Il rapporto omosessuale, il Magistero e la cura per l’altro
Riflessioni di Antonio De Caro, volontario del Progetto Gionata
Un capo scout di Staranzano (Gorizia) si è unito civilmente con il suo compagno. Il parroco, Francesco Maria Fragiacomo, ha richiesto (invano) che il capo scout venisse rimosso dal suo incarico. Il vescovo di Gorizia, mons. C. M. Redaelli, è intervenuto con un’ampia e saggia lettera, esortando la diocesi e quindi anche il parroco all’ascolto umile dello Spirito, sull’esempio del concilio di Gerusalemme narrato negli Atti degli Apostoli. La lettera, in realtà, non prende una posizione netta: ecco perché Fragiacomo con un ulteriore messaggio richiede al suo Vescovo istruzioni precise su come trattare nella comunità parrocchiale -per esempio, circa l’amministrazione dei sacramenti- i casi di persone omosessuali, specialmente delle coppie, anche unite civilmente.
Riproduco la lettera di Fragiacomo:
Sua eccellenza mons. Arcivescovo, mi rivolgo a Lei come padre nella fede e maestro nella dottrina. In relazione al suo intervento “Un impegnativo cammino di discernimento ed ascolto dello Spirito”, chiedo alcune precisazioni che ritengo importanti anche in vista di una prassi comune tra noi presbiteri. La mia non è una provocazione, ma una doverosa richiesta di chiarezza necessaria per il nostro servizio e per la nostra comunione.
1. Ipotizziamo un caso: viene a confessarsi un uomo che dichiara di avere rapporti omosessuali con il suo compagno con cui convive. Mi chiede un consiglio riguardo i suoi atti: li deve considerare peccati o no? Cosa gli rispondo?
Al di là delle circostanze che certamente, come sappiamo, attenuano o mitigano la responsabilità personale della colpa, possiamo attenerci a quanto riferito negli attuali documenti magistrali?
“Scegliere un’attività sessuale con una persona dello stesso sesso equivale ad annullare il ricco simbolismo e il significato, per non parlare dei fini, del disegno del Creatore a riguardo della realtà sessuale”(Cura pastorale delle persone omosessuali. Lettera della Congregazione per la dottrina della fede, 7).
“Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati e che, in nessun caso, possono ricevere una qualche approvazione” (Persona Humana, Dichiarazione della Congregazione per la dottrina delle fede. 8).
“Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2357).
Personalmente devo dire che mi risulta davvero difficile ritenere che sia secondo il disegno e il volere di Dio un rapporto sessuale tra due uomini.
• Se questa persona non riconosce tali atti come peccato, dopo averlo invitato ad un percorso di accompagnamento, gli diamo l’assoluzione?
2. Sant’Agostino ci ha insegnato che il peccato è la privazione di un bene, un dono rifiutato, un vuoto di amore, o come direbbe forse papa Francesco, un sogno di Dio che s’infrange.
Un giovane, chiamato potenzialmente ad essere marito e padre, che decide di imboccare la via della relazione omosessuale, rafforzandola e confermandola con un patto civile, non si sta responsabilmente privando del bene della paternità, dell’amore nell’alterità uomo-donna, della fecondità? E questo, non in vista di un valore alto come potrebbe essere, per esempio, il caso di una vocazione alla vita consacrata. Non sta dunque precludendosi la strada verso un bene di Dio per una scelta intrinsecamente sbagliata? Quindi la sua scelta non è da ritenersi già in sé “peccato”?
“Occorre invece precisare che la particolare inclinazione della persona omosessuale, benché non sia in sé peccato, costituisce tuttavia una tendenza, più o meno forte, verso un comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale. Per questo motivo l’inclinazione stessa dev’essere considerata come oggettivamente disordinata.
