«Interiorità e incontro con Dio» nella vita di un cristiano LGBT+

Intervento tenuto da Luigi Testa alla “3giorni.Tanti linguaggi, un solo Vangelo” de La Tenda di Gionata (Albano Laziale, 13-15 giugno 2025) il 14 giugno 2025
1. È necessaria una premessa, che è tutt’altro che una formula di stile. Non ho alcuna competenza professionale nel campo teologico, tanto meno in quello spirituale. L’unica cosa che posso fare, per corrispondere al vostro invito, è condividere parte della mia esperienza spirituale, che, come tale, costituisce tutt’altro che un approdo definitivo, certamente del tutto personale e dunque senza alcuna pretesa di universalizzazione, e senza alcuna garanzia di non falsificabilità.
D’altra parte, con la Via crucis di un ragazzo gay (Castelvecchi, 2024) non ho fatto che questo: quel testo – come ogni mio altro testo spirituale, in realtà – non è altro che la scrittura della mia vita interiore, presa, così com’è, e condivisa con chiunque ci si imbatta.
Mi porto ancora dentro, anche se un po’ attenuato, l’interrogativo che mi facevo mentre mi chiedevo – provocato da don Sergio Massironi – se pubblicare quelle pagine: quanto è giusto strappare qualcosa all’intimità della mia vita con il Signore Gesù per darlo ad altri che non siano io e Lui? non si rischia così di perderne il profumo – ammesso che un profumo ci sia?
Eppure, le pagine del Vangelo ci insegnano che quando si rompono i vasi, il profumo non si disperde, ma riempie tutta la casa. E io spero che sia così anche per questa intimità che strappo alle stanze segrete del mio cuore, perché si riempia “tutta la casa” con quella tenerezza, profumata più del nardo, che il Cuore del Signore riversare su di me, e non viceversa.
E mi pare che così siamo entrati già in pieno nella cornice che il titolo di questo laboratorio ci ritaglia: «Interiorità e incontro con Dio». É in questo spazio, infatti, che si versano i profumi, che si rompono i vasi preziosi, che si sperpera la tenerezza, che si tessono le trame passionali delle notti d’amore con Dio: qui i baci, qui le carezze, qui le parole, i segreti, le confidenze.
Ed è Lui ad attirarci in questo spazio – «La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» –: a noi è richiesto solo il consenso, solo la scelta di lasciarci portare, di lasciarci guidare in questa danza stretti a Lui.
Ritornare in noi, lasciare tutto fuori, raggiungere quella stanza in noi – solo noi ne conosciamo la strada, e mano a mano che ci avviciniamo si stemperano fino a scomparire le voci di fuori – in cui siamo sono noi – io e Lui; e metterci a ballare con Lui, stretti a Lui, con la testa poggiata sulla sua spalla.
È questa la realtà – noi stretti a Lui – non tutto il resto. Se non vi siete mai messi a ballare con Lui, provateci, realizzatelo – se no che stiamo a fare qui? La vita cristiana non è imparare ad essere buoni; lasciate perdere le virtù; la vita cristiana è danzare con Lui.
2. Nel 2019, sono stato per qualche mese ad Oxford, per ragioni universitarie, e lì ho potuto “frequentare” John Henry Newman, anglicano convertitosi al cattolicesimo nel XIX secolo: vi invito a scoprirlo.
In un sermone scriveva – e in me queste parole hanno risuonato come un’eco fortissima: «Non c’è altro che due cose sole, nell’intero universo: la nostra anima, e Dio che l’ha fatta»[1]. La solitudine dell’io dinanzi alla presenza di Dio – io e Lui, e basta – «due cose sole». Questo vale non solo su un piano spirituale, ma – come ogni cosa spirituale – vale anzitutto su un piano reale.
