Il posto dell’altro. Il cristiano e la condizione omosessuale
Articolo di Mauro Castagnaro tratto da “Il Regno-attualità” n.6 del 2002, p.158
“In te, Signore, è la nostra speranza. Aiuta la tua Chiesa a rafforzarci in essa!”, parafrasando in questo modo la chiusa del “Te Deum” («in te Domine speravi, non confundar in Aeternum»), si è concluso il convegno «Il posto dell’altro. Le persone omosessuali nelle Chiese», organizzato a Milano il 2 febbraio (2002) dal Coordinamento gruppi di omosessuali cristiani in Italia e dall’Associazione italiana «Noi siamo Chiesa», in collaborazione con il centro culturale “Corsia dei servi”.
Centocinquanta persone, provenienti da tutta Italia, si sono ritrovate a riflettere e discutere, a due anni e mezzo dal precedente incontro, «sulla crescente consapevolezza che si va affermando nelle Chiese italiane della necessità di affrontare la condizione esistenziale delle persone omosessuali in modo serio, rispettoso e accogliente»,
Nell’appello letto al termine dell’assemblea i partecipanti chiedono perciò «alle Chiese che sono in Italia di vincere la paura e la pigrizia e di accompagnarci finalmente lungo quel cammino di liberazione e di maturazione, che lo Spirito Santo ci spinge a percorrere verso la perfezione cristiana». Una sollecitazione che lo stesso documento traduce in tre richieste concrete alle comunità ecclesiali e in particolare alla Conferenza episcopale italiana: «Lo studio onesto della condizione omosessuale», «la ricerca di proposte educative percorribili» e «l’avvio di iniziative pastorali concrete».
Una morale che cerca ancora
I lavori del convegno sono stati aperti da mons. Enrico Chiavacci, docente di teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale, con una relazione intitolata significativamente «Omosessualità e morale cristiana: cercare ancora».
Il noto moralista ha, infatti, messo al centro del suo ragionamento la constatazione che l’idea dell’esistenza di «persone omosessuali», cioè esclusivamente o prevalentemente attratte da individui dello stesso sesso, risale ai XIX secolo e nei documenti ufficiali della Chiesa al 1975, mentre prima era assente e tutta la tradizione etica si riferiva «a persone eterosessuali che liberamente mettevano in atto comportamenti omosessuali».
Questa caratteristica accomunava i rapporti omosessuali accettati ad Atene e Sparta, mentre l’idea aristotelica di «legge di natura», che indica «l’ordine, ritenuto naturale, d’organizzazione sociale», porta a condannare l’omosessualità maschile (non quella femminile, né quella tra padrone e schiavo) in quanto pone l’uomo passivo in posizione dominata.
Proprio «un peccato di dominio indebito e, nel consenziente, un peccato d’abdicazione del proprio ruolo naturale di dominatore» motiva, secondo mons. Chiavacci, il divieto di rapporti omosessuali tra maschi del Levitico (Lv 18,22; 20,13), mentre nelle altre narrazioni solitamente richiamate, come l’episodio di Sodoma (Gen 19,1-11), il peccato sta «nella violenza, nella volontà di dominate e umiliare».
L’impostazione aristotelica si ritrova anche nel solo argomentato riferimento neotestamentario alla malizia del comportamento omosessuale (Rm 1,26-27). Tuttavia nella successiva tradizione cristiana il concetto di «natura» ha perso la dimensione sociale, venendo ridotta «agli organi; funzioni e strutture della corporeità animale considerata in sé». Ciò ha condotto a ritenere «secondo natura» solo i comportamenti sessuali finalizzati alla procreazione e «contro natura » gli atti omosessuali.
Oggi però, ha sottolineato mons. Chiavacci, «il problema morale dell’omosessualità va ripensato nel quadro delle nuove acquisizioni raggiunte dalla scienza in materia di sessualità umana e la luce del Vangelo va proiettata sull’esperienza e sulla conoscenza odierne, non sugli schemi logici e le categorie mentali dei secoli scorsi».
Ciò è possibile ricorrendo all’idea di «gender identity», cioè «l’interpretazione che un essere umano dà della propria appartenenza al genere maschio o femmina», la quale distingue «identificazione di genere» (data la correlazione non automatica tra sesso biologico e psicologico), «orientamento sessuale» (attrazione unica o prevalente verso un sesso), «ruolo sessuale» (socialmente assegnato al maschio e alla femmina) e «comportamento sessuale».
Solo «comprendendo meglio la sessualità», ha concluso mons. Chiavacci, «si può discutere d’omosessualità in modo sensato, cioè rifiutando di considerare ogni comportamento omosessuale come a priori oggettivamente disordinato e le persone di orientamento omosessuale necessariamente malate o perverse».
L’eterosessualità normativa
L’invito a ricollocare il dibattito sulle persone omosessuali nelle Chiese all’interno di un ripensamento della sessualità è stato raccolto dalla pastora battista Elizabeth Green, che ha sviluppato il suo intervento, intitolato «Le donne, il cristianesimo e l’eterosessualità normativa», a partire dalla teologia femminista.
La teologa ha sottolineato come «nell’ordine egemone maschile, donne e omosessuali costituiscano entrambi soggetti «altri», ma le lesbiche portino il peso di una duplice discriminazione, quella sessista e quella etero sessista.
Alla costruzione di questa struttura sociosimbolica ha contribuito, secondo Green, anche il cristianesimo, assumendo come fondamento la figura di Dio-Padre e modellando il rapporto con la Chiesa su quello tra marito e moglie nella società patriarcale.
Per superare ogni emarginazione è perciò necessario «rinunciare al sogno di occupare il centro, diventando continuamente “altro” dell’altro», sulla stia della kenosis di Gesù (Fu 2,Sss).
La riflessione della teologia di genere evidenzia come, in questa prospettiva, «il primo “altro” che Dio, incarnandosi in Gesù ha assunto, è il corpo» e «Gesù era un uomo appassionato la cui rete primaria di relazione consisteva nell’amicizia caratterizzata da una preoccupazione intensa per persone come esseri corporei bisognosi di un tocco amorevole».
Perciò, ha concluso, «dietro alla discussione sulle persone omosessuali c’è la paura che ciascuno nutre nei confronti del proprio corpo e il suo bisogno di un tocco amorevole.
La Chiesa quindi deve ripensare la sessualità dando ascolto alle proposte di una teologia pensata a partire dall’esperienza delle donne lesbiche, la quale dà valore all’altro che ci è forse più vicino, cioè il nostro corpo e la sua forza erotica».