Pertanto coloro che si trovano in questa condizione dovrebbero essere oggetto di una particolare sollecitudine pastorale perché non siano portati a credere che l’attuazione di tale tendenza nelle relazioni omosessuali sia un’opzione moralmente accettabile”(Cura pastorale delle persone omosessuali. Lettera della Congregazione per la dottrina della fede, 3).
3. Sant’Ignazio ci insegna che il discernimento, in senso stretto, va applicato quando ci sono in alternativa due beni. Con la luce dello Spirito e con aiuti umani si ricerca il bene maggiore tra i due. Di per sé l’opzione del “male minore” non esiste nemmeno ma, casomai, si discerne il maggior bene concretamente ora possibile.
Quando in oggetto c’è invece l’alternativa tra il bene di Dio e il peccato, il “discernimento degli spiriti” è in funzione della conversione affinché con la luce dello Spirito, si possa prendere coscienza fino in fondo del male e ricevere la forza di compiere il bene.
Per quanto detto sopra, mi chiedo: la comunità cristiana di Staranzano (o almeno la parte di essa implicata), in relazione al fatto del 3 giugno scorso, con tutte le modalità ed implicazioni ormai note, ha bisogno di un cammino di discernimento per scegliere tra due beni o di un percorso di conversione?
La precisazione non è indifferente perché le due vie, evidentemente, hanno modalità, tempi, attese, impostazioni ben diverse! La guarigione dal male, per esempio, ha bisogno di tempo ma, se ne siamo consapevoli, non dovrebbe ammettere ritardi, perché con il tempo il male peggiora.
Come Lei giustamente ha scritto, qualsiasi “impegnativo cammino di discernimento” non potrà prescindere, dunque, da una conversione personale e comunitaria, con la richiesta allo Spirito Santo della luce sul male, del perdono, del riconoscimento e attuazione del vero bene.
Altrimenti, se cercassimo solo una “soluzione pratica” senza un approfondimento vero del caso, sarebbe come coprire con una fasciatura una ferita non curata e il danno, con il tempo, sarebbe peggiore.
Sua Eccellenza, so che non ci farà mancare una risposta, proprio per l’impegno di accompagnamento da lei molto auspicato e che, senza dubbio, desidera anzitutto per i suoi presbiteri.
Un accompagnamento che non può prescindere dal rispondere alle questioni importanti e istanze concrete di coloro che “con lei partecipano” al compito di pastore e che possono diventare, anche queste, occasioni di relazione, di vicinanza, di guida, di stimolo e crescita comune verso il bene.
La ringrazio anticipatamente
Staranzano, 9 luglio 2017 Don Francesco Maria Fragiacomo
Vorrei proporre una riflessione su questa lettera. Non devo essere certo io ad indicare al parroco come agire: c’è il suo Vescovo, per questo. Il mio commento potrebbe costituire, se mai, l’occasione per riflettere sul linguaggio dell’accoglienza o del rifiuto: un linguaggio che ha la sua grammatica. Ecco perché farò alcuni riferimenti precisi al testo della lettera di Fragiacomo al Vescovo Redaelli.
Fragiacomo: Ipotizziamo un caso: viene a confessarsi un uomo che dichiara di avere rapporti omosessuali con il suo compagno con cui convive. Mi chiede un consiglio riguardo i suoi atti: li deve considerare peccati o no? Cosa gli rispondo?… Personalmente devo dire che mi risulta davvero difficile ritenere che sia secondo il disegno e il volere di Dio un rapporto sessuale tra due uomini.