Il piano spirituale noi lo intendiamo: comprendiamo bene il senso di ritagliarci spazi di solitudine con il Signore, come d’altra parte Egli stesso ci ha insegnato anzitutto con l’esempio delle sue notti a parlare con il Padre, in disparte. Ricordiamo anche forse che il nostro è un Dio geloso, che desidera spazi di intimità esclusiva con ciascuno di noi – che desidera che ci ritiriamo nella stanza che solo noi conosciamo, nella «cella del vino» (Ct 2,4), per ballare con Lui.
Ma se è valido sul piano spirituale, è perché, nello svelamento delle cose, questo «due cose sole: io e Lui» è vero già su un piano reale.
La vita spirituale – o forse sarebbe meglio dire la vita di preghiera – non è altro che lo sforzo umano adiuvato dalla grazia di prendere coscienza di ciò che, sul piano reale, Dio ha già definitivamente e irrevocabilmente realizzato.
(Assumendomi la responsabilità dell’azzardo teologico che sto per fare[2]), l’Incarnazione – che è pensata sin dall’eternità, insieme alla creazione: Dio non conosce tempi successivi – supera il paradosso della Creazione; e il paradosso sta nel fatto che Dio, per definizione, non può avere altro da sé. Ma infatti Dio non ha altro da sé, perché tutto ciò che è creato – l’umanità, certo, in prima battuta, ma l’umanità con tutti i suoi valori, in senso cosmico – è portata in Dio, a motivo dell’Incarnazione del Verbo. Tutto Egli assume, e, assunto ma non distrutto – come il roveto che arde ma non consuma –, il Verbo porta tutto in Dio. Così, io esisto nel Figlio – tutti esistiamo nel Figlio – non c’è nulla che esiste che non sia nel Figlio. E dunque c’è solo il Figlio, al cospetto del Padre, presso Dio, pros ton Theòn (Gv 1,1), nell’unico Amore che spira da entrambi. Dunque davvero non c’è niente altro nell’universo e nella storia, che io – nel Figlio – e il Padre. Ci sono io, unito al Figlio, pros ton Theòn, al cospetto di Dio Padre: «null’altro, nell’intero universo».
In quest’orizzonte, è d’altra parte neutralizzato facilmente il rischio più grande che potrebbe derivare da una certa lettura delle parole di Newman, e dunque da un certo modo di vivere la relazione con il Signore, che è il rischio dell’isolamento.
Sempre in quella dialettica tra spirituale e reale, sul piano spirituale non ci può essere isolamento in questo «due cose sole: io e Lui», perché sul piano reale io sono uno con Cristo insieme a tutta l’umanità: «In Illo uno unum», abbiamo riscoperto – se mai l’avessimo perso – in queste ultime settimane.
Si tratta di continuare – sul piano spirituale, perché sul piano reale è già perfetta – quella assunzione dell’umanità che il Verbo di Dio compie nella sua Incarnazione: ora sono io, che, per Ipsum, cum Ipso et in Ipso, assumo tutta l’umanità e la porto pros ton Theòn. Innestato in Cristo, e dunque coinvolto nella dinamica dell’Incarnazione, io posso mettermi davanti a Dio come il tutto, come tutto il creato – sul quale esercito un sacerdozio regale –, assumendo tutta l’umanità.
D’altra parte, se ci pensiamo, anche da un punto di vista meramente umano, non c’è alcuna esperienza umana vera e piena che non diventi parte di noi, che noi non assumiamo – tutto ciò che incontriamo nel percorso della nostra umanità, le ferite, le bellezze, le gioie, le lacrime, le fatiche, il volto di quel ragazzo, gli occhi di quel bambino, ma anche il profumo del gelsomino o del glicine, la bellezza del mare, tutto questo noi ce lo teniamo addosso, lo trasciniamo con noi, in noi, nello spazio davanti a Lui, pros ton Theòn, e allora davvero non c’è niente altro fuori: «due cose sole: io e Lui». Sta qui la nostra funzione sacerdotale: prendere tutto l’universo, abbracciarlo tutto, e portarlo, in noi, al Padre.
