Il Rapporto dei Vescovi Anglicani sulle relazioni omosessuali e le Scritture. Un’opportunità mancata
Riflessioni bibliche di Jennifer Strawbridge pubblicata sul sito modernchurch (Inghilterra) il 14 Febbraio 2017, liberamente tradotte da Simone Ramacci
Usare le Scritture per confermare le proprie idee è fin troppo comune nelle discussioni sulla sessualità umana, ma il valore di questa pratica è piuttosto limitato. A maggior ragione se lo si fa in maniera sbagliata. Ciò non avviene nel recente rapporto dei vescovi anglicani su matrimonio e relazioni omosessuali. Anzi, questo documento cita esplicitamente le Scritture solo 5 volte nelle sue 19 pagine. Tuttavia, una delle citazioni paoline scelta per introdurre il rapporto è oggetto di uno spiacevole fraintendimento riguardo l’Apostolo. Anche se questo fraintendimento non influisce, in ultima analisi, sul contenuto, esso rende meno incisivo quanto segue e diviene un’opportunità perduta per mostrare come le Scritture possano facilitare questo tipo di dialoghi. Il primo paragrafo del rapporto dichiara:
Come scrive S. Paolo: “In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo” (Galati 2:19). Per S. Paolo questo significava mettere da parte persino il magnifico privilegio dell’identità ebraica e mettere in primo piano la croce e la resurrezione di Cristo. Alla luce di ciò la Chiesa d’Inghilterra deve considerare i problemi relativi alla sessualità umana che sono stati causa di tensioni e divisioni per molti anni.
L’introduzione fraintende e non nota due cose:
· In primo luogo sia nelle lettere che in Atti Paolo è un ebreo e si identifica chiaramente come tale al presente. Dire che Paolo “metta da parte” la sua “identità ebraica” significa fraintenderlo.
· In secondo luogo un tale fraintendimento nel primo paragrafo significa che il rapporto non nota le sfumature dei testi paolini e il fatto che egli stesso stia affrontando “tensioni e divisioni” sia nelle sue comunità che in termini d’identità personale. Riconoscere queste sfumature renderebbe chiaro come le questioni relative all’identità non siano così semplici come sembra suggerire il rapporto e che l’identità in Cristo non sia così semplice come “mettere da parte” la propria identità di nascita. Quest’ultimo è in sé un presupposto pericoloso e potenzialmente dannoso per un rapporto su sessualità e identità.
In Filippesi 3:4-6 Paolo scrive come abbia gran motivo di vantarsi anche “nella carne”, poiché è:
della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei
Sebbene questo che era un “guadagno” sia ora considerato da Paolo “una perdita a motivo di Cristo” (Filippesi 3:7) e “spazzatura” (3:8), l’identità ebraica di Paolo non appartiene solo al suo passato. Questo è reso chiaro in Romani 11:1, ove Paolo dichiara nella sua difesa delle promesse di Dio:
Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino.
La testimonianza di Paolo in tribunale (Atti 21) è anche più diretta, e dimostra senza ombra di dubbio cosa l’Evangelista pensi dell’identità paolina. Paolo inizia la sua difesa dicendo “Io sono un Giudeo” e ripetendolo “in lingua ebraica” in Atti 22, dopo di che narra al passato di come avesse perseguitato a morte “questa nuova dottrina”. Inoltre, tornando alle sue lettere, Paolo risponde al vanto dei Corinzi vantandosi egli stesso (2 Corinzi 11:22-23):
Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? … io lo sono più di loro
Anche qui vediamo chiaramente la tensione identitaria di Paolo. Paolo è ancora ebreo, israelita, discendente di Abramo, ovvero Giudeo. Ma è anche un ministro di Cristo, è anche una persona che soffre a causa del vangelo. L’identità di Paolo è formata da entrambe, e indivisibile.