La preoccupazione di Fragiacomo, sembra, è di tipo classificatorio. Come devo considerare gli atti omosessuali? Se devo seguire il Magistero (che Fragiacomo cita ampiamente e alla lettera), li devo classificare come peccati, anzi peccati gravi. Il punto è proprio questo. La sessualità, anche quella eterosessuale, è espressione della persona. Questo non vuol dire che ogni espressione sessuale sia lecita e moralmente buona. Ma prima di classificare le azioni di una persona, e di verificare quindi se siano morali o no, bisognose di correzione, di perdono o no, occorrerebbe ascoltare la persona, capire se quegli “atti sessuali” nascono dal disordine, dalla confusione, dall’egoismo, dal materialismo (riflessione che varrebbe anche per i rapporti eterosessuali); o invece da un orientamento naturale (che la persona non sceglie, ma che semplicemente esiste come tale, come dato di natura, nella persona) e soprattutto da un progetto di comunione e di amore. È lo stesso Fragiacomo, infatti, a usare parole impegnative come com-pagno e con-vivere: quindi il contesto di riferimento non è quello della promiscuità anonima ed occasionale, ma quello di una relazione stabile, duratura, che porta alla scelta di condividere il pane, la casa, la vita. L’uomo di cui parla Fragiacomo sta raccontando di una relazione che, molto probabilmente, intende costruire responsabilmente come progetto di vita in comune; non usare l’altro o farsi usare dall’altro, ma donarsi all’altro, in uno scambio quotidiano di sostegno reciproco in cui anche l’intimità fisica riceve significato reciproco ed esclusivo. Fragiacomo ha riflettuto su tutto questo? Dov’è, nelle sue parole, la dignità della persona e della relazione d’amore? O era solo alla ricerca di un codice giuridico, di un articolo, di un comma che sbrigativamente classificassero “gli atti” come peccato? Le sue puntuali ed ampie citazioni dai testi del Magistero dimostrerebbero che è vera questa seconda ipotesi. È questo che deve fare la Chiesa? Usare i testi (c’è scritto… la legge dice…) come una mannaia sulla vita delle persone? Non dovrebbe piuttosto ascoltare la persona, rispettare le scelte della sua coscienza, calare nella sua storia e nelle sue scelte di amore la prospettiva della Pasqua?
Fragiacomo stesso ammette la sua (comprensibile ed umana) difficoltà a collocare l’omosessualità nel disegno di Dio. Perché lui, come migliaia di cattolici, consacrati e no, è stato traviato da secoli di tradizione distorta, che non conosce l’idea di orientamento sessuale, non sa che le persone non sono responsabili del loro orientamento omosessuale, ma sono responsabili di come scelgono di viverlo, se nell’amore o fuori dall’amore. È questa la domanda autentica che gli viene rivolta in confessione. Ma ripeto, Fragiacomo non ha colpa: è solo stato male educato. Questo dovrebbe farci riflettere sull’urgenza di una corretta formazione dei sacerdoti e di una autentica revisione della dottrina -non semplicemente di una “sospensione del giudizio”- visto che gli strumenti teologici cattolici per tale revisione esistono già (per esempio, T. A. Salzman – M- G. Lawler, The sexual person. Toward a renewed catholic anthropology, Washington 2008. B. Brogliato – D. Migliorini, L’amore omosessuale, Assisi 2014).
Fragiacomo: Se questa persona non riconosce tali atti come peccato, dopo averlo invitato ad un percorso di accompagnamento, gli diamo l’assoluzione?
Quello che qui mi colpisce è, innanzitutto, l’uso della prima persona plurale. NOI. Chi sono questi NOI? Credo sia corretto rispondere: noi corpo sacerdotale, Vescovo in testa, noi che abbiamo l’autorità di “dare l’assoluzione”. NOI è contrapposto a LUI-LORO. NOI siamo dentro, LORO sono fuori. NOI siamo conformi alla volontà di Dio, LORO no (perché lo dice il Magistero etc. etc.). NOI abbiamo un potere da cui LORO dipendono, NOI abbiamo il potere di includerli o di escluderli. Non posso fare a meno di sentire tutta la forza farisaica di questo NOI: la consapevolezza orgogliosa di essere “figli di Abramo”, “popolo eletto”, perché osserviamo “la legge” (il Magistero).
Come rispondeva Gesù?
Gesù rispondeva che il sabato esiste per l’uomo, non l’uomo per il sabato.