Nelle pieghe di questo discorso trova posto una nota della preghiera cristiana, che mi piace evocare in questo mese di giugno, dedicato tradizionalmente al Cuore di Gesù, e che rientra in quei temi che mi pare sia necessario strappare all’appropriazione culturale di certo cattolicesimo retrivo: sto parlando della “riparazione”.
Papa Francesco, nella sua Dilexit nos, usa parole splendide, a questo proposito: si tratta – scrive – di «offrire al Cuore di Cristo una nuova possibilità di diffondere in questo mondo le fiamme della sua ardente tenerezza» [200]. Il tema è teologicamente denso e per nulla facile, e forse non sono nitidissimi i confini tra “riparazione” ed “intercessione”, ma, ancora, parlo solo della mia esperienza personale, senza pretesa di scientificità.
Ebbene, fondamento della preghiera di riparazione è prendere coscienza di quel «due cose sole: io e Lui». Io – che assumo in me tutta l’umanità, che conosco o che non conosco, e dunque assumo anche le sue fragilità, le sue colpe, i suoi delitti – e tutto porto, in un atto unificato, davanti a Lui.
Voi capite che, se è così, non c’è bestemmia che non sia mia; non c’è omicidio che non sia mio; non c’è aggressione omofoba che non sia, in qualche modo, mia. Non posso scegliere di assumere solo quella parte di umanità buona, senza colpe: Gesù non ha fatto certo così.
E allora io devo chiedere perdono per queste bestemmie, per questi omicidi, per queste aggressioni omofobe, come se fossero mie. E dobbiamo chiedere al Signore che ci aiuti a fare questa preghiera nella sincerità del cuore, senza vagheggiamenti di eroismo spiritualista. Bisogna mettersi davanti al Signore e dirgli: «Guarda che io sono una cosa sola con questi: se tu condanni loro, condanni anche me. Che facciamo? Ci mandi tutti all’inferno?». (Scusate il linguaggio fuori moda, ma anche qui è necessaria forse una ri-appropriazione culturale). «O tutti, o nessuno, Signore».
In tutta semplicità, e ringraziando Dio per questo, confesso che ho capito che forse amavo davvero qualcuno quando mi sono trovato a dire sinceramente «Gesù, in paradiso insieme, eh. Se ci separi, io vado con lui». E anzi, mi viene in mente una serata di settembre 2023, a Milano, in un locale gay di Porta Venezia. È stata la serata in cui ha cominciato a farsi strada l’idea di pubblicare la Via crucis. C’era suor Teresa Forcades, e tante e tanti ragazze e ragazzi. Ad un certo punto, una persona trans dice: «Il cappellano dell’Università mi ha detto che vado all’inferno; è vero?». E suor Teresa risponde d’impulso: «Se vai all’inferno, vengo anche io con te». Per forza: perché siamo tutti una sola cosa, davanti a Lui.
3. «Due cose sole: io e Lui»: è questo lo spazio in cui si è andata tessendo la Via crucis che conoscete. Lo spazio in cui «cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore» – è il motto episcopale proprio di John Henry Newman. E a farmi molta paura ero lo sguardo di chi, estraneo a questo «cuore a cuore», non ne capisse il linguaggio, forse troppo passionale, pieno di eros per nulla celato.
È stata questa paura a farmi aggiungere, in corso di pubblicazione, quel prologo che trovate all’inizio: «Ancora oggi lo ripeti e mi difendi – “lasciatelo fare” – quando io mi avvicino e ti bacio come so baciarti, ti accarezzo come so accarezzarti, ti amo come so amarti. […] Che ne sanno gli altri di come ci amiamo io e Te».
