Il valore della legge nella teologia negativa sulle persone transgender
Testo di Austen Hartke tratto da “Transforming: The Bible and the Lives of Transgender Christians” (Trasformazioni. La Bibbia e le vite dei cristiani transgender), editore Westminster John Knox Press, 2018, 225 pagine), capitolo 3, liberamente tradotto da Diana di Torino, revisione di Giovanna di Parma
Non sappiamo perché le persone siano transgender. Non conosciamo ancora le ragioni scientifiche o mediche per cui una perte delle persone – 1,4 milioni di persone solo negli Stati Uniti – posseggano un’identità di genere che non concorda col sesso assegnato alla nascita. Potrebbero essere gli ormoni a cui siamo sottoposti nel grembo materno? Potrebbe essere causato da un materiale genetico delinquente? Forse potrebbe essere il modo in cui si forma il nostro cervello nei primi due anni di vita, quando apprendiamo tanto in poco tempo. O forse c’è una sorta di componente appresa che ha a che fare col modo in cui percepiamo il genere durante la crescita? Forse si tratta di una combinazione di tutti questi fattori. Comunque, finora è ancora un mistero.
Ma proprio come conoscevamo solo la storia sull’arcobaleno donatoci da Dio alla fine del diluvio, prima di compredere i prismi e il potere della rifrazione della luce, il fatto di non comprendere ancora la scienza che sta dietro il genere, non ci ha fermato nella nostra ricerca di capire teologicamente le nostre identità.
Alcuni cristiani considerano l’identità transgender un peccato. Altri pensano che le persone con disforia di genere non siano né buone né cattive, ma semplicemente abbiano una specie di malattia mentale. Un terzo gruppo vede le persone transgender come un’espressione della diversità nella creazione. Allora di che si tratta? Essere transgender è un peccato, una malattia o una caratteristica speciale?
Nel 2015 lo psicologo cristiano Mark Yarhouse pubblicò un libro in cui scavava a fondo su questi diversi punti di vista. Col libro “Understanding Gender Disphoria: Navigating Transgender Issues in a Changing Culture” (Comprendere la disforia di genere: affrontare i temi transgender in una cultura che cambia, InterVarsity Press, 2015) lo scrittore descrisse una struttura (teologica) in tre parti per comprendere ognuna di queste posizioni, nella speranza che le persone con opinioni differenti potessero essere in grado di aver un dialogo più produttivo, senza arroccarsi sui propri punti di vista. Esaminiamo ognuna di queste tre strutture – e i sostenitori e la teologia che ci stanno dietro – per capire meglio a che punto siamo della discussione.
Yarhouse definisce il primo modo di comprendere l’identità transgender “struttura di integrità”. Chi sostiene questa struttura considera il conflitto fra il sesso assegnato alla nascita e l’identità di genere peccaminoso perché crea disordine in quello che ritengono il disegno di Dio nel darci un determinato sesso. Da questo punto di vista, le persone transgender esistono perché le persone sono destinate ad andare fuori strada e i fautori di questa tesi tendono a vedere ogni tentativo di allontanarsi dal sesso assegnato alla nascita come una ribellione a ciò che Dio ha ordinato.
Yarhouse cita Robert Gagnon, un teologo noto per la sua condanna verso le relazioni omosessuali e gli orientamenti sessuali emarginati, come esempio di coloro che credono che il genere sia predeterminato e scolpito nella pietra. Per Gagnon, la radice del problema con le identità transgender ha a che fare con la complementarità di genere. Egli pensa che “ci siano solo due sessi principali, maschio e femmina, o un uomo e una donna, e che il rapporto sessuale rappresenti la fusione di due metà dello spettro sessuale.
Ciò che un uomo porta in tavola, per così dire, in un’unione sessuale è la sua mascolinità essenziale, mentre la donna porta la sua femminilità essenziale”. I complementari di genere ritengono che “le distinzioni in ruoli maschili e femminili siano ordinate da Dio come parte dell’ordine creato e dovrebbero trovare un’eco in ogni cuore umano”. Di conseguenza tutti coloro nei quali l’identità di genere non combacia con il sesso assegnato alla nascita rappresentano un problema.
O piuttosto due problemi. Il primo, secondo la struttura di integrità, riguarda il fatto che la persona transgender non adempie al genere di ruolo assegnatogli nella vita di tutti i giorni. Gli uomini dovrebbero essere protettivi, provvedere al sostentamento ed essere dei capi, mentre le donne dovrebbero provvedere all’educazione, fornire aiuto ed essere sottomesse agli uomini.
In secondo luogo, la complementarietà di genere richiede che ogni persona si accoppi sessualmente con una persona del sesso opposto. Ma qual è l’opposto di una persona non binaria? E se un uomo transgender dovesse uscire con un uomo cisgender (la loro relazione in questo caso dovrebbe essere considerata gay) oppure con una donna cisgender (in questo caso l’uomo transgender deve essere riconosciuto come completamente maschio)? Nel momento in cui una persona transgender cerca di esistere all’interno della struttura della complementarietà, le cose iniziano a complicarsi.
