Il sacro nel quotidiano. Storie di fede e di coraggio nelle vite delle persone transgender
Riflessioni di Carl Siciliano tratte dal suo libro Making Room: Three Decades of Fighting for Beds, Belonging, and a Safe Place for LGBTQ Youth (Fare spazio: tre decenni di lotta per un letto, l’appartenenza e un posto sicuro per i giovani LGBTQ), editore Convergent, 2024, capitolo 1, paragrafo 2, liberamente tradotte dai volontari del Progetto Gionata
SafeSpace, un centro per ragazzi senzatetto di New York (Stati Uniti), si trovava a mezzo isolato da Times Square, in una edificio a tre piani appartenente alla vicina chiesa episcopale di Saint Mary the Virgin, conosciuta affettuosamente come “Smoky Mary’s” per l’abbondante uso di incenso durante le celebrazioni solenni. Una chiesa che attirava molti uomini gay, affascinati dal carattere quasi teatrale del suo sontuoso culto liturgico.
Spesso, mentre ci prendevamo cura dei ragazzi ospiti nel centro per senzatetto, l’aroma dell’incenso e il suono dell’organo della chiesa si avvertivano anche nei locali del centro attraverso le pareti. Ma non servivano organi o incenso per percepire la presenza di Dio al SafeSpace. Era ovunque.
Io percepivo un’aura di divinità in tutti i nostri ragazzi che aiutavama, ma in particolare tra le giovani donne transgender. Ammiravo il loro coraggio, il prezzo che erano disposte a pagare per essere fedeli alla parte più profonda di sé stesse. O, come lo vedevo io, alla parte più profonda della loro anima. Non erano esenti dai difetti comuni all’umanità, ma sembravano ardere di un’autenticità sacra.
Nelle mie letture sulla vita dei santi, ero rimasto colpito dalle misure radicali che molti avevano intrapreso per onorare le verità della loro fede, rinunciando a famiglia, denaro e status sociale. Le giovani donne che frequentavano il SafeSpace non erano meno devote alla loro verità interiore; anche loro avevano rinunciato a tutto. Era un privilegio stare in mezzo a loro.
Se c’era qualcuno che incarnava al massimo la spiritualità grezza presente allo SafeSpace, era Ali Forney. La prima cosa che mi colpì di Ali era il modo in cui viveva il suo genere, diverso da quello degli altri giovani transgender dello SafeSpace. Ali passava fluidamente dal maschile al femminile, tra Ali e la sua alter ego, “Luscious.”
Rispetto ai suoi amici transgender, molti dei quali assumevano ormoni, si presentavano costantemente come donne e aderivano alla loro identità come una questione di vita o di morte, il modo in cui Ali abitava il genere sembrava birichino, come se si divertisse a infrangere i ruoli attesi, trattando il genere come un caleidoscopio in continua trasformazione, un’occasione per rivelare sé stesso. Ali si definiva “un uomo in un vestito e una parrucca.”
Di solito, trascorreva le giornate al SafeSpace vestito da ragazzo, presentandosi come Ali. Dopo cena, però, scendeva nel suo armadietto in cantina e si cambiava in abiti femminili, parrucca e trucco, come Clark Kent che si trasforma in Superwoman. Poi Luscious risaliva le scale in tutta la sua gloria, pronta per una notte di lavoro sessuale per strada.
Durante la mia prima settimana, notai che Ali riempiva il suo zaino con una grandi quantità dei preservativi che mettevano a disposizione degli ospiti del nostro centro. Chiesi a un collega cosa potesse farne di così tanti. “Ali è famoso per questo,” fu la risposta. “Si preoccupa così tanto per i suoi amici che lavorano con lui sul marciapiede, che ogni giorno riempie quello zaino con centinaia di preservativi. Vuole proteggerli dall’HIV.”
Nel nostro edificio, osservavo Ali mentre chiacchierava con lo staff, mentre scherzava sul loro abbigliamento e sulle loro prospettive amorose. Sul suo viso c’era sempre un sorriso radioso, e inclinava la testa verso di loro, e ascoltava con un’attenzione gioiosa. Molti dei ragazzi erano molto più guardinghi—erano stati feriti e traditi così spesso dagli adulti che per loro era difficile fidarsi. Ali non era stato meno ferito, ma c’era qualcosa di straordinario nella sua capacità di essere così generoso con il suo affetto.