Gesù li chiamava ipocriti e sepolcri imbiancati. Li accusava di caricare le spalle dei fedeli di pesi che LORO non toccavano nemmeno con un dito.
Ma soprattutto, Gesù incontrava uomini corrotti, lebbrosi, prostitute, donne samaritane, donne sirofenicie, centurioni romani, criminali… gente impura, insomma, gente a cui scribi e farisei non avrebbero mai dato l’assoluzione. E li incontrava non per legittimare qualunque scelta e qualunque condizione di vita, ma per alimentare con il suo sguardo d’amore i germi di bene e di amore che certamente albergavano in tutti. La donna sirofenicia e il centurione romano gli hanno dimostrato una fede che raramente trovava tra i figli di Abramo; e quando ha guarito la figlia dell’una e il “ragazzo” dell’altro (il termine greco pais significa servo, ma può anche indicare il partner di una relazione omosessuale) non ha chiesto loro: smetti di essere una donna sirofenicia, smetti di essere un centurione romano, smetti di volere bene alle persone a cui vuoi bene. Ha solo ammirato la loro fede e guarito, con le persone amate, anche il loro cuore. Va’… Va’…: per me questa parola significa “vivi con libertà la tua vita. Io non sono il Signore che ti chiede di stravolgere la tua vita, ma di viverla con amore. Va’… cammina, prosegui il tuo cammino. È la fede che adesso lo illumina. È avermi incontrato che adesso ti illumina”.
Inoltre: l’assoluzione. Anche questo termine rivela che Fragiacomo, istruito purtroppo dal Magistero che per lui rappresenta un idolo, è ossessionato da una mentalità e da un lessico legalistici. Ai sensi dell’articolo… accusato, condannato, assolto… circostanze attenuanti… Ma chiediamoci: quando ci accostiamo alla preghiera e ai sacramenti, che cosa cerchiamo realmente? È come mettere un gettone in una lavanderia automatica, ricevere un timbro… o piuttosto cerchiamo di incontrare Gesù, di capire come vivere sempre di più e sempre meglio il rapporto con lui? Perché Fragiacomo non chiede al suo Vescovo: come faccio a portare a Gesù quest’uomo omosessuale? Come faccio a fargli vivere la Redenzione, la Pasqua, la speranza, l’amore? Come faccio a nutrire la sua anima? Perché non si chiede tutto questo, ma continua ad usare solo un lessico burocratico e senza amore?
Fragiacomo: Un giovane, chiamato potenzialmente ad essere marito e padre, che decide di imboccare la via della relazione omosessuale, rafforzandola e confermandola con un patto civile, non si sta responsabilmente privando del bene della paternità, dell’amore nell’alterità uomo-donna, della fecondità? E questo, non in vista di un valore alto come potrebbe essere, per esempio, il caso di una vocazione alla vita consacrata. Non sta dunque precludendosi la strada verso un bene di Dio per una scelta intrinsecamente sbagliata? Quindi la sua scelta non è da ritenersi già in sé “peccato”?
Come dicevo prima, Fragiacomo e il Magistero che è responsabile della sua mentalità non accettano assolutamente l’idea che l’orientamento sessuale sia un orientamento naturale. Alcuni sono chiamati ad essere mariti e padri, altri no. L’orientamento omosessuale, se autentico, naturale e sintonico, non può e non deve essere coartato né corretto. Fa parte della persona, della sua natura. Gravemente scorretto sarebbe invece agire contro la propria natura, scegliendo di essere marito e padre (in senso eterosessuale) se non si è orientati a questo. “Decide di imboccare”… come se fosse una decisione presa a tavolino, a freddo, con la lucida, deliberata e maligna intenzione di fare del male a sé e agli altri. Queste parole (superficiali, se non crudeli) non tengono minimamente conto del travaglio che porta quel giovane a costruirsi una vita che il mondo intorno (famiglia, società, Chiesa) non approverebbe. Se quel giovane, dal profondo della sua coscienza, sceglie di vivere la sua omosessualità in modo coerente, trasparente e dignitoso; se egli, attraverso un percorso serio e talvolta non agevole, sceglie di impegnare in modo così radicale la sua vita terrena ed ultraterrena, qualcuno gli ha chiesto perché? Lo ha ascoltato? Con quale autorità Fragiacomo e il Magistero presumono di sapere –a priori e dall’esterno- e di imporre quale sia, indefettibilmente, la vocazione di quel giovane o presumono di giudicarlo come intrinsecamente sbagliato? Occorre riflettere sulla violenza di queste parole e sui pericoli che esse possono provocare ai fedeli, specialmente se più giovani.