Inoltre, una tale tensione si può notare non solo nell’identità di Paolo, ma anche nel modo in cui comprende la propria evangelizzazione. Paolo, in quanto apostolo dei Gentili, dà la priorità agli ebrei spesso, quantunque capisca che molti non riconoscono Cristo come Messia. In Romani 1:16 egli osserva come il vangelo sia “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco”. In Romani 2:9-10 Paolo scrive di come il giudizio e la gloria di Dio siano riversati “per il Giudeo prima e poi per il Greco” poiché “presso Dio non c’è parzialità”. Anzi, “Giudei e Greci, tutti, sono sotto il dominio del peccato” (Romani 3:9), “Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano” (Romani 10:12).
Questo, chiaramente, non significa che nulla sia successo a Paolo sulla via di Damasco (Atti 26) o quando Cristo gli è stato rivelato (1 Corinzi 15:8, Galati 1:15-17). Né significa che il linguaggio di Paolo su Giudei e Gentili risulti in un’idea dell’umanità come “uno stufato troppo cotto in cui tutti gli ingredienti hanno lo stesso sapore”, come chiarisce Beverly Gaventa, dacché “Paolo ammette le storie differenti di Giudei e Gentili” (Gaventa 2014).
Tuttavia notare solo la divisione nella vita di Paolo, come fa il Rapporto dei Vescovi, è un problema che sorvola sulle sfumature identitarie di Paolo e sulla sua capacità di affrontarle. Paolo rimane chiaramente Giudeo. Paolo si identifica chiaramente come Giudeo. Tuttavia Paolo ha anche ridefinito chi sia il popolo di Dio, a seguito del suo incontro col Signore risorto. Questa dimensione di conflitto identitario in Paolo poteva essere usata vantaggiosamente nel Rapporto dei Vescovi.
Le parole stesse di Paolo rendono impossibile affermare semplicemente che abbia messo da parte la sua identità ebraica per Cristo. Piuttosto dobbiamo vedere (nonostante alcune incoerenze nelle sue lettere) come Paolo stia provando intensamente a riconciliare la sua identità di Giudeo col fatto di essere stato “crocefisso con Cristo” e che Cristo viva in lui e ne definisca la vita. Questa tensione risulta nelle domande centrali per gli scritti paolini: che rapporto c’è fra Giudei e Gentili? Cosa succede alla Legge? Ha Dio infranto le proprie promesse verso Israele? E, cosa importante per questo Rapporto, soprattutto: Come affronta Paolo la tensione fra l’affermare che “mediante il corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto alla legge” (Romani 7:9) e allo stesso tempo (e quasi nella stessa frase) il sostenere che “la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento” (Romani 7:12)? Come può Paolo definire sé stesso alla luce della morte e resurrezione di Cristo (Romani 6:5, Filippesi 3:10-11) e dirsi, al contempo, Ebreo, Israelita e Giudeo?
Questo sforzo per comprendere l’importanza di legge e identità che troviamo chiaramente nelle lettere di Paolo è evidente in tutto il Rapporto dei Vescovi, ove viene dichiarato chiaramente come bisogni:
Interpretare la legge e le linee guida correnti per permettere la massima libertà nei confini di esse, senza cambiare la legge o la dottrina della Chiesa (1.22).
Tuttavia, partendo da un fraintendimento di Paolo e della sua identità, questo rapporto perde una grande occasione per utilizzare le difficoltà di Paolo stesso in un documento che cerca chiaramente di bilanciare difficoltà ovvie e meno ovvie all’interno della Chiesa. Invece questo rapporto ci ha fornito un nuovo passaggio biblico da aggiungere alla lista di testi usati per confermare certe idee nei dibattiti riguardanti la sessualità umana.
Ancora più importante è come il Rapporto dei Vescovi separi dottrina e pratica pastorale, e manchi l’opportunità di ragionare sulle “tensioni e divisioni” proprie della missione di Paolo e di fondare una dichiarazione sulla sessualità umana nella teologia e, ancora meglio, nella ricchezza delle Scritture.
* Jennifer Strawbridge è Professore Associato di Nuovo Testamento e Caird Fellow di Teologia all’Università di Oxford.
Testo originale: The Bishops’ Report and Scripture: A missed opportunity