Dal punto di vista della struttura di integrità, ogni persona la cui identità di genere non combacia col sesso assegnato deve trovare il modo di mettersi in riga. La persona transgender viene incoraggiata a considerare la disforia e la lotta interiore tra l’identità di genere e il sesso assegnato come una croce da portare o una parte della carne da crocifiggere per diventare una nuova creazione in Cristo. La deviazione dal ruolo di genere assegnato è considerata peccaminosa ed è necessario il pentimento.
Non sorprende che le persone transgender che vivono in questo contesto o per scelta o per mancanza di altre opzioni spesso sono piene di vergogna e odio verso se stesse. Quante volte tu potrai far rotolare il masso su per la collina prima di renderti conto che, indipendentemente da quanto tu spinga e preghi, quel masso continuerà a rotolare giù!
La forza reale della struttura di integrità consiste nel focalizzarsi sull’autorità biblica e sul desiderio di seguire la volontà di Dio nella nostra vita. Per la maggior parte dei cristiani, compresi quelli transgender, questi due fattori sono estremamente importanti. Ma cosa succede se la Bibbia non descrive, in effetti, l’umanità ben divisa in uomini e donne cisgender (un argomento di cui parleremo diffusamente nel cap. 4)? E se i ruoli di genere che la struttura di integrità premia non fossero ordinati da Dio, ma creati dall’uomo (ne discuteremo nel cap.5)?
La seconda struttura presentata da Yarhouse viene denominata “struttura della disabilità”. Egli spiega che in questa struttura “la disforia di genere viene vista come il risultato di vivere in un mondo decaduto la cui condizione – come per parecchie malattie mentali – è una realtà non morale”. Yarhouse è riluttante a riferirsi a queste persone come transgender. Come psicologo e maggior sostenitore di questo punto di vista, non considera queste persone come transgender, ma piuttosto individui che stanno combattendo una malattia mentale che ha la forma di disforia di genere. Egli spiega: “La persona può aver scelte da compiere associate alla sua risposta ai sintomi o all’approccio generale al trattamento…e quelle scelte possono avere dimensioni morali ed etiche, ma la loro condizione non è quella che hanno scelto; quindi sono moralmente colpevoli”.
Ecco la differenza tra la struttura di integrità e quella di disabilità: nella prima la persona transgender disobbedisce volontariamente a Dio; nella seconda la persona è una vittima del peccato originale come ogni essere umano. Tale distinzione può significare un cambiamento radicale nel comportamento verso le persone transgender, perché esse possano ricevere una cura pastorale compassionevole che non li faccia vergognare per i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro esperienze. Il duro lavoro di Yarhouse mira a creare un ponte per spostare i cristiani da una visione accusatoria ad una compassionevole, e per alcune persone transgender questo cambiamento può salvare loro la vita.
Nel mettere in relazione la disforia di genere con la caduta dell’uomo, Yarhouse dice: “Penso che la caduta possa essere vista nella mancanza di congruenza tra il sesso alla nascita e il senso psicologico dell’identità di genere, in particolare quando questo è abbastanza forte da provocare angoscia e un senso di menomazione”.
In senso teologico, può avere un senso considerare le cose che causano dolore e sofferenza nel nostro mondo siano il risultato della caduta dell’umanità e della disobbedienza dopo la creazione, ma non tutte le sofferenze sono uguali.
Per esempio, se un tornado distrugge la vostra casa, la sofferenza che provate non dipende da voi o da qualcun altro. I disastri capitano e, come disse Gesù quando cadde la torre di Siloe, i feriti in quell’occasione non erano peccatori peggiori di altri. Poi c’è il tipo di sofferenza che potresti provare quando tiri un pugno a un muro di mattoni. In questo caso la colpa è tua e potrebbe dipendere da un tuo problema per cui ti serve consulenza.
Storicamente abbiamo compreso che l’odio e la rabbia derivano dal peccato, quindi, se quando colpisci il muro sei spinto da questi sentimenti, potremmo in teoria legare la tua sofferenza alla caduta. Sperimenteresti un terzo tipo di sofferenza se uno sconosciuto si avvicinasse per strada colpendoti alla mascella senza nessuna ragione. In questo caso non hai fatto nulla di sbagliato, e anche se si parlasse di peccato, la colpa sarebbe solo dello sconosciuto. Quest’ultimo tipo di sofferenza – quella proveniente dall’esterno – viene sperimentata molto spesso dalle persone transgender.