Inoltre: questo giovane “rafforza e conferma” la sua scelta con una pubblica dichiarazione ed assunzione di responsabilità, attraverso l’unione civile. Questo vuol dire che non sta obbedendo ciecamente alla lussuria, ma sta facendo un progetto di vita, poiché intende amare in modo ordinato e stabile, assumendosi diritti e doveri. Osservate che Fragiacomo formula quella che retoricamente si potrebbe definire una “antitesi sospesa”. Il giovane gay fa così NON in vista di un bene superiore (come il celibato sacerdotale)… MA? MA? Fragiacomo non dice nulla su questo MA. Per vivere disordinatamente in un mondo di istinti e degrado? Per sputare sulla creazione e sul progetto di Dio? O non, piuttosto, per seguire onestamente il suo orientamento facendolo diventare, nell’amore, un maturo e responsabile progetto di vita? Chi ha stabilito che questo non è un “valore alto”? L’assenza di questo MA (il secondo membro dell’antitesi) nelle parole di Fragiacomo è il segno di più chiaro dell’assenza di ascolto. L’amore delle persone omosessuali, nel discorso etico-giuridico del Magistero e di chi lo segue acriticamente, semplicemente non esiste, non trova spazio, non viene detto, proprio perché non c’è ascolto autentico di queste persone.
Fragiacomo: Sant’Ignazio ci insegna che il discernimento, in senso stretto, va applicato quando ci sono in alternativa due beni. Con la luce dello Spirito e con aiuti umani si ricerca il bene maggiore tra i due. Di per sé l’opzione del “male minore” non esiste nemmeno ma, casomai, si discerne il maggior bene concretamente ora possibile. Quando in oggetto c’è invece l’alternativa tra il bene di Dio e il peccato, il “discernimento degli spiriti” è in funzione della conversione affinché con la luce dello Spirito, si possa prendere coscienza fino in fondo del male e ricevere la forza di compiere il bene.
Nel rubricare sbrigativamente il comportamento omosessuale come “peccato”, Fragiacomo non tiene conto, affatto, della coscienza del singolo, cui spetta responsabilmente il compito ultimo di ascoltare la voce interiore di Dio e di distinguere che cosa sia peccato o no. Praeceptum prelati non est nisi praeceptum prelati, coscientia autem est vox Dei (Tommaso d’Aquino).
Fragiacomo: come Lei giustamente ha scritto, qualsiasi “impegnativo cammino di discernimento” non potrà prescindere, dunque, da una conversione personale e comunitaria, con la richiesta allo Spirito Santo della luce sul male, del perdono, del riconoscimento e attuazione del vero bene. Altrimenti, se cercassimo solo una “soluzione pratica” senza un approfondimento vero del caso, sarebbe come coprire con una fasciatura una ferita non curata e il danno, con il tempo, sarebbe peggiore.
Giusto. Sono perfettamente d’accordo. Ci vuole una riflessione rifondativa, etica e teologica, guidata dallo Spirito. Non la ricerca di “soluzioni pratiche”, come quella di chi poco fa chiedeva “gli diamo l’assoluzione?”.