Mi pare che qui il tema del nostro laboratorio «Interiorità e incontro con Dio» si incroci con il tema generale di questi tre giorni «Tanti linguaggi, un solo Vangelo», perché, nello spazio dell’interiorità, l’incontro con Dio – con l’unico Dio – si tesse in tanti linguaggi, ciascuno diverso e particolarissimo, per cui davvero ciascuno può dire in verità: «Che ne sanno gli altri di come ci amiamo io e Te».
Se ciascuno di noi è il termine di tutto l’amore di Dio, perché Dio non può dividersi, questo amore si riversa nei nostri cuori prendendo le forme del nostro cuore; Egli ci parla con il linguaggio che il nostro cuore intende, che il nostro cuore desidera, cerca, capisce. E allora abbiamo tanti linguaggi quante sono le esperienze personali di ciascuno di noi, tutti con eguale dignità, e tutti con eguale verità.
A chi dobbiamo credere – a Francesco d’Assisi, cui Gesù parla con linguaggio cavalleresco della sua epoca, quasi con logica feudale, spronandolo a servire il Padrone e non il Servo; o a Teresa di Lisieux, che si vede bimba innalzata in cielo dalle braccia del suo Signore dal cuore caldo di tenerezza? Quale dei due Gesù è vero? O forse è cambiato Gesù? Ad essere cambiato, piuttosto, è il cuore cui Gesù parla. E se avesse parlato di cavalieri, di padroni e di servi alla piccola Teresa, Teresa non se ne sarebbe innamorata; così come se avesse parlato al giovane e impetuoso Francesco di fiorellini, Francesco non se ne sarebbe appassionato. Dio usa con ciascuno di noi un linguaggio unico, che entra in sintonia con le nostre biografie.
D’altra parte, a proposito della divina rivelazione, il Concilio insegna, in Dei Verbum, che «le parole di Dio, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile all’uomo» (13). Possiamo forse credere che una eguale «ammirabile condiscendenza» Dio la eserciti anche nello spazio del «cuore a cuore».
A questo punto, abbiamo tutti gli elementi per formulare e condividere un interrogativo che da sempre mi porto dentro, e che rischia di essere un terreno franoso – me ne rendo conto. Posto che ci sono «tanti linguaggi, un solo Vangelo» – tanti linguaggi quanti sono i nostri cuori, un solo Amore, quello del Signore Gesù che ci parla come il nostro cuore parla –, e posto che un modo di chiamare questi linguaggi nell’«interiorità e [nell’]incontro con Dio» è “spiritualità” – mi chiedo: esiste una spiritualità propria delle persone omosessuali?
La tradizione cristiana, a volte eccedendo a danno dell’unicità della vocazione battesimale, ha conosciuto diverse spiritualità: la spiritualità del padre di famiglia, della madre di famiglia, della persona lavoratrice, della persona celibe, della persona coniugata – mi vengono in mente, tra le altre, le riflessioni di Francesco di Sales, in cui tutto questo emerge. Può esistere una spiritualità delle persone omosessuali? Che, tradotto nei termini che abbiamo introdotto prima, suona: esiste un modo tipico in cui Dio parla al cuore di una persona omosessuale?
Due caveat, prima di abbozzare una risposta. Il primo: voi capite che sto tentando una generalizzazione ed un’astrazione che è sempre un’approssimazione della realtà. D’altra parte, non esiste la persona omosessuale, ma le persone omosessuali, e quindi ci sarebbero – di nuovo – «tanti linguaggi», quante sono le persone. Provo però ad individuare alcuni elementi comuni, ricorrenti, che ho ritrovato nella mia esperienza personale e in quella delle persone con cui ho avuto maggiore comunione spirituale.
