Io cattolico e gay voglio diventare banale

Il 18 novembre 1999 i cattolici omosessuali scrissero una lettera al cardinal Ruini, allora presidente della Cei. Alla Chiesa chiedevano di dire con chiarezza che la salvezza è per tutti (gay inclusi) e di condannare le aggressioni di omosessuali.
Dieci anni dopo nelle parrocchie sono spuntate esperienze pastorali più inclusive ma il Magistero non è cambiato e i cattolici omosessuali ancora sperano in una decisa presa di distanza dall’omofobia.
Perché stare in una Chiesa che condanna quel che fai?
Sa che il problema è proprio questa domanda? L’omosessuale credente ha un problema in più rispetto all’omosessuale tout court, perché è continuamente messo in discussione nella sua identità da questo “ma come fai?”.
Siamo considerati come qualcosa che non può
esistere e nella quotidianità è drammatico. Noi dobbiamo fare più di un coming out: quello del gay che non nasconde più la propria identità e quello del credente che non si vergogna più della sua fede. I gruppi sono nati per creare un ambiente dove non sentirsi perennemente in discussione: l’obiettivo è valido ancora oggi.
E lavorare perché nella Chiesa qualcosa cambi?
C’era, ed è rimasto vivo. La differenza però è che non c’è più alcuna aspettativa rispetto a un cambiamento. Anzi, direi che nei documenti ufficiali c’è un progressivo distinguere finalizzato a condannare.
Qual è lo spirito del Guado?
Aiutare le persone a essere se stesse e a uscire dalla solitudine, ma anche a vincere l’ipocrisia istituzionalizzata per cui alcuni cattolici esaltano a parole la continenza che non vivono e cercano la promiscuità che condannano. Quelli sospesi tra la sauna e il monastero. Il Guado è un luogo dove poter tranquillamente essere se stessi, in un’aggregazione che il mondo gay non dà.
Cioè?
Poter stare a tavola senza dover nascondere niente: il gesto affettivo, ma anche il confronto sui problemi di una relazione di coppia… Tra noi ci sono moltissime coppie, alcune stanno insieme da 25/30 anni: per persone di una certa età, che non hanno fatto una scelta di visibilità a 360 gradi, è importante avere un contesto dove lasciare emergere la normalità dell’omosessualità.
Come un cattolico omosessuale vive la sessualità?
In forme molto diverse: la risposta non può essere insegnata, ognuno arriva alla sua sintesi. Io posso dire che sono in coppia, che col mio compagno faccio anche sesso e che sono cattolico. La mia sintesi è teologica: «Pecca forte, credi fortiter».
C’è nell’associazione una valenza di cura sociale?
Sì. L’omosessualità non è una fragilità specifica, ma genera alcune situazioni peculiari come la solitudine in vecchiaia. Penso a Nino, un socio che è stato ricoverato a lungo in ospedale; ci siamo detti: «se lo lasciamo tornare a casa da solo, siamo una schifezza».
Ognuno di noi ha un ambiente in cui può essere se stesso, ma quando arriva la vecchiaia, sei solo e ti portano all’ospizio, non è che puoi metterti a raccontare ad estranei cos’è la tua vita. Perdi un pezzo, e non lo puoi più neanche raccontare.
Sa cosa vuol dire per una persona che rimane vedova dopo 25 anni non potere elaborare il lutto perché nessuno sa? Anche l’associazionismo gay deve porsi il problema di fare qualcosa.
Crede che ci sia in Italia un clima di omofobia?
C’è una omofobia di pancia, che è la radice del problema. Io ho ritrovato un amico dopo molti anni, lui mi ha raccontato della sua famiglia, io del mio compagno, una sera gli ho detto: «sai che ero innamorato di te?». Lui è andato in crisi, per l’omofobia di pancia.
Se c’è l’intelligenza, dalla pancia poi si prendono le distanze, altrimenti diventa violenza. Dobbiamo arrivare a fare dell’omosessualità una cosa banalmente normale, però questo spaventa la Chiesa, perché mette in discussione principi assodati: le coppie omosessuali fedeli scompaginano le carte.
Ma la verità è sinfonica, lo dice Von Balthasar, non io.