La “grammatica” di Fragiacomo, che dichiara apertamente di averla appresa dal magistero, è quindi una grammatica che separa arbitrariamente la persona dalla sua natura e dai suoi comportamenti; che non sa cogliere il valore etico delle relazioni d’amore; che crea barriere e muri fra NOI e LORO; che non dà diritto di parola alla persone e alla loro dignità; che rivela un’ossessione giuridica e legalistica del tutto aliena dai linguaggi di accoglienza e promozione del bene che sono l’eredità del Redentore.
Vorrei qui completare la riflessione facendo alcuni riferimenti ai testi del Magistero su cui Fragiacomo fonda la sua sensibilità pastorale.
“Scegliere un’attività sessuale con una persona dello stesso sesso equivale ad annullare il ricco simbolismo e il significato, per non parlare dei fini, del disegno del Creatore a riguardo della realtà sessuale” (Cura pastorale delle persone omosessuali. Lettera della Congregazione per la dottrina della fede, 7).
Io non “scelgo un’attività sessuale”. Nessuno di noi, eterosessuali o omosessuali, ha “scelto un’attività sessuale con…”. Io sono, noi siamo persone. Abbiamo conosciuto, esperito, costruito la nostra sessualità nelle diverse età della vita come espressione profonda di quello che siamo e di quello che proviamo per gli altri. La nostra sessualità è espressione del nostro essere e della nostra natura, della nostra potenzialità di amore.
Gli omosessuali non scelgono da chi essere attratti, come non lo fanno gli eterosessuali. E se gli omosessuali, seguendo la loro natura, hanno rapporti omosessuali, in nessun caso intendono disprezzare o annullare la bellezza del rapporto fra un uomo e una donna. Semplicemente, è qualcosa che non fa parte del loro essere, un modello che, quindi, non sono chiamati a realizzare nella loro vita. Come per gli eterosessuali, il loro traguardo è fiorire, esprimere nel modo migliore le loro energie, senza danneggiare gli altri e senza volerli “convertire” all’omosessualità.
“Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2357).
Sintatticamente, questa cosa si chiama “paratassi asindetica”. È la sequenza di frasi principali, indipendenti l’una dall’altra, senza congiunzioni. Cercate di sentire con me il ritmo di questo discorso. Sono intrinsecamente disordinati. Punto.
Sono contrari. Punto.
Precludono. Punto.
Non sono il frutto. Punto.
In nessun caso. Punto.
Come vi sembra questo ritmo? Dolce? Graduale? Melodioso? Morbido? Un ritmo ispirato a “compassione e delicatezza”? Colpi di tamburo, lugubri rintocchi di campana. Queste frasi, brevi, nette e spietate, io le ho sempre sentite come frustate, coltellate, martellate. Una dopo l’altra, fredde, dure, metodiche, inesorabili. E, soprattutto, senza congiunzioni. Creano un discorso fatto di solitudini, fatto di parole e frasi che non si incontrano, non si intrecciano, non creano una storia, non raccontano l’amore di Dio. Ed è il “catechismo”, cioè il testo chiamato a fare “riecheggiare” la lieta notizia della salvezza. Spero ci rendiamo tutti conto del male che possono fare queste parole, anche a chi si è ormai affrancato da esse. Un discorso senza congiunzioni, che avrebbe voluto che le nostre fossero vite senza relazioni. Come quei confessori che qualche volta dicono: una relazione no, mai! Meglio cadere qualche volta… cercare l’avventura occasionale, quando non puoi farne a meno… tanto poi ti confessi…
Ecco in che modo il linguaggio teologico e pastorale sa fare riecheggiare la letizia dell’amore, il lieto annuncio della salvezza. Mi sono soffermato così a lungo su questo tema del linguaggio dell’accoglienza o del rifiuto, perché ho terminato da poco di leggere un libro bellissimo, che si chiama Filosofia della cura, di L. Mortari. È un libro di filosofia, ma con moltissimi riferimenti alla poesia, antica e moderna, e al Vangelo. Splendidi, ad esempio, gli approfondimenti dedicati alla parabola del buon samaritano o a Gesù nel Gethsemani. È un libro che tratta come ci si prende cura degli altri: i genitori dei figli, gli insegnanti degli allievi, i medici dei malati, gli amici degli amici…
CURA. Filosofia della CURA. La CURA pastorale delle persone omosessuali.
