Islam. Teologia femminile e della liberazione
Articolo di Giuseppina D’Urso* pubblicato su Adista Segni Nuovi n° 15 del 20 aprile 2019, pp.10-11
È possibile una teologia declinata al femminile nel mondo islamico? Il 15 marzo si è discusso di questo durante un incontrodibattito svoltosi presso la Fondazione Sangalli di Firenze, intitolato “Donne e teologie nel mondo islamico. Il Corano tra libertà e giustizia di genere”. Incontro originato dal libro Qur’an of the Oppressed: Liberation Theology and Gender Justice in Islam dello studioso Shadaab Rahemtulla.
A discuterne la pastore valdese Letizia Tomassone, Margherita Picchi del FSCIRE di Bologna e l’Imam di Firenze Izzeddin Elzir. La serata è stata dedicata all’avvocata e attivista iraniana Nasrin Sotoudeh che, per la sua lotta in difesa dei diritti delle donne, è stata condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate.
Nella breve introduzione, Deborah Spini ha posto in luce come il libro in esame cerchi di collegare paradigmi interpretativi, linguaggi e visioni diversi tra loro, attraverso una “critica immanente”, che opera entro specifiche tradizioni culturali pratiche e teorie liberatorie interne alle medesime tradizioni. Vari sono gli ambiti di attuazione di tale critica: il ruolo della donna, il tema della razza, la costruzione di identità nazionali.
Letizia Tomassone e Margherita Picchi si sono alternate nel ritrarre i quattro “teologi della liberazione” di matrice islamica protagonisti del testo di Shadaab Rahemtulla. Questi è uno studioso di origine indo-canadese che insegna in Giordania. I teologi di cui tratta sono: l’indiano Asghar Ali Engineer, il sudafricano Farid Esack, l’afroamericana Amina Wadud e la pakistana Asma Barlas. Tutti leggono il Corano in base all’esperienza di oppressione sociale, di schiavitù, di sessismo e di razzismo, mettendone in luce le potenzialità di giustizia. A loro giudizio leggere direttamente il Corano significa togliere autorità agli ulema e alla loro pretesa di legiferare sulle vite.
Questa critica è molto evidente in Engineer, sciita indiano che, escluso come dissidente dalla sua comunità, contesta un’autorità religiosa che si impone come dominio sulle esistenze dei singoli. Egli lavora sui concetti di pluralismo e di laicità; il Corano contiene una rivelazione che dovrebbe essere soggetta a una “reinterpretazione creativa” che ne risalti lo spirito rivoluzionario capace di parlare all’oggi grazie a un approccio basato su ragione ed esperienza contemporanea, superante la visione medievale ancora offerta dalle scuole islamiche. Engineer inoltre enfatizza l’uguaglianza tra uomo e donna, ritenendo affermata dal Corano la parità di genere, ma sorvola sull’oggettivo androcentrismo che invece molti esegeti evidenziano. Tuttavia egli sottolinea la questione della giustizia sociale e della povertà: non può esistere devozione senza equità sociale. Solo gli oppressi possono realmente interpretare il testo sacro.
Il sudafricano Farid Esack parla di “jihad di genere”. La sua è la storia di una minoranza entro una minoranza (islamica e di colore), con una situazione familiare sofferta che lo rende sensibile alle questioni di genere, di cui compie un’analisi intersezionale, che unisce lotta di classe, problemi razziali e differenze di genere. In particolare si dedica a un’analisi non accademica della lotta anti-apartheid islamica. La domanda che si pone come esegeta è: qual è il vero significato del testo? Qual è il metodo corretto? A suo giudizio è impossibile un’interpretazione univoca, il che non significa che il Corano non abbia un significato universale, ma tale significato deve essere di continuo riscoperto. Neutralità vuol dire solo accondiscendenza allo status quo, e quindi all’eventuale ingiustizia. Bisogna uscire dalla logica della neutralità per prendere le parti degli oppressi.
Terzo personaggio esaminato è Amina Wadud, di famiglia molto povera, cristiana, convertita all’islam nel periodo accademico. Ella compie una raffinata esegesi del testo in arabo del Corano, evidenziandone il tema della giustizia di genere. Come altre teologhe di colore rifiuta l’etichetta di femminista perché legata al mondo del femminismo bianco. Importante è la distinzione fra il Corano e le sue interpretazioni. Il testo sacro non esaurisce l’esperienza di Dio, ma ne coglie l’essenziale: il concetto di uguaglianza fra uomo e donna. Inoltre l’esperienza coranica deve basarsi su quella, spesso di oppressione e di sofferenza, di chi legge. Quindi il Corano non può essere usato per legittimare altra sofferenza e la subordinazione femminile. Aspetti invece legittimati dalla shari’a, insieme alla conseguente struttura patriarcale. Emblematico il paradigma di Agard, abbandonata da Abramo, simbolo della sofferenza della donna e della giustizia di genere da inserire nell’etica islamica.
Il quarto e ultimo ritratto è quello della pakistana Asma Barlas. Di origine benestante, studia nelle migliori scuole e diventa una diplomatica. Non ha quindi una formazione religiosa. Nel 1983 è costretta a lasciare il Pakistan perché contraria sl regime. Emigra negli USA che comunque critica per l’appoggio fornito al governo del suo Paese. Quindi la sua contestazione è duplice, verso il conservatorismo interno e verso il neocolonialismo euroamericano. Non conosce l’arabo, e la sua esege- si si basa su traduzioni. Al pari di Wadud rifiuta il termine femminista perché riferito alle teologhe femministe bianche che considerano le colleghe di colore come “sorelle altre”. La sua domanda fondamentale è: “Il Corano è un testo patriarcale?” La risposta è no. Né in senso tradizionale, perché Dio non è padre perché non è maschio, né in senso moderno in quanto a suo parere non esiste nel Corano una differenziazione sessuale.
Ma questa argomentazione è debole, i versetti del Corano vanno considerati in modo critico e non apologetico, e perciò contestualizzati storicamente. Più interessante è l’interpretazione della differenza di genere che la Barlas offre: il testo sacro non avrebbe una posizione binaria, bensì polare. La polarità sarebbe caratterizzata dall’interconnessione e non dall’opposizione, entro tuttavia una visione che, pur ribadendo l’uguaglianza fra uomo e donna, rimane essenzialistica della stessa donna.
Il commento finale all’incontro è stato affidato all’Imam Izzedin. Egli ha sottolineato l’importanza del confronto, contro ogni chiusura. Sulla questione della donna nell’Islam gli autori citati sono partiti dall’esperienza personale.
Da questo l’Imam ha tratto alcune considerazioni. L’importanza della libertà, che prescinde da ogni testo sacro o forma di pensiero: “Dio ci ha creato liberi”, quindi è un atto di responsabilità usare di questa libertà. Il Corano è parola di Dio e ha valore universale, ma la Sunna si riferisce a “fatti” contingenti e fallibili. Per quanto concerne i rapporti tra uomo e donna, infine, tutto è condizionato dalla realtà politica, gli studiosi sono influenzati dal governo cui sono soggetti.
Ad andare avanti dovrebbe essere chi realmente è più capace, maschio o femmina. La donna deve essere libera di decidere, e deve vivere la propria vita. I testi sacri sono soggetti a interpretazione. Ma purtroppo la donna è passata dalla subordinazione al maschio a quella della società, che risponde comunque a gusti maschili. Un’ottima lezione.
* Giuseppina D’Urso è volontaria dell’Associazione “La Tenda di Gionata”, nonché di Pax Christi Italia.