Famiglie gay. L’interesse del bambino
Articolo di Carlo Rimini pubblicato su La stampa del 12 gennaio 2013
Leggendo in controluce la sentenza della Cassazione depositata ieri, si vedono immagini di profonda sofferenza. Sono frammenti interrotti: non un racconto dettagliato, perché la Cassazione non ha il compito di ricostruire i fatti, ma solo quello di interpretare il diritto e applicarlo ai fatti già accertati nei precedenti gradi del giudizio. Le parti sono i genitori non sposati di un bambino. La madre è stata tossicodipendente ma ha superato il suo problema con l’aiuto di un’altra donna alla quale si è legata fino ad iniziare con lei una convivenza, scoprendo una nuova dimensione della propria sessualità.
In un altro fotogramma la Cassazione descrive la sofferenza e la rabbia del bambino che ha assistito alla violenta aggressione del padre verso la compagna e convivente della madre: l’uomo non poteva accettare, anche per ragioni culturali e religiose, che suo figlio crescesse con due donne e non ha trattenuto le mani.
Il tribunale ha cercato di raccogliere i cocci: ha previsto che il padre e il bambino potessero incontrarsi solo alla presenza degli operatori dei servizi sociali fino a che il bambino non avesse riacquistato fiducia nel papà e quest’ultimo non avesse dato prova di saper controlla la sua ira.
Ma il padre non si è adeguato al progetto e si è rivolto alla corte d’appello: due donne, ha affermato, non possono crescere suo figlio. E perché no? Il giudice valuta solo l’interesse del bambino sulla base dei fatti e cerca di proteggerlo da ciò che può compromettere la sua serenità. L’unica cosa che è apparsa sicura al giudice è che un padre rabbioso che alza le mani contro una donna di fronte a suo figlio non è un genitore idoneo. La convivenza omosessuale della madre non è in sé rilevante, sino a che non si traduce in comportamenti dannosi per il bambino. Lo stesso principio era già stato affermato dal tribunale di Napoli nel 2006 e dal tribunale di Bologna nel 2008.
La corte d’appello ha quindi confermato la sentenza del tribunale e ha affidato il bambino alla mamma. Il padre, non convinto, si è rivolto alla Cassazione. Ma nel nostro ordinamento, l’accertamento dell’interesse del minore è una valutazione dei fatti riservata ai giudici di primo e di secondo grado, la cui valutazione non può essere modificata dalla Cassazione. L’esito era quindi scontato: il ricorso è inammissibile. La madre non si è neppure curata di difendersi.
È tuttavia interessante la motivazione della sentenza della Cassazione: non si limita a dire – come generalmente avviene in questi casi – che il padre ha chiesto una nuova valutazione dei fatti, improponibile dopo la sentenza d’Appello, ma sottolinea che la tesi per cui la crescita di un bambino in una famiglia composta da due donne legate da una relazione omosessuale non garantisce lo sviluppo di un bambino non è sorretta da certezze scientifiche o dati di esperienza, ma si basa sul mero pregiudizio. Sono parole che hanno un peso, soprattutto considerando che il dibattito sui diritti degli omosessuali e sul loro rapporto con i figli è di grande attualità e non solo in Italia.