Bene: le pagine 158-168 trattano del RISPETTO (che secondo l’autrice è uno degli atteggiamenti fondamentali dell’etica della cura). RISPETTO… devono essere accolti con RISPETTO, comprensione, delicatezza. E sapete che cosa ho scoperto, studiando queste 10 pagine sull’essenza del rispetto?
“Avere rispetto significa consentire all’altro di esserci a partire da sé e secondo il suo modo di essere; è la condizione necessaria per prevenire il rischio sempre incombente di inumanità, che accade ogni volta che all’altro viene negata la possibilità di esserci secondo il suo proprio desiderio. Il rispetto è ospitalità, è lasciare che l’essere dell’altro mi parli; non giudicare prima di avere dato spazio al suo essere, ma accogliere ciascuno nella sua unicità, lasciare che venga alla presenza nelle sue proprie possibilità di essere. Se non si cerca di incontrare l’altro nella sua singolarità, nel suo essere unico e distinto, non si può avere cura autentica, proprio perché l’alterità dell’altro viene a mancare. Alla radice della capacità di avere rispetto c’è l’idea dell’altro come ente intrinsecamente di valore e in quanto tale inviolabile. Quella forma del pensare che sospende la resistenza dell’altro nella sua alterità si muove in direzione contraria all’essenza relazionale della condizione umana, perché impedendo all’altro di farsi incontrare nella sua singolarità, di fatto rende impossibile la relazione. Allora è impossibile avere cura” (passim, le frasi in grassetto le ho evidenziate io).
Non c’è bisogno di dimostrare come la Cura pastorale delle persone omosessuali (J. Ratzinger, Congregazione per la Dottrina della Fede, 1986) NON abbia applicato e declinato concretamente questi atteggiamenti. E come abbia formato generazioni di sacerdoti a NON avere cura e rispetto per le persone omosessuali, ascoltandole prima di condannare loro e le loro relazioni. E come NON abbia operato a partire dall’idea dell’intrinseco valore dell’altro, nella sua condizione esistenziale inviolabile.
La Chiesa, dal Magistero al parroco Fragiacomo, deve assumersi la responsabilità di tutto questo. È già troppo tardi.
Vorrei concludere ancora con il saggio Filosofia della cura. Il cap. 3 (Il nocciolo etico della cura) delinea gli atteggiamenti fondamentali dell’avere cura. Per esempio, abbiamo visto prima, il rispetto e l’ascolto. L’ultimo di questi atteggiamenti fondamentali, secondo l’autrice, è il coraggio, il coraggio di avere cura e di stare dalla parte dei più deboli. La compassione per le loro sofferenze, soprattutto se frutto di ingiustizia, significa anche levare alta la voce per loro. È una cosa a noi ben nota, che l’autrice chiama infatti parrhesia: “una presa di parola pubblica mossa dall’esigenza di denunciare ciò che non va e riportare lo sguardo dell’altro sulla verità delle cose. Si è capaci di parrhesia perché il proprio esserci ha optato per una postura responsabile nei confronti dell’altro e coraggiosa verso chi ha il potere di decidere la qualità della vita. Chi ha cura sta in una relazione responsabile con il reale. Alla radice di questo modo di essere c’è la capacità di sentire intimamente la condizione dell’altro, il lasciarsi toccare dalla sua sofferenza, fare di questo sentire la spinta ad agire con cura” (passim, p. 173; le parti in grassetto le ho evidenziate io).
Ringrazio tutti coloro che, anche prima di queste parole e senza di esse, mi insegnano ogni giorno che cosa significhi avere cura e parlare (nella concretezza dell’esempio) il linguaggio autentico del rispetto e dell’accoglienza.