Le persone transgender sperimentano soprattutto depressione, ansia, abuso di droghe e suicidio. Per questo motivo alcuni hanno cercato di sostenere che le identità transgender siano intrinsecamente collegate alla malattia mentale. Come illustrato nel cap. 1, questi problemi sono direttamente legati allo stress da minoranza – eventi o condizioni che le minoranze sperimentano e che vanno oltre la capacità di sopportazione di una persona media e che possono causare malattie mentali o fisiche. Tali eventi e condizioni possono comprendere la mancanza di strutture sociali in cui si trovino persone simili a loro; mancanza di accesso a istituzioni o risorse a causa della loro identità; abusi verbali, fisici o mentali per le loro diversità; essere soggetti a stereotipi; interiorizzare i giudizi negativi degli altri; e la mancanza di speranza che in futuro le cose possano cambiare. Possiamo vedere un chiaro esempio di questo tipo di stress negli studi sui giovani LGBTQ che rilevano che “maggiori sono le aspettative di rifiuto di un giovane in base alla sua identità sessuale/di genere più è probabile che riferisca sintomi di ansia, depressione e intenti suicidi”.
Mentre lo stress delle minoranze viene sperimentato da tutte le persone emarginate, diversi gruppi lo sperimentano in modi unici. Per le persone transgender lo stress può essere raggruppato in quattro categorie generali: rifiuto, non affermazione, vittimizzazione e discriminazione. Queste esperienze feriscono nell’intimo la persona e portano a transfobia interiorizzata, aspettative di reazioni negative da parte degli altri e al voler nascondere chi si è e i propri sentimenti. Tenendo conto di tutte queste pressioni, non stupisce che le persone transgender soffrano, ma questa sofferenza non rappresenta il peccato originale che si manifesta in loro. È la conseguenza della caduta che si manifesta nel modo in cui gli esseri umani si trattano tra di loro.
Ma cosa dire della lotta interiore di una persona transgender tra il sesso assegnato alla nascita e il genere che sentono proprio? Per alcune persone transgender sono solo le aspettative di genere sostenute dagli altri a causare un problema. Queste aspettative iniziano quando viene assegnato il sesso alla nascita da un’altra persona e continuano tutta la vita, perché il sesso assegnato è quello che tutti continuano a sostenere come l’unico reale. Si tratta quindi di un problema esterno che viene interiorizzato.
Per un altro gruppo di persone transgender la disforia di genere che sentono esisterebbe comunque, anche se venissero portati su un’isola deserta. In questi casi l’ansia è relativa al corpo che non combacia col proprio io interiore. Questo è l’unico caso in cui potrebbe essere giustificabile pensare alla disforia di genere come a una conseguenza della caduta – quando una persona trans sperimenta una sofferenza né autoinflitta, né causata da altri.
Però, solo perché questa sofferenza può essere causata dal peccato originale, non significa che allontanarsi da tale sofferenza verso l’affermazione della propria identità di genere sia un peccato. Sebbene si possa credere che le imperfezioni della vista, per esempio, siano legate alla caduta, ciò non significa che portare gli occhiali sia sbagliato (ne parleremo di più nel cap. 11).
Il principale difetto della struttura di disabilità è il rifiuto di riconoscere i diversi tipi di sofferenza delle persone transgender. Partendo dal presupposto che tutta la sofferenza vissuta dalle persone transgender è il risultato di tale identità, questa struttura di disabilità lascia gli individui e le istituzioni che non riconoscono l’affermazione dell’identità di genere prive di colpa per il danno che causano. Invece, guardando alle persone transgender attraverso una lente clinica, si suggerisce che siano le persone transgender a doversi uniformare agli altri, piuttosto che cambiare quanto rappresenta una costrizione.
Poiché Yarhouse comincia dal presupposto che i sessi binari maschio e femmina siano stati ordinati da Dio, il trattamento suggerito nella struttura di disabilità consiste nell’alleviare la disforia di genere della persona transgender cercando di farla rientrare nel genere attribuito alla nascita. “Vedo il valore nell’incoraggiare le persone che soffrono di disforia di genere a risolvere la disforia allineandosi al loro sesso di nascita”, spiega Yarhouse nel capitolo sulla prevenzione e il trattamento. “Dove quelle strategie non hanno successo c’è un potenziale valore nella gestione della disforia con misure meno invasive (ritenendo la chirurgia il mezzo più invasivo verso l’espressione del proprio senso di identità)”.
Per coloro che vogliono gestire la disforia di genere trovando un modo per identificarsi nel sesso assegnato alla nascita, i metodi di Yarhouse possono essere i benvenuti. Naturalmente un terapeuta che agisce con compassione con un paziente aiutandolo in un’esperienza difficile è meglio di chi cerca di cambiare il paziente facendolo sentire in colpa e pieno di vergogna. Ma per le persone transgender che vogliono effettuare la transizione – sociale o medica – questa struttura può apparire frustrante nel migliore dei casi e dolorosa nel peggiore dei casi.
Sebbene lo stesso Yarhouse non possa scoraggiare attivamente nessuno che voglia effettuare la transizione, la struttura di disabilità tratta l’identità della persona transgender come una malattia da curare e, nelle mani di altri terapeuti della salute mentale, potrebbe diventare una scusa per la terapia riparativa che, come visto nel caso di Leelah Alcorn, può causare danni irreversibili specialmente nei bambini e nei giovani. Ma se esistesse un’altra opzione?
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