Il secondo – ma questo vale per ogni spiritualità, e per ciascuno di noi. La condiscendenza di Dio che parla il linguaggio del nostro cuore non esaurisce il mistero di Dio, che è sempre «di più». Non è un male che ciascuno segua il corso della sua personale spiritualità, sempre tuttavia ricordando a se stessi, che Dio è «di più», e non può essere ridotto ad un figurino monodimensionale. Egli è Sposo, ma è anche Re; è Amico, ma è anche Signore; è Padre, ma anche Madre; è Compagno, ma anche Giudice; è Maestro, ma anche Vittima; e va bene “frequentare” o l’uno o l’altro, purché non si riduca Dio al linguaggio del nostro cuore. Linguaggio, peraltro, che può cambiare nel tempo anche nella nostra esperienza personale: magari il giovane Francesco non si sarebbe appassionato al modo in cui Dio parlava alla piccola Teresa, ma forse quel linguaggio era invece ben conosciuto dal Francesco maturo degli ultimi mesi della sua vita.
4. Dunque, con tutte le precauzioni del caso, torniamo alla nostra domanda: si possono individuare i caratteri di una spiritualità delle persone omosessuali? Se Dio si adatta al linguaggio del cuore umano, la domanda da farsi prima è: che lingua parla il cuore delle persone omosessuali? (Mi scuso per le generalizzazioni: ma questo valga come scusa per tutti i passaggi successivi, senza necessità di ripetizione). Scomponiamo meglio la domanda. La lingua è strumento di comunicazione anzitutto del bisogno: il bambino comincia a parlare quando deve comunicare un bisogno. Allora: che bisogno esprime il cuore delle persone omosessuali, e che linguaggio usa per comunicare questo bisogno?
La prima domanda è facile: il cuore delle persone omosessuali esprime il bisogno che è proprio di ogni cuore – e dunque di ogni persona considerata nella sua essenzialità: un bisogno di riconoscimento. Userò il linguaggio di Lacan nella mediazione che ne fa Massimo Recalcati: il cuore umano vuole che una voce esterna – perché la «legge del non tutto», l’inaccessibilità della completezza, la legge della castrazione, impedisce che sia una voce interna – gli dica «Io non posso fare a meno di te». La cifra essenziale dell’essere umano è il desiderio del desiderio, dice Lacan: si desidera essere desiderati, si desidera essere percepiti come necessari, insostituibili – «Io non posso fare a meno di te».
Ma, attenzione, poiché si tratta di una cifra costitutiva dell’essere umano, questo desiderio è di per sé inesauribile: nessuno potrà darci la parola del riconoscimento in maniera convincente e definitiva. Si tratta di una visione perfettamente cristiana: il desiderio del nostro cuore ha la forma di Dio, e dunque non potrà mai essere risolto se non da Dio; qualunque altra cosa lascerà sempre accesa una quota irriducibile di desiderio. Solo Dio può dirci la parola di riconoscimento definitiva che attendiamo: «Tu sei mio figlio»; solo Dio può pronunciare in maniera assoluta il «Tu» che costituisce la nostra identità; solo Lui può dirci in maniera convincente – e nel mistero della Pasqua realmente ce lo dice – «Io non posso fare a meno di te».
Sono sicuro, peraltro, che questo bisogno emerge, nelle persone omosessuali, in una maniera più violenta, più graffiante, a motivo della fatica che la domanda di riconoscimento porta con sé nelle nostre biografie.
Ora, una volta che abbiamo capito quale bisogno esprime il nostro cuore, passiamo alla seconda domanda: con che linguaggio lo esprime? Qui è bene rinunciare alle generalizzazioni: ciascuno di noi rivolga la propria attenzione interiore al suo proprio desiderio di essere desiderato – alla sua propria domanda di riconoscimento – e si chieda che linguaggio, che grammatica, che sintassi parlano questa domanda e questo desiderio. Io posso rispondere solo per me stesso, anche se sono sicuro che in molti diremmo più o meno le stesse cose.
La mia domanda ha il linguaggio di un desiderio che non si lascia domare, appassionato, molto fisico, che ha la cifra dell’eccesso, sensuale. Dio può parlare il linguaggio di un desiderio così? Perché se parla un altro linguaggio, il mio cuore rischia di non capirlo.