Ali brillava di compassione divina in queste interazioni personali, ma fu durante il primo talent show del SafeSpace che sentii davvero che ci portava tutti in chiesa. Lo spettacolo si tenne nella primavera del 1995, in un auditorium a due isolati dal SafeSpace.
Per settimane i ragazzi avevano provato i loro numeri, una combinazione di esibizioni tipiche delle scuole superiori come canti, rap e recitazione di poesie (ma con molto più drag e voguing di quanto mai visto nella mia scuola suburbana del Connecticut). La serata era divertente, esuberante, celebrativa, leggera. Fino a quando Ali salì sul palco e ci guidò inaspettatamente in un territorio più profondo.
Ali chiuse lo spettacolo con un gospel, “His Eye Is on the Sparrow.” Cantava in modo dolorosamente stonato, ma la performance era incredibilmente sentita – aveva gli occhi chiusi, le sue mani gesticolavano espressive, la sua testa si muoveva lentamente da un lato all’altro mentre intonava: “I sing because I’m happy, I sing because I’m free.” Sembrava stesse evocando una parte profonda di sé.
Poi Ali passò a un sermone improvvisato, chiaramente ispirato ai servizi religiosi che aveva frequentato da bambino. Con una combinazione miracolosa di abbandono e padronanza di sé, iniziò a predicare in un ritmo a metà tra il canto e un discorso:
“Credo che un giorno, il Signore tornerà per prendermi. Alleluia. Se vivo rettamente, alleluia, andrò in quel luogo giusto! Credo che un giorno, tutte le mie prove, tutte le mie tribolazioni, saranno finite. Non dovrò più preoccuparmi di piangere e soffrire. Non dovrò più preoccuparmi di essere deluso, perché il mio Dio, tornerà per me.”
Ali camminava avanti e indietro con gravità scherzosa sul fronte del palco, una mano che ogni tanto si schiaffeggiava la gamba o si posava per un momento sull’anca. Ogni frase era sottolineata da un accordo blues sull’organo elettrico. Di tanto in tanto, Ali si fermava e si chinava verso il pubblico per enfatizzare una certa sillaba, a volte prolungandola, più cantata che parlata.
“Che io sia un uomo con un vestito e una parrucca, il mio Dio mi amerà per quello che sono! Potrei non camminare come dovrei. Potrei non fare sesso con chi dovrei. Il mio Dio mi amerà per quello che sono!”
Poi Ali si tolse la parrucca, rivelando corti capelli intrecciati.
“Quindi non preoccupatevi di me, preoccupatevi di voi stessi. Perché finché il mio Dio crede in me, non mi importa cosa dicono gli altri.”
“Il mio Dio mi amerà per quello che sono...”
Non avevo mai assistito a una proclamazione così determinata dell’amore di Dio per le persone queer. Mi colpì come acqua dolce che sgorga in una bocca arida di sete. Guardando Ali, quasi non riuscivo a respirare. Mi sentivo sbalordito, ma anche profondamente sfidato.
Era un momento della mia vita in cui la mia stessa fede vacillava, segnata dal rifiuto della Chiesa cattolica verso le persone LGBT+. Una domanda insistente bruciava dentro di me: come si può assorbire un rifiuto e una perdita così profondi senza esserne schiacciati? L’irruzione di Ali al talent show mi diede speranza per una risposta.
Ali, era un ragazzo che aveva affrontato più avversità, abusi e rifiuti di quanti potessi immaginare, non ne era stato distrutto. Si rifiutava di essere intrappolata nell’amarezza.
Era ancorata a un amore così vasto da rendere le ostilità e i rifiuti che mi avevano sradicato insignificanti come granelli di polvere.
Capii allora che mi trovavo in compagnia di qualcuno di straordinario. Ciò che non avevo idea allora era il potere che il cuore di Ali aveva di riparare tanto di ciò che era stato rotto nelle vite degli altri giovani queer emarginati e nella risposta del mondo verso di loro. E il potere che aveva di trasformare alcune delle cose spezzate dentro di me.
Testo originale: Lives of the Saints