativo del previsto. D’altronde, la fiera Marcela Guerra me l’aveva detto il giorno prima, nel suo italiano venato di spagnolo, guardandomi dritta negli occhi: «Alessandra, noi non possiamo scegliere di essere gay, etero o trans. Ma se avere fede o no questo sì; questo possiamo sceglierlo».