Dio parla (anche) il linguaggio di un desiderio così. Per lo spazio della meditazione personale che ciascuno di noi si prenderà dopo ho dato alcuni suggerimenti dalla Scritture[3], che sono solo alcune della pagine in cui si sente pulsare questo desiderio nuziale, indomabile, appassionato, fisico, all’eccesso, sensuale. Certo: Dio parla anche un linguaggio sensuale; io raramente ho trovato allusioni più sensuali ed esplicite di quelle di cui è pieno il Cantico dei Cantici.
Dio non desidera da noi un rapporto “in bianco”, in cui ci si guarda negli occhi e basta: no, no, Dio vuole fare l’amore con il suo popolo, con me, con te, con ciascuno di noi.
D’altra parte, scusate, noi per secoli abbiamo chiamato la croce «talamo», e ancora lo chiamiamo così, nella traduzione del Vexilla regis nella Liturgia delle Ore. La forza della parola è stemperata dal suo carattere desueto, ma il talamo è la stanza da letto nuziale, anzi, di più, è il letto nuziale, e che si fa sul letto nuziale?
«Vabbè, ma quelle sono nozze spirituali» – E certo, perché, nell’economia presente, non abbiamo accesso all’umanità glorificata di Cristo. Ma attenzione, perché – lo abbiamo detto – dire che una cosa è spirituale non significa dimidiarne la verità, la realtà. Lo spirituale semplicemente significa la Realtà cui, per la finitezza della nostra natura sensibile, non riusciamo ora ad accedere. Ma quello che lo spirituale significa è più Reale di quello che noi percepiamo nella nostra piccolezza. Il bacio che Cristo mi da è ben più reale dei baci che io do alla persona di cui sono innamorato.
Noi dobbiamo lasciare a Dio il diritto di parlarci – se vuole farlo – con questo linguaggio sponsale, appassionato, quasi sensuale. Certo, non tutti ne avranno bisogno, ma, dall’esperienza, riporto la sensazione che corrisponderebbe al cuore di molte persone omosessuali, e non solo, almeno in un certo stadio di maturità affettiva.
Mi pare dunque sia possibile una spiritualità delle persone omosessuali – tra le altre possibili – di tipo sponsale, che abbia le cifre di un desiderio passionale, e che legga quella quota irriducibile di desiderio – di cui parlavo prima – come quella «spina nella carne» di cui parla Paolo (2Cor 12,7) che ci ricorda che solo Lui ci sazierà.
Devo dire che la Via crucis che conoscete – così come in generale il mio impegno di scrittura – muove (anche) da questa idea: che sia necessario proporre questa spiritualità dai caratteri che ho cercato qui confusamente di porre in rilievo.
C’è stata negli ultimi decenni, per fortuna, una intensa produzione di natura teologica, o storico-ricostruttiva, ancor più pastorale, dedicata a fede ed omosessualità. Non mi pare che ci sia stata, purtroppo, una egualmente intensa letteratura spirituale, eppure bisogna incontrare l’amore prima di aver incontrato la morale. E, per incontrare l’amore, bisogna tornare – ed aiutare a tornare – a quel «due cose sole: io e Lui».
*Luigi Testa è autore di testi a carattere giuridico e scrive su alcuni quotidiani nazionali. “Via crucis di un ragazzo gay” (Castelvecchi, 2024) è il suo primo libro di natura spirituale, altre sue riflessioni sono pubblicate anche su Gionata.org
[1] J.H.Newman, Sermon 2. The Immortality of the Soul, in Parochial and Plain Sermons, Volume 1: «There are but two beings in the whole universe, our own soul, and the God who made it».
[2] Le riflessioni sono ispirate dalla riflessione di Divo Barsotti, soprattutto in Il Signore è uno, 1962, ult. ed. 2013.
[3] Osea 2,16-22; Isaia 62,1-5; Cantico 1 e 2,1-6; Cantico 8,6-7; Isaia 43,1-4.